Siamo fortemente turbati dalla violenta crisi israelo-palestinese, che si svolge da mesi, col coinvolgimento diplomatico degli statunitensi, in quei luoghi in cui l’ebreo Gesù osava predicare l’amore verso il proprio nemico, una fraternità universale. In Roma, invece, l’imperatore Augusto aveva innalzato il monumento dell’”Ara Pacis”, e si elevava la preghiera del grande poeta Virgilio: “Nulla salus bello: pacem te petimus omnes” (nessuna salvezza con la guerra, tutti ti chiediamo la pace” – Eneide, XI,363).

Il ferocissimo scontro di odio in Gaza va ad aggiungersi a quell’altra guerra, non meno feroce e fraterna, dell’aggressione della Russia all’Ucraina, che dura già da oltre due anni. Riflettendo sull’innegabile influenza nella formazione di base che ha comunque la religione sui popoli, entrambe le tragedie fanno emergere la strana circostanza che si tratta di popoli belligeranti che vivono sotto il segno di un comune monoteismo, quello del Dio di Abramo, e che la deriva identitaria, alimentata da corrotta religione prostituita a strumento di odio dalla pessima politica, inasprisce i conflitti e coinvolge le povere masse in sanguinarie
guerre fratricide, che si ritorcono sempre in guerre suicide. Diventa, quindi, inesplicabile come uno stesso monoteismo, che dovrebbe teoricamente aggregare tutti i suoi fedeli intorno alla somma comune paternità divina, col dovere di riversarsi in contiguità non solo religiosa, ma anche di umana prossimità, finisca per capovolgersi nello stigma originario della storia monoteistica dell’uomo, che fu il fratricidio di Caino contro Abele. E sembra quasi che questa maledetta discrasia ci travolga tuttora ed esploda come fattore endodinamico nei corsi e ricorsi delle tragiche vicende belliche, come quelle partite il 24 febbraio 2022 e il 7 ottobre scorso, tra fratelli che dovrebbero riconoscersi in Abramo e nel suo unico Dio e vivere in prospera fraternità. E invece al loro Dio si rapportano con un rigido e ossessivo sub-monoteismo, costruito in casa per produrre esasperati impulsi aggressivi contro il proprio vicino fratello, come nelle orrende accuse del pope
Cirillo di Mosca contro la corruzione morale dell’Ucraina e del mondo occidentale.

Questa particolare deformazione del Dio supremo e del culto che a lui si deve, chiede, come sua ineluttabile liturgia, l’olocausto espiatore del peccatore, come avveniva negli ‘autodafé’ della più spietata Santa Inquisizione. E quasi per inevitabile contrasto, ciò fa assumere dignità alla vecchia concezione politeistica che, nella sua disarmante ingenuità, giocava fanciullescamente con le divinità, tollerandole tutte, con nessun discernimento teologico, ma realizzando di fatto un’esemplare tolleranza religiosa, incapace di incitare all’odio di eventuali eresie. Dal Pantheon affollato dalle più diverse divinità Roma ha potuto irradiarsi su tutte le genti del diversificato suo impero con una pacifica e operosa convivenza religiosa. E’ stato il monoteismo ebraico e cristiano, che, pur con teorica ragione, ha irriso e disprezzato come vacua ingenuità quelle divinità, introducendo un rigido esclusivismo religioso. E nonostante il monoteismo rappresentasse una più alta speculazione sulla divinità, la sua inflessibile opposizione al politeismo fu avvertita come altera e dispotica imposizione, e attrasse su di sé le accese ire persecutorie, soprattutto delle supreme autorità politiche, che avevano alla fine utilizzato anch’esse la religione come strumento di regno, divinizzando se stesse e facendo svanire il valore della tolleranza.

Decadde a religione di stato anche quell’ingenuo originario politeismo, modello aurorale di pluralismo, che escludeva ogni rigidità teologica, spesso strumentale e indotta, in una materia che non consente, peraltro, concrete verifiche, e si collega, deturpandolo, al puro sentimento religioso, che è, e dev’essere il senso del collegamento al tutto, ed in esso primariamente all’uomo. E così, nello stesso monoteismo, la definizione speculativa delle vere fattezze del Dio unico ha scatenato accese e perfino sanguinose diatribe di elaborazione teologica, di ammirabile elevatezza speculativa, ma a di aggressiva intolleranza, e perfino di impulso alla soppressione delle diverse speculazioni, fino ai roghi ‘purificatori’ contro gli eretici devianti.

