La conclusione unitaria del congresso della Cgil, raggiunta con un compromesso che ha evitato la conta, è un bene o un’occasione persa? La domanda non è oziosa e prescinde dal risultato.  È probabile, infatti, per come si è visto nell’accordo che ha portato all’elezione bulgara di Maurizio Landini, che sarebbe stato prescelto lui anche nel caso di un voto che avesse obbligato il congresso a una scelta diretta.

L’elezione di Landini, la necessità di un accordo

L’intesa raggiunta è una garanzia, almeno formale, di compattezza e assicura al neo segretario una legittimazione non controversa. Si tratta di un risultato importante e l’accentuazione sulla collegialità, pronunciata da Landini nel suo discorso di insediamento, è un impegno che consentirà alla minoranza di Vincenzo Colla (diventato segretario aggiunto, anche se non da solo..) di esercitare un ruolo di controllo sul patto di governo raggiunto.

Nei giorni precedenti l’accordo, sottoscritto in zona Cesarini, ormai a congresso aperto, i bookmaker sindacali davano una situazione di sostanziale parità tra i due contendenti.  È possibile che proprio questo dato, inedito per la Cgil, e che avrebbe comportato un voto imprevedibile, abbia ingenerato nei gruppi dirigenti la preoccupazione per una spaccatura così lacerante che non sarebbe stato semplice rimarginare. Preoccupazione del tutto ragionevole, per la quale c’è un solo rimedio: un accordo, appunto. Ci sono, dunque, nella conclusione del congresso, tutte le ritualità classiche adoperate in questi casi dalle organizzazioni collettive di rappresentanza. Eppure, il fatto che, per la prima volta, nella Cgil si fosse aperta una competizione esplicita sulla leadership, poteva far supporre una svolta metodologica nella scelta del “capo”.

Il compromesso di vertice, la sensazione di un’occasione perduta?

L’opinione pubblica guarda con apparente disinteresse alle vicende sindacali, ma garantisce, pur sempre, alla “triplice” una adesione formale che supera i 10 milioni di iscritti e, pur distratta dalle difficoltà di ogni giorno e dalle prodezze mediatiche dei nostri governanti, era stata attratta dalle cronache del Congresso della Cgil proprio per la novità di una competizione trasparente, che appariva come un fattore di democrazia. Che effetto può aver fatto questo compromesso dell’ultimo minuto? Sarà stato interpretato dal verso che i contraenti hanno inteso dargli di unità interna, o, al contrario, come la… “solita storia”?

Ma è poi vero che un voto esplicito che si conclude con poco scarto comporta una rottura irreparabile? Un indebolimento del vincitore? Qualsiasi elezione democratica – dal Presidente degli Stati Uniti, al Sindaco del piccolo paese – comprova il contrario. Non solo, l’esperienza dice che un accordo che assicuri unità di governo è possibile (e, spesso, auspicabile) anche dopo il voto: ci si guadagna in chiarezza. Certo, a chi percepisce che può vincere con un accordo preventivo è difficile chiedere di sottoporsi a questa full immersion democratica e a chi presume di perdere evita di rischiare il tutto per tutto, rinunciando alle garanzie che l’accordo gli dà. Eppure, proprio in questo stava la novità. Se, dunque, nessuno può davvero criticare la scelta fatta dal congresso della Cgil di aver, per darsi una guida, privilegiato la compattezza e l’unità interna, attraverso un compromesso di vertice, la sensazione di un’occasione perduta rimane.

Il discorso di Landini, tra attaccamento valoriale e innovazione

Spetta al neo segretario fugare questa sensazione e, dalle sue prime mosse Landini – al quale vanno i miei più sinceri (con un linguaggio d’altri tempi, da ex colleghi, dico volentieri: “fraterni”) auguri – sembra aver coscienza che, da un lato, è necessario confermare scelte di fondo che riguardano i valori dell’esperienza del sindacalismo, ma, dall’altro, è urgente innovare profondamente, sia nei contenuti che nelle forme.

