*L’autore è Pneumologo, Past Presidente della Società Italiana di Pneumologia

In un articolo comparso recentemente su una rivista medica internazionale[1], un gruppo di esperti ha fatto il punto sulla pandemia che stiamo vivendo. Scritto in aprile, in piena emergenza, l’articolo analizza le problematiche organizzative e etiche messe a nudo dalla pandemia e disegna poi i cambiamenti attuabili nel prossimo futuro per preparare il SSN non soltanto alla fase immediatamente successiva al picco epidemico, ma anche ad altre ondate pandemiche che possono originare da virus respiratori.

Per comprendere a fondo le due caratteristiche che hanno contrassegnato l’inizio della malattia nel nostro Paese, la rapida diffusione e la elevata mortalità, saranno certamente necessari mesi. Un fattore alla base della diffusione è stato peraltro sicuramente l’afflusso in pronto soccorso o nell’ambulatorio del proprio medico di famiglia di molte persone con Covid 19 (con o senza sintomi) privi di protezione. In un certo senso in Italia la Covid-19 (la malattia causata da SARS- CoV-2) è stata ed è una “infezione ospedaliera”.

Per quanto riguarda la mortalità, oltre alla elevata percentuale di popolazione anziana almeno in parte affetta da più malattie croniche, che è tipica della situazione italiana, una causa è stata individuata nel ritardo con cui alcune regioni hanno deciso il confinamento (c.d. “lockdown”), ritardo almeno in parte associato alla mancanza di una organizzazione territoriale. Questa infatti, se presente, consente di sorvegliare le persone confinate a casa con sintomi di malattia e – attraverso un monitoraggio costante – individuare rapidamente i primi segni di aggravamento.

Le problematiche organizzative sono originate da:
1. la scelta di aver diviso il sistema sanitario nazionale in 21 servizi sanitari regionali differenti;
2. il progressivo de-finanziamento del servizio sanitario nazionale (SSN) con una riduzione nella disponibilità dei posti letto in ospedale senza un reale e sostanziale aumento delle risorse disponibili sul territorio, cioè fuori dell’ospedale;
3. un modello di SSN costruito soltanto sulla prevenzione e il trattamento delle malattie croniche non trasmissibili, trascurando l’organizzazione pratica delle emergenze infettive, peraltro comuni durante la stagione invernale;
4. il ruolo sempre minore (e sottodimensionato rispetto alla importanza epidemiologica delle malattie respiratorie) attribuito negli anni ai reparti di Pneumologia e agli ambulatori Pneumologici sul territorio.

In campo etico, tra le problematiche originate dalla Covid-19, oltre alla limitazione quasi assoluta della libertà personale e alla riduzione di quelle barriere di difesa individuale che noi definiamo con termine anglosassone “privacy”, ben più grave è stato il problema che ha riguardato la scelta di quali pazienti con malattia grave avviare a un trattamento (spesso salvavita) di ventilazione in terapia intensiva o semi intensiva in pneumologia quando l’afflusso di persone malate gravi era superiore al numero di posti-letto disponibili per questi trattamenti.

Questa ridotta disponibilità di trattamento può aver contribuito alla iniziale grande mortalità della malattia nel nostro paese (o in alcune zone di esso). Problemi di questo tipo si sono presentati (anche se su scala minore) durante altre epidemie in altri paesi e non sono mai stati completamente risolti. Esistono protocolli che, almeno in teoria, aiutano il medico a decidere chi assegnare alla terapia intensiva e subintensiva e a chi invece negarla. A posteriori, però, questi protocolli, quando analizzati nelle loro conseguenze, si sono rivelati insoddisfacenti. E’ anche chiaro che in Italia queste scelte hanno aggiunto stress alla attività medica, spesso frenetica, dei giorni in cui il contagio si è diffuso. Ma il messaggio fondamentale da recepire è che i problemi organizzativi possono generare problemi etici: l’esempio più banale è costituito dal fatto che se ci sono pochi letti per assistere pazienti critici il problema etico di scegliere chi mandare a questi trattamenti si ingigantisce. Quindi quanto meglio vengono risolti i problemi organizzativi tanto minori saranno i dilemmi etici per i medici (e le loro conseguenze per le persone malate).

