Era il 22 aprile 1970, e decine di milioni di persone scesero in strada in tutti gli Stati Uniti per chiedere alla politica, ai governi, una maggiore attenzione verso il pianeta. Oggi la Giornata mondiale della Terra compie 51 anni, ma forse proprio ora le viene chiesto l’impegno maggiore.

In molti identificano quella data con la nascita dell’ambientalismo moderno. Molte cose sono cambiate, a partire sicuramente da una maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica, ma non possiamo ancora affermare che anni di sensibilizzazione e mobilitazioni abbiano cambiato radicalmente il nostro modo di consumare, di produrre energia, di sfruttare la natura, di vivere.

In questo senso è emblematico il titolo che è stato dato quest’anno il World Earth Day: “Restore our Earth”, Ripariamo la nostra Terra. Come a voler ancora una volta sottolineare che quanto fatto fino ad ora non è stato assolutamente sufficiente a garantire un futuro al pianete.

Nei giorni scorsi, in vista del vertice globale convocato dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, è stato pubblicato un rapporto dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, che fa capo alle Nazioni Unite, stando al quale, dopo gli effetti temporanei del primo lockdown, il riscaldamento globale sta procedendo “in maniera implacabile” e gli impatti continueranno nei prossimi decenni. L’Onu raccomanda di investire nell’adattamento, mentre il segretario generale Antonio Guterres, che sul tema ha conversato di recente al telefono con il premier Mario Draghi, ha detto a chiare lettere che “il mondo è sull’orlo dell’abisso”.

Nel 2021, racconta Coldiretti “in Italia si è verificato a macchia di leopardo un evento estremo al giorno tra siccità, le cosiddette bombe d’acqua, violente grandinate e gelo in piena primavera che ha distrutto le fioriture compromettendo pesantemente il lavoro delle api”. Acquazzoni violenti, grandinate e tempeste di vento e neve sono aumentate del 274% rispetto allo scorso anno. Cosa ci aspetta? Nel 2020 il Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici ha pubblicato lo studio ‘Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia’, osservando i settori chiave (ambiente urbano, rischio geo-idrologico, risorse idriche, agricoltura e allevamento, incendi) e giungendo alla conclusione che “anche se più ricche e sviluppate le regioni del Nord non sono immuni agli impatti dei cambiamenti climatici, né sono più preparate per affrontarli”.

La parola d’ordine deve essere una sola: pianificazione. Se l’invito di questa edizione è, infatti, a “riparare” un pezzetto di Pianeta, è anche vero che senza una politica comune di medio e lungo periodo che getti le basi per azioni concrete, ogni sforzo ad oggi rischia di rimanere una goccia nel mare.

La Commissione europea ha presentato a fine febbraio la Strategia europea di adattamento ai cambiamenti climatici, così come nella stessa direzione va anche la stessa Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile. In Italia, il neo Premier Draghi ha manifestato fin da subito una particolare attenzione per il tema, individuando come primario nella propria agenda la costituzione del super-dicastero della Transizione Ecologica.

La dura e fredda realtà dei numeri, unitamente all’emotività delle immagini a cui siamo abituati, non fa che confermarci che siamo incredibilmente vicini al tanto temuto “punto di non ritorno”. Non è più il tempo delle intenzioni e delle scatole vuote, è il tempo delle azioni. Se necessario, anche dure, impopolari, coraggiose.

Immagine: World Earth Day, 22 aprile 1970

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