Lo facciamo spesso durante a nostra esistenza, addirittura ci può capitare di farlo più volte all’interno della stessa giornata, in modi e tempi diversi. Per riflettere, per fuggire da qualcosa, per evitare incontri con gli altri o semplicemente per dedicarci un momento di pausa interiore.
L’isolamento, la ricerca di un rifugio sicuro in cui rinchiudersi, fanno parte da sempre della natura dell’uomo, siano essi luoghi mentali o fisici. Un modo per creare un distacco, una rottura con qualcosa che ci provoca turbamento, che non ci lascia in pace, che tedia la nostra esistenza o parte di essa, che limita la nostra libertà. Un momento per ragionare, resettare e ripartire.
Rifugio mentale e fisico, dicevamo, non necessariamente in maniera esclusiva. Anzi, non è raro che l’uno integri l’altro, perché spesso per scappar via da qualcosa che ci arrovella i pensieri, abbiamo bisogno anche di una traduzione materiale: uscire di casa, fare un giro in macchina, fare una passeggiata, chiudersi in una stanza, cercare la compagnia di una determinata persona. E’ l’inizio di un viaggio interiore che ci restituirà al mondo esterno cambiati, diversi, rinnovati.
Quella che ci troviamo ad affrontare oggi, però, è una situazione inedita per la quasi totalità di noi: un isolamento forzato, imposto dall’esterno. Senza alcuna possibilità di libera scelta su tempi, luoghi e modalità. O meglio, almeno così doveva e dovrebbe essere. Pensiamo alle migliaia di persone che nelle notti che lasciavano presagire lockdown e divieto assoluto di spostamento dal luogo in cui ci si trovava hanno assaltato stazioni, mezzi pubblici e autostrade per fuggire (e quindi rifugiarsi) verso quello che, all’alba di un periodo senza precedenti, rappresentava almeno dal punto di vista fisico il porto sicuro. Un istinto irrazionale, incapaci di comprendere le reali conseguenze di un gesto simile, tutto pur di “mettere in salvo” la propria, esclusivamente personale, condizione di vita quotidiana di lì in avanti. Perché è così che agisce la paura, ed è così che l’uomo reagisce per istinto di sopravvivenza quando intravede la minaccia, dimenticando di essere sì animale, ma senziente, che vive in comunità, dotato di ragione.
Ma tanto è stato, e per molti il raggiungimento di quel rifugio fisico è avvenuto. Poco importava, nel luogo di origine ci saremmo sentiti al sicuro, comunque più liberi e, in un certo senso, immuni. Sì, perché quelle scene da fuga della città, da “Io sono leggenda”, da film Hollywoodiano sull’apocalisse di turno, erano mosse dalla (ir)ratio che sapevano di ritirata con il nemico alle calcagna. Scappare era la soluzione più istintivamente-ragionevole, ancora ignari che di lì a poco le misure restrittive, la quarantena, il distanziamento sociale, i decreti, i divieti, le ordinanze, erano pronti a raggiungerci inesorabili in ogni singola periferia.
Giusto il tempo di tornare a casa per rendersi conto che l’intero pianeta aveva chiuso i battenti, impietosamente globalizzato come per altri pochi, straordinari eventi della storia. In modi e tempi diversi, nessuno escluso, oltre 7 miliardi persone alle prese con lo stesso nemico da combattere. Nessun fronte, nessuna trincea, nessun movimento di massa: soli, il più possibile distanti.
Quel rifugio sicuro aveva improvvisamente cambiato aspetto: il virus ci aveva raggiunti ovunque, così come le Leggi per impedirne la diffusione. Il lavoro, la libertà di incontrare chi vogliamo, di fare sport, di giocare, tutto sospeso a tempo indeterminato a favore di un isolamento che non sapeva più di scelta ristoratrice.
Una pseudo prigionia che ci ha messo difronte ad una condizione di vita cruda, irreale, ma con la quale fare i conti. Soli o con pochissime relazioni limitate a quelle familiari, chiusi nelle stesse quattro mura per 24 ore (o poco meno) al giorno, per giorni e giorni, con una quantità esagerata di tempo a disposizione, ma pochissime possibilità per dargli valore. Improvvisamente ci siamo resi conto del bene più prezioso che abbiamo, la libertà. Scrive Massimo Gramellini: “La libertà non si può spiegare. Si può soltanto respirare senza pensarci, come l’aria, e come l’aria rimpiangerla quando non c’è più. A differenza dei dogmi, non reclama certezze e non ne offre. I suoi mattoni sono i dubbi e gli errori, gli slanci e gli abusi. I suoi confini sono labili, mobili. E la sua rovina è l’assenza di confini, che le toglie il piacere sottile della trasgressione”.
E quell’isolamento, quello del porto sicuro, ora non sa più di privata e libera evasione, ma non per questo deve rappresentare un limite, una rovina. La pandemia e il distanziamento sociale ci restituiranno un mondo che non sarà più quello di prima, e il più grande rammarico a livello umano e intellettuale sarà non averlo compreso e non aver sfruttato il tempo con noi stessi per quel viaggio interiore capace di migliorarci. Scrive Marco Aurelio nel “De Otio”, in un passaggio innovatore e provocatorio dove rinfaccia ai contemporanei la cattiva abitudine di ricercare luoghi in cui ritirarsi, in campagna, sulle rive del mare o sui monti: “Tutto questo, però, rivela una grande ignoranza, ché ti è possibile ritirarti in te stesso in qualunque momento tu voglia. In nessun luogo, infatti, l’uomo trova un rifugio più sereno e tranquillo che nella sua anima”. E per dire di aver sfruttato al meglio questo tempo sospeso, in quel “campicello al proprio interno” (così lo chiama l’autore) dovremo aver coltivato una nuova gerarchia di valori che anteponga il benessere di tutti alla ricerca egoistica di quello personale, l’equilibrio all’eccesso, il rispetto alla noncuranza, un agire solidaristico a indifferenza ed egoismo. Un nuovo ordine da mettere in pratica, quando sarà il momento, non più soli e distanti, ma in stretta interconnessione e collaborazione con l’altro.