Venendo alle lezioni che possono essere tratte in questa fase della pandemia non ci sono dubbi che la frammentazione in 21 piccoli sistemi sanitari regionali abbia determinato non solo incoerenza nel trattamento dell’epidemia, ma anche confusione nell’opinione pubblica, confusione controproducente in una fase emergenziale. Inoltre alcune regioni hanno scelto nel passato di dare la possibilità a soggetti privati di fornire i servizi sanitari pagandoli con denaro pubblico. La regione dove questa scelta è stata più accentuate, cioè la Lombardia, è quella che ha avuto il maggior numero di vittime. Tutte le regioni, anche se in misura differente, hanno constatato il limite di un’assistenza centrata solo sull’ospedale (peraltro, come detto, sotto-finanziato): il territorio può svolgere un ruolo fondamentale nella prevenzione e nel trattamento non solo delle malattie croniche (che sono le più diffuse in questo momento in Italia) ma anche nel corso di emergenze infettive acute come quella che stiamo in questo momento attraversando. Deve però averne le risorse.

Dato che la Covid-19 (come anche l’influenza) è una malattia respiratoria, una rete ospedaliera e territoriale, organizzata per ridurre l’impatto sulle persone delle malattie croniche respiratorie (le più comuni: enfisema polmonare, asma, tumore del polmone) può funzionare efficacemente anche in caso di epidemie da virus respiratori (non solo l’attuale pandemia). In quest’ultima situazione, è proponibile una classificazione dei pazienti in quattro classi:
1. le persone con scarsi sintomi e persone di assistenza affidabili che possono essere seguiti a domicilio (cioè sul territorio);
2. le persone da ospedalizzare ma assistibili in unità di medicina interna in quanto non critici;
3. persone più gravi che necessitano di monitoraggio e ventilazione non invasiva da avviare alle unità operative di pneumologia;
4. persone più critiche che necessitano di terapia intensiva.

L’articolo propone come modello possibile (ovviamente aggiornato) per collegare operativamente ospedale e territorio la rete antitubercolare, che qualche decennio fa ha contribuito a ridurre e poi a quasi azzerare la tubercolosi: come molti di noi ricorderanno la rete era costituita da ospedali sanatoriali ed ambulatori (dispensari) che presidiavano il territorio.

Per il breve e medio termine è auspicabile una migliore preparazione per una nuova epidemia, che nessuno si augura ma che potrebbe verificarsi. Il suggerimento è meno banale di quanto sembri. Infatti un documento del Centro per il Controllo delle Malattie (CCM) e dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) nel 2007 aveva già posto le basi per questa preparazione, definendo non solo le misure immediate da prendersi durante una pandemia da virus respiratorio, ma anche quali presidi predisporre nel periodo inter-pandemico (ad esempio ampie scorte di dispositivi di protezione personale e di apparecchiature per l’assistenza ai pazienti). Questo documento è rimasto evidentemente disatteso e le misure in esso contenute non sono state messe in pratica, facendoci trovare impreparati.

Oggi il numero di dispositivi per l’assistenza a pazienti critici è sicuramente aumentato rispetto all’inizio della attuale pandemia. Essi dovranno essere mantenuti in condizioni operative da un’adeguata manutenzione e immagazzinati per una eventuale altra emergenza. Per l’immagazzinamento si possono utilizzare container, che possono facilmente essere mobilizzati dove servono.

Tuttavia al di là delle apparecchiature vi è il tema di chi queste apparecchiature deve fare funzionare. Per costruire e mantenere la capacità professionale di assistere pazienti critici e sub-critici, è proponibile utilizzare il periodo invernale come una “scuola” sia organizzativa sia clinica di operatività ospedaliera e territoriale. Infatti non solo i medici ma anche i pazienti sanno che, ad ogni inverno, i letti ospedalieri disponibili per le persone malate con problemi respiratori sono gravemente insufficienti. Durante questo periodo (che per solito va da dicembre a marzo) letti nell’intero ospedale e qualche volta anche corridoi possono essere occupati da pazienti con problematiche respiratorie. Questo periodo può essere utilizzato (con una parziale interruzione delle normali attività programmate in elezione) per addestrare infermieri e medici dei reparti non pneumologici a gestire pazienti respiratori. Con una assistenza migliore della attuale, che è sempre dettata dalla emergenza. Oltre a questa migliore gestione dell’immediato un tale programma consentirebbe anche formazione e aggiornamento alla assistenza di future epidemie respiratorie.

Tutte le azioni proposte presuppongono un importante impegno economico che potrebbe peraltro usufruire dei finanziamenti europei – finalizzati alla sanità – che si renderanno disponibili nel prossimo futuro. Tenendo conto che una organizzazione per tempo pianificata costa meno, molto meno, in termini non solo economici ma anche sociali, di una improvvisata nella emergenza.

[1]     Nardini S, Sanguinetti CM, De Benedetto F., Baccarani C, Del Donno M, Polverino M, Annesi-Maesano I, SARS-CoV-2 pandemic in Italy: ethical and organizational considerations. Multidisciplinary Respiratory Medicine, 2020, 15: 672 e sgg.

 

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