In questi ultimi giorni alcuni importanti avvenimenti hanno segnato lo scenario internazionale, eventi troppo sottovalutati dalla stampa internazionale. Mi riferisco, in particolare, allo scambio di prigionieri avvenuto in Turchia tra gli Stati Uniti d’America e la Federazione Russa, nonché alla eliminazione, da parte verosimilmente di Israele, di alcuni dei leader più importanti tra le fila dei suoi nemici. Dobbiamo interrogarci se e come questi avvenimenti possono giocare nella durissima campagna elettorale che si sta sviluppando negli USA.

Dal punto di vista dell’amministrazione Biden, e quindi della campagna elettorale di Kamala Harris, essi hanno un effetto totalmente opposto. La liberazione degli ostaggi (perché di questa categoria di prigionieri si trattava) americani, europei e russi del dissenso è avvenuta in cambio di agenti dei servizi segreti russi che in Occidente erano stati condannati, con processi pubblici, per omicidio o per conclamate attività di spionaggio.

Questo evento ci dice molte cose: innanzi tutto che canali riservati di dialogo e di confronto tra Stati Uniti e Russia permangono, sono attivi e producono risultati; questa è comunque una buona notizia per il mondo! Come ai tempi della guerra fredda esisteva un “telefono rosso” tra le due superpotenze, finalizzato ad evitare guerre per errore o cattive interpretazioni delle mosse dell’avversario, così oggi le attività delle agenzie di intelligence sono anche finalizzate a mantenere aperto il confronto su questioni molto delicate.
Anche la qualità degli ostaggi scambiati è significativa del diverso ruolo che i due protagonisti stanno giocando nello scenario internazionale: gli Stati Uniti hanno riportato a casa non soltanto propri cittadini ingiustamente (forse…) accusati ma non condannati di essere delle spie, ma anche cittadini europei vittime della censura russa sui media occidentali e, soprattutto, hanno ottenuto la liberazione di cittadini russi incarcerati in quanto dissidenti politici che rischiavano di fare la stessa fine di Aleksej Naval’nyi. Gli Stati Uniti cioè, sono così riusciti a riaffermare il ruolo di paese guida nella tutela dei diritti democratici e della libertà di pensiero a livello mondiale.

La Russia di Putin ha chiesto in cambio la liberazione di cittadini russi accusati e condannati per essere delle spie e, in alcuni casi, degli assassini spietati che hanno operato in Occidente per eliminare altri cittadini russi in esilio perché dissidenti. Putin insomma ha voluto riaffermare, soprattutto a fini interni, che gli agenti al suo servizio, anche coloro che si macchiano di crimini orrendi, possono stare tranquilli, la sua Russia farà sempre di tutto per tutelarli. Ma oltre a queste considerazioni, per così dire di merito, quello che colpisce è il momento in cui esso è avvenuto: in piena campagna elettorale per le presidenziali USA, anzi in una fase particolarmente delicata che, dopo la rinuncia di Biden, vede crescere i consensi intorno a Kamala Harris a scapito di Donald Trump. È indubbio che il successo dell’operazione di scambio vada valutata come un grande risultato dell’amministrazione americana uscente e quindi dei Democratici e quindi di Joe Biden e di Kamala. A maggior conferma di questo giudizio va ricordato che, solo pochi giorni prima, Trump aveva accusato Biden di non riuscire a riportare a casa gli stessi americani ora liberati. Bisogna allora interrogarsi sul perché Putin abbia scelto proprio questo momento per finalizzare l’operazione.

L’autocrate russo è sicuramente un fan di Donald Trump a cui lo accomuna un certo modo di intendere il potere e una cultura contraria a tutte le forme di dissenso e di diversità. Ma vuoi vedere che Putin, essendo soprattutto un grande pragmatico, sa che se vincono i Democratici dovrà venire a patti con l’Occidente per risolvere la guerra in Ucraina e, forse per primo, grazie alle sue efficienti fonti di informazione, ha compreso che Kamala potrebbe effettivamente farcela a divenire Presidente degli USA e quindi è meglio mettere in cassaforte qualche credito nei confronti della possibile nuova amministrazione democratica?
Al contrario è assolutamente evidente che Benjamin Netanyahu sta puntando tutte le sue carte su Trump. Due operazioni con l’inconfondibile marchio di fabbrica del Mossad sono state effettuate una di seguito all’altra. L’uccisione prima di Fuad Shukr, vicecomandante di Hezbollah avvenuta in un quartiere di Beirut e poi l’eliminazione a Teheran, subito dopo la cerimonia di insediamento del nuovo capo del governo iraniano, il moderato Pezeshkian, di Ismail Haniyeh capo politico di Hamas nonché principale sostenitore di un possibile accordo per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e per la liberazione degli ostaggi israeliani in mano a Yahya Sinwar, capo militare di Hamas e autore del terribile massacro del 7 ottobre 2023, che invece Israele non riesce a trovare. Queste operazioni sono la pietra tombale sul negoziato su cui tanto si è spesa l’amministrazione americana guidata da Biden e dal segretario di stato Blinken.

Netanyahu sa che i Democratici americani sono sulla linea dei “due stati per due popoli” così come buona parte del resto del mondo a cominciare dall’Europa, passando per la Cina, la Russia e la Turchia, e quindi teme l’eventuale vittoria di Kamala Harris. La linea dell’attuale governo di Israele non riconosce ai palestinesi alcun diritto territoriale, continua ad alimentare gli insediamenti di coloni israeliani in Cisgiordania e sta massacrando civili inermi nell’intento di cacciare tutti i palestinesi da Gaza. Una linea che non riconosce e non tollera la creazione di uno Stato sovrano palestinese nei territori definiti dalla risoluzione ONU del 1967. Si potrebbe dire che Netanyahu ha fatto propria la linea di Hamas che rivendica la creazione dello Stato di Palestina “dal fiume al mare”, rovesciandola a favore di una grande Israele che va appunto dal Mediterraneo alle rive del fiume Giordano. Il governo israeliano non ha nessuna intenzione di arrivare ad un accordo, non mette al primo posto la vita degli ostaggi in mano ad Hamas, non esita di fronte al rischio di allargare il conflitto anche al Libano e soprattutto all’Iran. Tutto il contrario di quanto cerca di fare l’amministrazione americana guidata da Biden e Harris.

Se questa analisi è giusta allora dobbiamo concludere che solo la vittoria di Kamala Harris può consentire un negoziato equo per chiudere il conflitto in Ucraina e per far ripartire una prospettiva di pace tra Israele e la Palestina.

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