Che quella aperta da Renzi, a cavallo tra gennaio e febbraio, rappresentasse una crisi nella crisi della quale il nostro Paese, già pesantemente tediato dalla pandemia e dalle inevitabili ricadute economico/sociali, avrebbe fatto volentieri a meno, è cosa ormai ampiamente condivisa.

L’Italia ha dovuto riorganizzarsi, a partire proprio da quegli organi nelle cui decisioni si riversa(va) la fiducia per una rapida uscita dalla tempesta, o quantomeno dal nucleo più intenso.

La scelta di Mario Draghi rappresenta probabilmente un’occasione unica e preziosa sotto diversi aspetti. Innanzitutto, per imprimere quel cambio di passo tanto invocato da diverse parti politiche e della società civile per favorire una rapida “soluzione” alla crisi pandemica, così come indicato dallo stesso Capo dello Stato.

Ma quella di Draghi è una scelta che può rappresentare una svolta per il nostro Paese, che può tornare a vivere un inedito protagonismo (abbandonando il ruolo minore al quale ci eravamo abituati da diversi anni). L’Italia può tornare ad essere capofila di una nuova politica mediterranea dell’Unione Europea, nella cornice di una ritrovata intesa con gli Stati Uniti.  

Mario Draghi non è, contrariamente a quanto spesso si dica, solo un tecnico. E non è nemmeno un alieno. E’ un italiano consapevole di esserlo, che grazie alla sua storia, alle sue relazioni, si fa portatore di un cambiamento nella prospettiva geopolitica del nostro Paese. Di contro, si trova a dover fare i conti con una marcata crisi partitica e di rappresentanza che rischia di impantanarne gli sforzi.

In questo scenario, molto interessante è l’analisi di Limes che nel suo ultimo numero “A che ci serve Draghi” ha approfondito proprio il contesto di genesi geoeconomica del governo Draghi.

La presentazione nelle parole del direttore, Lucio Caracciolo.

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