Negli ultimi venti anni è la quarta volta che il mondo si trova a fronteggiare crisi globali caratterizzate da forte incertezza, emotività, instabilità politica ed economica. E soprattutto dalla mancanza di visibilità su tempi e costi delle possibili soluzioni.

La prima volta nel 2001, con l’emergenza terroristica e l’attacco alle torri gemelle; la seconda nel 2008 con la crisi finanziaria cominciata negli USA con il fallimento di Lehman Brothers, la terza con la crisi dell’area Euro e la paura sui debiti sovrani.

E ora, nel 2020, questa guerra ad un nemico invisibile, sottovalutata ai suoi inizi in Asia, percepita con stupore dopo la diffusione veloce in Italia e infine vissuta con terrore dopo la rapida accelerazione in tutto il mondo, con epicentro gli Stati Uniti. Anche in questo caso, quando si è finalmente percepito la portata della diffusione, con l’arresto forzoso della attività nel pianeta, panico e paura del vuoto hanno portato inevitabilmente a vendite compulsive e forzate di qualunque asset finanziario e a rischi di instabilità politiche e sociali.

Ma quali sono i dati comuni di queste crisi?

Primo dato comune è l’elevato grado di incertezza sui tempi e sui metodi di soluzione della crisi,  a fronte di una notevole rapidità della propagazione diretta o indiretta degli effetti su scala globale.

La crisi non nasce da un fenomeno economico ciclico, legato al naturale alternarsi di sovra e sotto dimensione delle attività, o da una guerra, o da una catastrofe naturale, conosciuta e ripetibile nelle soluzioni, ma come un fenomeno ignoto, forse distruttivo delle stesse certezze democratiche e di vita sociale.  La propagazione rapida anche grazie al sistema dei media inoltre fa sì che non vi sia una area ‘immune’, isolata dagli effetti, ma che il problema diventi rapidamente comune per tutti dapprima nell’immaginario, poi nella vita reale.

Nel 2001 la caduta delle torri gemelle, e il terrorismo di matrice religiosa diffuso in tutti i principali centri economici, avevano risvegliato il mondo dalle certezze della globalizzazione dei mercati e della apertura delle frontiere. Il mondo si era scoperto fragile di fronte ad una rete organizzata e determinata di agenti nell’ombra, disposti a tutto pur di destabilizzare le certezze del capitalismo globale e delle democrazie occidentali. Non a caso l’attacco era stato dapprima al cuore del capitalismo, negli USA, con una forte valenza simbolica, e poi via via in tutte le principali capitali economiche. L’attacco a New York e Washington è un’azione militare che rammenta Pearl Harbor, ma è anche un evento spettacolare, per la prima volta in diretta mondiale Se i media erano la cassa di risonanza naturale per gli effetti propagandistici, instabilità e crolli dei mercati finanziari erano l’effetto voluto e fortemente desiderato. Nel primo giorno di trading dopo gli attacchi il NYSE ha bruciato più del 7%. Alla fine di quella settimana, le perdite registrate dal solo Dow Jones hanno sfondato i 14 punti percentuali, mentre quelle dell’S&P 500 gli 11,6 punti. Gli effetti domino si sono avuti inevitabilmente in tutti i principali mercati. Obiettivo creare instabilità, paura, danno economico, con effetto domino in un mondo ormai interconnesso.

Il terrorismo non era un fenomeno nuovo per i singoli paesi. Ma una rete globale, coordinate, efficace del terrore diretta a destabilizzare in primo luogo le economie e la psicologia sociale di tutti i paesi industrializzati era un fenomeno nuovo e sconosciuto.  E il mondo sembrava non preparato rinunciando alle proprie certezze, alla globalizzazione, alla libertà di movimento tra paesi e nei paesi. Per questo parliamo di crisi globale.

Nel 2008   la crisi del mercato subprime, il fallimento di Lehman Brothers , e la conseguente instabilità dei mercati finanziari hanno dato vita alla prima vera crisi bancaria e finanziaria globale. In pochi mesi alcune delle principali istituzioni finanziarie storiche sono letteralmente scomparse, con effetti a catena sul sistema finanziario internazionale, Le file davanti alle banche, i fallimenti bancari, i crolli delle attività finanziarie e lo spettro di un nuovo 29,   hanno  fatto parte stabile per almeno un anno dell’immaginario collettivo globale, mettendo in discussione la stabilità dei meccanismi di trasmissione del risparmio, la certezza del denaro,  la affidabilità degli interlocutori finanziari e le stesse istituzioni nazionali.

