Intervista a Francesca Comunello, Professoressa Associata, Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale, Sapienza Università di Roma

 

E’ indubbio come la quarantena abbia portato tutti ad usare di più la tecnologia. L’Italia era un po’ indietro nel processo di digitalizzazione ma, di necessità-virtù, sembra aver accelerato, sia per l’esponenziale aumento di traffico dati e l’utilizzo di una gamma più ampia di strumenti e modalità comunicative, sia per quanto riguarda il “Going Digital” di persone che fino a questo momento avevano un grado di confidenza con la tecnologia molto basso. Pensi che siano avvenuti passi importanti verso una seria digitalizzazione del Paese e nella riduzione del digitali divide?

Certamente, i primi dati a disposizione (penso anche a quelli diffusi da Facebook a proposito delle sue piattaforme per le videocall) confermano la percezione che abbiamo tutti, anche a livello soggettivo, ovvero che stiamo utilizzando molto di più la connettività internet. Questo vale per le relazioni interpersonali (penso alle videochiamate, anche di gruppo, fatte per condividere con i propri cari i momenti di relax), ma anche per il mondo del lavoro e dell’istruzione. L’interazione online è diventata una necessità per molti, capace di compensare, almeno in parte, l’assenza di interazioni faccia a faccia. Questo ha consentito a (e in alcuni casi obbligato) fasce della popolazione poco avvezze all’utilizzo delle piattaforme digitali di appropriarsi di modalità di comunicazione prima inesplorate (o scarsamente esplorate), incrementando non solo il tempo che ciascuno di noi trascorre online, ma anche la gamma delle attività svolte attraverso le piattaforme digitali. Non dobbiamo però ignorare che nel nostro paese, certo più che in altri paesi europei, persistono realtà di esclusione digitale. Alcuni giorni fa, ISTAT ha diffuso un dato che non può che attenuare l’entusiasmo per la transizione al digitale del nostro paese: un terzo delle famiglie italiane, per esempio, non ha un PC o un tablet a casa, dato che cresce nel Meridione. Inoltre, solo il 6,1% dei ragazzi in età scolare vive in un nucleo familiare in cui è presente almeno un dispositivo per ciascun membro della famiglia (requisito sempre più importante in un momento in cui i genitori possono essere impegnati in attività di lavoro a distanza, mentre le lezioni dei figli si svolgono online). Se è vero che molte delle nostre attività si sono spostate online, creando opportunità di apprendimento e di addomesticamento di diverse piattaforme da parte di settori della popolazione che sin qui si sono dimostrati tiepidi nei confronti degli ambienti online, è altrettanto, drammaticamente, vero che una situazione come quella che stiamo vivendo rischia di acuire le diseguaglianze socio-culturali presenti nel nostro paese. Ritengo però che, quantomeno, la fase che stiamo attraversando abbia reso più chiaro e più centrale nel dibattito pubblico il ruolo che le piattaforme digitali possono avere, a vari livelli, nella nostra vita.

 

La tecnologia sta supportando anche chi lavora in modalità di smart working tramite sistemi di “remote collaboration” che stanno rendendo il lavoro a distanza il più possibile vicino a una situazione “normale”. Per alcune aziende era già una certezza, per altre una scoperta. Possiamo dire che sia stato definitivamente sdoganato lo smart working un po’ a tutti i livelli? Con quali prospettive? Lo smart working è una soluzione efficiente se eseguita saltuariamente e in maniera ponderata oppure è ipotizzabile e praticabile un inserimento sempre più massiccio di questa modalità di lavoro nelle aziende italiane e nella Pubblica Amministrazione?

Più che di vero e proprio smart working, in questa fase parlerei, prevalentemente, di lavoro da remoto. Il lavoro smart, o agile, è certamente una delle opportunità che, sin qui, il nostro paese non ha saputo cogliere fino in fondo. Ricordo di aver scritto un mio primo contributo su quello che allora chiamavamo telelavoro da giovanissima, alla fine degli anni Novanta; e già allora, ne avevano scritto altri prima e meglio di me (penso innanzitutto al compianto Patrizio Di Nicola). Tuttavia, sul piano dell’adozione su larga scala di tali modalità, non moltissimo è cambiato da allora. Non si è trattato, prevalentemente, di vincoli di tipo tecnologico, quanto piuttosto di criticità e resistenze sul piano culturale. Nella cultura organizzativa di troppe realtà del nostro paese prevale ancora una logica del controllo, scarsamente compatibile con modalità di lavoro smart. Tuttavia, penso che la transizione obbligata a forme di lavoro a distanza possa renderci maggiormente consapevoli delle opportunità che simili modalità offrono a imprese e lavoratori; penso, insomma, che potremo fare tesoro di tali esperienze anche per il futuro. Non dobbiamo però dimenticare anche i rischi che un’adozione non sufficientemente ponderata e consapevole di modalità di lavoro a distanza possono provocare. Bisogna cioè aver sempre presente la necessità di garantire forme adeguate di bilanciamento tra le attività professionali e la vita professionale, così come la centralità del rapporto interpersonale tra colleghi. Esistono molti esempi di applicazione virtuosa di tali modalità, attente al benessere del lavoratore oltre che alla mera produttività, da cui potremo certamente trarre utili linee guida.

 

Parliamo di Internet of Things. Abbiamo raggiunto una fase critica per il sistema sanitario (penso alla mancanza di medici e infermieri e all’impossibilità di spostarli da un ospedale all’altro, alla carenza di posti letto, alla difficoltà di gestione dei tamponi), così come non è facile l’acquisizione e la gestione dei dati che consentirebbero un maggior controllo delle misure adottate da parte delle Istituzioni, anche per problemi legati alla privacy. In che modo l’intelligenza artificiale può dare il suo contributo e supportare il sistema in questa fase così delicata?

In alcuni paesi assistiamo a un efficace ricorso all’intelligenza artificiale, ai big data e all’IoT, in queste delicate fasi. Penso alle sperimentazioni nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito di diagnostica, all’utilizzo di droni per il controllo del territorio, alle app per il contact tracking, che consentono di individuare chi è stato a contatto con persone colpite dal virus. I dati rappresentano ora, certamente, un’opportunità inedita per la gestione dell’emergenza e per il controllo della diffusione del contagio. Auspicherei un più ampio dibattito pubblico su questi temi, per individuare modalità di utilizzo di tali risorse che siano adeguate alle società democratiche, tentando di superare la sterile contrapposizione, proposta da alcuni, tra “salute” e “privacy”. Si tratta, cioè, di individuare standard ampiamente condivisi (e comprensibili alla popolazione), che consentano di applicare le soluzioni tecnologiche più adeguate senza indulgere in improvvisati esperimenti di sorveglianza di massa, come paventato da alcuni osservatori. Al contempo, si tratta di tutelare la privacy e i diritti fondamentali dei cittadini, senza per questo rinunciare a opportunità che in altri paesi hanno dimostrato elevati livelli di efficacia

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