Potrebbe sembrare opportuno, a questo punto, seppure contro ogni corretto assunto teorico, pensare alla strana mediazione tra monoteismo e politeismo costituita dalla concezione trinitaria del cristianesimo, che portò al trinitarismo medievale, capace di raccordare l’unicità della divinità con la trinità delle ipostasi divine, soprattutto attraverso la definitiva ed alta sistemazione concettuale di S. Tommaso d’Aquino (1225-1274). E comunque, nel disastro rappresentato dallo scontro attuale tra il semitismo israeliano, l’islamismo palestinese e il cristianesimo occidentale, appare come tristemente premonitrice la corruzione quasi preventiva di questo stesso trinitarismo unitario nella dottrina del ‘triteismo’, e cioè di una trinità con tre distinte divinità, che nacque e si diffuse nel VI secolo in Oriente ed ebbe il suo centro nella scuola di Antiochia, città vicina ai teatri di guerra e di mattanza di oggi. Il triteismo rappresentò un’interpretazione distorta della Trinità, perché si risolveva in una disgregata treità di individui, che non era più un panteismo ingenuo e tollerante e neppure un trinitarismo aggregante intorno all’unità dell’essenza, che consente alle tre persone di essere un solo Dio. Si distruggeva l’ideale dell’unità nella sua articolazione ipostatica, che assumeva anche l’ esaltazione teorica di una concezione sociale e politica, in cui la diversità delle funzioni potesse risolversi nell’unità organica del corpo sociale. Al triteismo mancava il sigillo del monoteismo, presupposto irrinunciabile di ogni definizione intrinsecamente logica della divinità, che necessariamente include l’universale paternità.

Proprio per questo è tanto più grave, dal punto di vista religioso, che dei monoteisti possano calpestare tale paternità universale ed entrare nella dimensione fratricida dello sterminio e, pur richiamandosi allo stesso Dio di Abramo, aver tre distinte religioni, con tre monoteismi in perenne sanguinoso conflitto. E’ evidente la necessità di una diversa religione, ritenendola come irrinunciabile componente di base di umanità. Sembra maturo il tempo di una religione anche laica, che si fondi sulla percezione solo umana dell’assolutezza cosmica, che implichi il rispetto di tutto ciò che esiste e soprattutto di tutti i propri simili, considerati ‘fratelli tutti’. Ma forse occorre lavorare sulla sua speculativa trascendenza della divinità per riportarla nella concreta immanenza del qui ed ora del rispetto e della solidarietà verso tutti i viventi su questo granello cosmico. Come si può affermare, infatti, di onorare Dio se non si ama il fratello? La premessa necessaria ad ogni religione deve restare quell’antico “homo homini Deus’ del commediografo latino Publio Terenzio Afro, nato a Cartagine (185-159 a.C.). La religione intesa come solidarietà verso l’uomo è l’unica che può inverare quella verso Dio, mentre è una radicale irreligiosità pensare di rendere onore a Dio uccidendo il proprio simile, che è sua creatura. E tutto ciò avviene in un momento nuovo e fantastico per l’umanità, in cui i social moltiplicano anche le nostre reciprocità, rendendoci sempre più prossimi gli uni agli altri, più coinvolti.

La vera religione per l’uomo sarà, dunque, quella che vedrà sempre più Dio nei propri simili, sostituendo al timore preventivo verso il diverso e lontano, la simpatia e condivisione verso il vicino dialogante, e comunque verso ogni uomo. La rete WWW della chiacchiera planetaria può essere anche la condizione di un’amicizia planetaria, mancata ai popoli del Dio del padre Abramo, mentre la speranza dell’ecumenismo novecentesco sembra affievolita e accantonata. Ma non può esservi religione contro l’uomo, o senza l’uomo, e la vera religione non può non porre l’uomo al centro del suo culto, come tramite obbligato verso l’unico Dio. Alla magnifica teologia della trascendenza deve subentrare quella dell’immanenza, sulla scia di Giordano Bruno (1548-1600) e di Baruch Spinoza (1632-1677). nella consapevolezza dei rischi tremendi dell’umanità di oggi, in possesso di strumenti potentissimi di morte.

La solitaria e tormentata Simone Weil (1909-1943), angosciata per la ferocia del mondo, con la sua tendenza verso le enunciazioni estreme, che spiazzano ma aprono a nuove prospettive, ha enunciato un principio che sembra ‘eretico’, e tuttavia indica l’essenza di un corretto culto verso Dio, che è soprattutto verità. Lei ha dichiarato, come assunto assoluto e incoercibile, che “va posta la persona umana prima della stessa verità” (in ‘La persona e il sacro’). Ha così spostato l’asse del culto divino, associando all’ossequio spirituale verso il ‘verbo’ rivelato, il servizio concreto a favore dell’uomo, perché in ogni uomo è depositata una scintilla della divinità, che assorbe la stessa verità. Ciò significa anche che, se la religione da trascendenza non si fa anche immanenza, inglobando nella stessa trascendenza tutta la realtà terrena dell’uomo, di ogni uomo, non si farà vero culto di Dio, né vera religione, ma si andrà verso il precipizio dell’olocausto nucleare, in cui l’umanità verrà immolata al falso Dio dell’odio, dell’esclusivismo nazionalistico. E se ne avvertono già i prodromi oggi nei figli di Abramo, spinti alla coazione del fratricidio di massa, che rinnova lo stigma maledetto che ha aperto con Caino la storia del monoteismo.

(Foto di Deb Dowd su Unsplash)

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