Intervista a Mauro Magatti, docente di Sociologia della Globalizzazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Questo tornado del Covid-19 che si è abbattuto su tutti noi ci ha insegnato che oltre a un distanziamento fisico, imposto per evitare il diffondersi del contagio, c’è stato anche una sorta di distanziamento sociale. Cosa ne pensa?
L’esperienza di questi mesi tocca le relazioni sociali da tanti punti di vista. Abbiamo capito, per esempio, che l’altro è un veicolo potenziale di contagio, è una minaccia. Ma la differenza con il passato è che non è più necessariamente un gruppo sociale particolare a costituire un pericolo, che siano immigrati o chi vive nella periferia, ma può essere un familiare, un amico o un collega. Il contagio ci ha anche fatto capire che in realtà è difficile separarsi, e che bisogna stare attenti gli uni agli altri: nella misura in cui un altro può essere contagioso per me, io lo posso essere per un altro, è un elemento di ambivalenza. Si tratta di capire se questo confinamento, il lockdown, e poi il distanziamento, produrranno o meno una nuova grammatica delle relazioni, e se questi cambiamenti saranno negativi o positivi.
Secondo alcuni il virus è stato una livella sociale, ha colpito tutti indistintamente. Secondo altri, invece, ha acuito le differenze: giovani contro anziani, lavoratori ‘garantiti’ contro precari, ecc.
In un primo momento, quando c’era il picco dell’epidemia, ci siamo sentiti tutti nella stessa condizione di fronte all’attacco virale, addirittura questa situazione ha prodotto un effetto di solidarietà, generata dall’idea di essere tutti sulla stessa barca. Ma appena il picco epidemico è stato superato, e il pericolo imminente non è stato più visibile, ci siamo ritrovati in realtà in condizioni diverse. C’è chi non ha subito alcun danno, o addirittura ci ha guadagnato, e chi si è trovato in difficoltà ma in una situazione stabile. E poi c’è chi è scivolato in una condizione di forte precarietà o di impoverimento. In questa seconda fase, quindi, direi che è l’effetto divisivo a prevalere. Se alla fine di tutto ci sarà il senso della ritrovata solidarietà o, viceversa, si scatenerà una guerra di tutti contro tutti, non lo sappiamo, dipende da tanti fattori.
Il sistema sanitario nazionale è finito nell’occhio del ciclone, accusato di non essere stato in grado di reggere l’onda d’urto della pandemia. Lei ha anche firmato un appello per chiedere il potenziamento della sanità pubblica: è davvero così importante?
Il Coronavirus ci ha dimostrato che la sanità è un bene comune, pubblico, e nel corso della pandemia è stato evidente che non può essere gestita dalle forze del mercato. Ancora oggi la sanità è ampiamente inadeguata rispetto alla soluzione dei problemi. La sanità è bene che resti pubblica, basta vedere cosa sta accadendo negli Stati Uniti: l’effetto che il sistema sanitario ha avuto sulle disuguaglianze sociali è stato immediato anche nel momento dell’epidemia. Naturalmente dentro una sanità ripensata su base pubblica ci sono due temi che restano: il rapporto tra territorio e ospedale e il rapporto tra l’operatività dell’ospedale pubblico e quella dell’ospedale convenzionato.
Sul Corriere della Sera ha scritto un editoriale chiedendo l’avvio di una “Operazione bene comune Italia”: di cosa si tratta?
In questo momento, con un impatto economico potente che avrà effetti che non è possibile riassorbire nel breve termine, serve che lo Stato si possa indebitare, proprio come ha fatto. E sappiamo tutti che l’ha fatto grazie alla Bce. Servono risorse a livello europeo, ma è bene però che sia necessario anche coinvolgere più direttamente le persone, i cittadini, per lo meno il 30-40% della popolazione. Mi riferisco a tutte quelle persone, prevalentemente dai 50 anni in su, che sono possessori della ricchezza in particolare mobile, che l’Italia ha in quote abbondanti. Sappiamo di avere un grave problema di indebitamento pubblico, ma se si guarda all’indebitamento complessivo l’Italia sta meglio di altri paesi. Come scrivevo sul Corriere, secondo le stime della Banca d’Italia ci sono 1.500 miliardi di euro di risparmi liquidi o semiliquidi, una buona cifra. Proviamo a immaginare di avviare progetti che non siano immediatamente statali, ma che abbiano carattere pubblico collettivo, comunitario: in questo modo si comprende che questo problema non lo risolviamo perché c’è la ‘magia’ della finanza, ma perché superiamo la mentalità per cui ciascuno pensa di salvarsi per conto proprio, e ricostruiamo insieme un futuro che ci coinvolga tutti. Il valore di quella proposta è qualcosa che ha un valore sì economico, perché se mobilitassimo 150 miliardi di nostri risparmi per cose sensate dal punto di vista dello sviluppo delle nostre comunità avrebbe un impatto economico significativo, ma ha in più un forte valore simbolico, di uno sforzo comune.
Come riusciremo a sopravvivere in questa “società del rischio”, come l’ha definita? E siamo davvero pronti a sfruttare tutte le potenzialità della tecnologia?
Pronti non lo eravamo, e quello che è successo ha dato un forte impulso a capire che il digitale ha delle potenzialità che non sono infinite, ma che sono sicuramente significative. Ovviamente c’è il problema della cosiddetta ‘digitalizzazione della sorveglianza’: il tema di fondo è come riusciamo a entrare nell’età del digitale, che consente di ripensare tante cose, come lavorare e come muoversi, salvaguardando la nostra libertà. E questo vuol dire che si combatte la sorveglianza se si investe sul tema della responsabilità. Ma il destino è segnato.
Come giudica l’operato del Governo italiano e dell’Europa?
La grande qualità di Conte, e questa è la sua vera expertise, è di essere un negoziatore, l’ha fatto per tutta la vita. Gli deve essere riconosciuto un merito: ha negoziato molto bene in Europa, la sua competenza ha consentito di cambiare le posizioni iniziali, che erano molto diverse. Il premier ha quindi il grande pregio di aver gestito molto bene questa trattativa, e il merito va ovviamente anche a Gentiloni e a Sassoli. Una delle cose che questo vero shock economico, sociale e culturale provocherà è che nulla sarà più come prima, che dovremo cambiare il nostro modo di essere e di fare. Ecco, pur tra mille resistenze e opposizioni l’Europa è stata l’istituzione che in questi mesi ha fatto cambiamenti davvero significativi, è stata capace più di altre istituzioni di trasformarsi. Solo un anno fa sembrava immobile, inerme, incapace di aderire alla realtà; in questi mesi, invece, bisogna dare atto all’Unione europea di aver fatto dei grandi passi in avanti.