La gravità e l’efferatezza di quanto sta avvenendo in Medio Oriente è sotto gli occhi di tutti. Ogni giorno i media ci informano di nuove stragi, di bombardamenti indiscriminati, di lanci di missili, di uccisioni mirate che fanno stragi di bambini, di ostaggi abbandonati al loro destino, di leadership decapitate, di movimenti di truppe.
E’ sempre più evidente che dietro tutto questo orrore ci siano opzioni dettate non soltanto da interessi strategici di dominio su quest’area centrale del mondo; queste si mescolano con atavici sentimenti (specie da parte israeliana) di diritto divino su determinati territori, di sindrome da accerchiamento e quindi di sopravvivenza non solo come Stato ma come Popolo. Analogamente il regime iraniano è ossessionato dalla sua crisi di credibilità interna (vedi le manifestazioni di dissenso a partire dal movimento Donna, Vita, Libertà) e dal suo ampio isolamento sul piano internazionale.
Questa situazione, questi “stati d’animo”, rendono impossibile la via della diplomazia, della mediazione, persino della tregua. In campo ci sono forze e sentimenti che alimentano, colpevolmente e strumentalmente, questa narrazione esistenziale del conflitto.
In Occidente stiamo facendo i conti con un populismo che, in barba alla storia e agli interessi dei nostri popoli, alimenta pulsioni nazionalistiche, xenofobe, autarchiche, misogine, in una parola regressive. Questo stesso populismo in Medio Oriente diventa lo strumento per giustificare la volontà di totale cancellazione, non solo culturale ed identitaria ma fisica, dei popoli della regione.
Questa posizione è specularmente identica trai due veri contendenti: l’estrema destra israeliana rappresentata dal governo Netanyahu e il potere teocratico iraniano tramite le milizie di Hamas, Hezbollah e Houti, organizzate, armate e addestrate dai Pasdaran iraniani.
Subiscono la stessa sindrome, la paura di essere annientati, quindi combattono una guerra di sopravvivenza, ma la fanno sulla pelle (letteralmente) dei palestinesi. Più di 50.000 (cinquantamila) morti in un anno di guerra, in stragrande maggioranza bambini, donne, vecchi, stanno li a dimostrarlo.
L’obiettivo dichiarato dei movimenti filo iraniani è quello di realizzare uno Stato palestinese che si estenda dalle rive occidentali del fiume Giordano fino alla costa mediterranea (e quindi si nega la possibilità di esistenza di uno stato israeliano); l’obiettivo praticato dal governo israeliano è identico, uno stato dal Giordano al Mediterraneo, nei fatti disconoscendo e continuando ad occupare la Cisgiordania e Gaza che le Nazioni Unite e gli accordi di Oslo avevano assegnato all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Siamo di fronte a un drammatico arretramento rispetto agli accordi precedentemente raggiunti da Rabin e Arafat!
Tuttavia questa quasi perfetta simmetria ha un punto decisivo di squilibrio: i rapporti di forza sul campo.
La superiorità militare, tecnologica e di intelligence di Israele è tanto evidente quanto pericolosa. Dopo il tragico e disumano attacco del 7 ottobre 2023, il governo israeliano ha deciso di non mettere più limiti all’uso brutale della forza per conseguire l’obiettivo di distruggere il nemico. Un nemico identificato non solo negli autori (e nei loro danti causa) di quel drammatico massacro, ma in tutti coloro che legittimamente aspirano al riconoscimento di diritti territoriali peraltro sanciti da innumerevoli decisioni dell’ONU e da accordi sottoscritti dallo stesso Stato di Israele.
Eppure nessuno sembra rendersi conto che si tratta di una guerra che non si può vincere! Che nessuno dei protagonisti può vincere! Si possono uccidere i capi delle organizzazioni nemiche, si possono distruggere i loro arsenali e le loro infrastrutture ma non si può sconfiggere la necessità di un popolo di esistere!
Dobbiamo inoltre interrogarci su quanta responsabilità abbia il resto del mondo in questa drammatica vicenda.
Noi occidentali abbiamo “la coda di paglia” verso Israele: gli europei hanno alle spalle secoli di persecuzione antisemita culminati nell’Olocausto perpetrato dai nazisti e nelle leggi razziali del fascismo; gli statunitensi hanno legami finanziari fortissimi con l’establishment di origine ebrea. Tutti quanti, americani ed europei, continuiamo a lanciare appelli per una maggiore moderazione al governo di Israele, a richiedere tregue anche per ottenere la liberazione degli ostaggi, a stigmatizzare le stragi di cittadini inermi che il governo israeliano continua a compiere ma, per essere credibili, per costringere Netanyahu ad ascoltarci, dovremmo togliere il nostro sostegno diplomatico presso le Nazioni Unite, il nostro sostegno tecnologico e militare, i nostri aiuti finanziari a questo governo israeliano. Analogamente dovrebbero fare la Cina e la Federazione Russa nei confronti degli ayatollah iraniani.
Penso che, oggi più che mai, sia il momento perché gli USA, la Russia, la Cina, la UE, i paesi arabi moderati, l’India e tutti gli altri attori internazionali, costruiscano nell’ambito dell’ONU, un trattato capace di dare garanzie per un definitivo riconoscimento, territoriale, storico, religioso, sentimentale allo Stato di Israele, alla Repubblica dell’Iran e, perché no, allo Stato di Palestina.
Senza questo sforzo non solo saremmo complici degli eccidi e delle distruzioni in Medio Oriente, ma saremmo altresì i principali artefici della crescita dell’intolleranza, dell’antisemitismo, dell’islamofobia, della xenofobia nelle nostre società, che già vediamo e paghiamo nella nostra convivenza civile (inaccettabili gli attacchi alla senatrice Liliana Segre, a cui va tutta la nostra solidarietà e riconoscenza per la sua testimonianza di vita).
In un mondo globale non esistono diritti e benessere fuori da un contesto generale di pace e stabilità. Non esistono i nostri diritti senza quelli dei palestinesi!