Nel suo discorso di insediamento è esplicita l’importante e non scontata difesa della democrazia delegata, fondamento della partecipazione di quell’alto numero di adesioni di cui parlavo prima. E, con ciò la presa di distanze dal populismo, ironicamente bollato con la battuta sul pane e nutella di Salvini, per dire che questo governo non si occupa sul serio delle condizioni di vita delle persone, a partire dagli immigrati. La proposta di generalizzare l’esperienza del “sindacato di strada”, promosso dalla Flai (il sindacato di categoria del mondo agricolo), non è solo la testimonianza di una presenza di sostegno alla condizione dei nuovi sfruttati, ma l’idea di un nuovo orizzonte negoziale, definito “contrattazione inclusiva”. Ed è qui che il neo Segretario generale, coraggiosamente ammettendo i propri errori (che negli anni passati, soprattutto dirigendo la Fiom, non erano mancati) affida alla contrattazione collettiva, che parta dal luogo del fare, dal territorio, dalla periferie, il ruolo di riunificare i diritti e rinnovare le condizioni di vita e di lavoro.

Pur partendo dalla constatazione che anche una parte non marginale degli iscritti alla Cgil assicura il consenso ai partiti che formano la coalizione di governo, Landini prende le distanze dall’esecutivo, criticandone la manovra, sia per gli aspetti di quadro (il rapporto con l’Europa e le clausole di salvaguardia) sia per le scelte di merito, ossia l’assenza di una seria politica di investimenti a favore dell’occupazione, anche a causa della “pasticciata” idea del reddito di cittadinanza, quando bastava, secondo Landini, alzare la soglia del Rei. Così come condanna la Fiat tax al 15% perché – evocando don Milani – fa “parti uguali tra disuguali”.

L’incidente di percorso del congresso sul Venezuela sembra assorbito dall’affermazione della forte identità europea del sindacalismo italiano, pienamente ribadita in questo discorso, tant’è che, vista la disinformazione che viene prodotta sull’argomento, sarebbe una buona occasione che questo tema fosse messo al centro del prossimo Primo maggio unitario.

Le sfide di Landini, tra unità sindacale e sindacato unitario

Un discorso, in definitiva, quello di Landini, che sposta l’asse e che, perciò, si presta ad una interessante verifica unitaria, che troverà il suo primo impatto nella manifestazione del 9 febbraio. Restano, certamente, sullo sfondo alcuni temi controversi come la rappresentanza e la sua eventuale e rischiosa regolazione per legge (visto anche il quadro politico); la riforma del contratto nazionale a favore di un maggior decentramento territoriale; il ruolo della previdenza complementare sia come tutela, ormai obbligata, delle pensioni, sia come robusto soggetto di investimenti in economia reale, ed altri punti di chiarimento tra le Confederazioni.

Ma Cgil, Cisl, Uil devono saper cogliere questa congiuntura. Usciamo da anni di difficoltà unitaria, dovuti al ritardo nell’innovazione delle politiche contrattuali e alle difficoltà sindacali di allargare il proprio campo di azione. Ma, anche e soprattutto, al peso che le dinamiche di un quadro politico instabile e turbolento ha esercitato sull’orientamento sindacale; sia nel tentativo errato di sminuirne la rappresentanza (grave errore, fatto anche dal centro sinistra) sia nella suggestione che il sindacato sia mallevadore di un fronte politico radicale, come automatico sbocco delle lotte sociali. Ma, oggi, di fronte ai rischi concreti di un rallentamento della ripresa economica, di fronte alle sfide della integrazione sociale, di fronte alla pervasività di una maggioranza populista e alla debolezza di una alternativa credibile, il ruolo autonomo delle forze economiche e sociali – non sostitutivo, ma stimolatore della politica – per ristabilire una larga frontiera sociale contro le disuguaglianze e per la crescita, riappare necessario ed urgente. Direi indispensabile, come lo è stato nei momenti cruciali della vita del Paese.

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