Nel 2011/2012  la repentina crisi dell’area euro, ha messo in evidenza le non poche fragilità della costruzione europea, nata monca e sviluppatasi monca,  unico esempio storico di unione monetarie ed economica senza unione politica. Il vulnus nasce nell’area più ricca del mondo, leader negli scambi internazionali e profondamente connessa con il resto del mondo economico e finanziario. Lo spettro della dissoluzione disordinata dell’Unione Monetaria e del fallimento dei debiti sovrani, monchi della sovranità monetaria di ultima istanza per il soddisfacimento delle obbligazioni,  hanno avuto effetti di propagazione finanziaria immediati altrettanto devastanti.

Secondo dato caratteristico è la velocità e intensità della correzione che rende impossibile o estremamente difficile proteggersi dagli effetti, in un contesto di altissima volatilità improvvisa. E costringe il risparmiatore, la impresa, le autorità a ragionare con deflazione degli asset già avvenuta. Da quando la finanza è diventata multiplo della economia reale, economia virtuale e immaginaria,  quale che sia l’origine (politica, finanziaria, reale) della crisi il meccanismo potente di trasmissione del contagio economico, è diventata la finanza. Complice le dimensioni crescenti della stessa, le interconnessioni degli attori (investitori, intermediari, regolatori e mercati), la capacità mediatica, la immediatezza degli aggiustamenti dei prezzi grazie alla presenza di operatori e mercati costantemente operativi e alla concentrazione delle decisioni, l’andamento esplosivo nelle fasi di crescita.

Dal 2008 e dalla esplosione del debito e della liquidità disponibile a costo zero per banche e grandi operatori, i mercati finanziari sembrano condannati alla instabilità come dimensione permanente ad intervalli sempre più brevi e con impatti potenziali sempre più intensi sul mondo economico e sociale.

Data Source: Bank for International Settlements

Singoli risparmiatori, imprese e autorità nazionali e internazionali hanno sempre meno capacità di controllo, per l’eccesso di leva ormai presente globalmente. Possiamo paragonare ormai i mercati a dei grandi bacini d’acqua traboccante, che amplificano in modo imprevedibile effetti e impatti di un qualsiasi vento. Creano e distruggono ricchezza con estrema velocità. Dal 2008 questa del 2020 è la nona correzione significativa del mercato americano misurato attraverso gli andamenti dell’indice SP500, ma di gran lunga la più rapida. Nessun settore economico, nessun mercato, nessun tipo di asset finanziario ne è rimasto immune.

Le correzioni sono il lato oscuro di mercati che amplificano in modo esponenziale le variabili economiche, dando nei momenti di tranquillità una illusione di ricchezza con l’inflazione del valore degli asset finanziari. Dopo la crisi, con l’abbondanza di moneta a basso costo si sono avute le maggiori crescite in termini reali del valore degli asset finanziari dal dopoguerra ad oggi. Alla vigilia della crisi del corona virus, dai minimi l’indice azionario Dow Jones ha più che triplicato di valore.

Considerando anche i dividendi la crescita di un investimento sulle imprese quotate in USA e misurate con l’indice SP500 in 10 anni è aumentato di 5 volte, a fronte di una inflazione che oscilla su valori vicini al 2% e di salari sostanzialmente fermi. E’ il trionfo del capitale sul lavoro.

Terzo dato è il ritorno prepotente in campo degli Stati, con interventi sempre meno ortodossi e dirigisti, l’abbandono graduale di alcuni dogmi del globalismo anni Ottanta, e la dimensione forzatamente sovranazionale delle soluzioni.

Se le crisi sono devastanti al punto da mettere in crisi l’impianto democratico ed economico della maggior parte dei paesi, lo Stato è costretto suo malgrado ad intervenire e a farlo con modalità sempre  più invasive e innovative.

Nel 2001 il simbolo più evidente del ritorno degli Stati nel ruolo dirigista dopo la lunga fase di disimpegno cominciata nell’era Reagan/Tatcher,è il   PATRIOT Act (acronimo di Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001). Con quelle norme lo Stato riprende il controllo dei flussi finanziari, affermando con forza la propria sovranità anche verso le istituzioni di paesi terzi, in nome della lotta al terrorismo. Le banche e i professionisti si avviano a diventare, per una parte del proprio lavoro, agenti di fatto degli Stati nel controllo dei flussi finanziari. Da allora, una serie di norme e trattati internazionali per lo scambio di informazioni  tra Stati quale modalità essenziale per il contrasto ai fenomeni di evasione, terrorismo e lotta al riciclaggio, hanno di fatto ridotto notevolmente la possibilità di sfuggire ai controlli finanziari degli Stati. Libertà di movimento dei capitali, ma sotto il controllo rigido delle polizie e degli Stati Sovrani. Simboli della dimensione internazionale sono il GAFI , o Gruppo di azione finanziario e le Unità di Informazione Finanziaria, intelligence finanziarie autonome istituite in ogni paese e interconnesse tra di loro.

Nel 2008 la crisi finanziaria ha cambiato notevolmente le priorità delle Autorità Monetarie internazionali, con interventi continui a sostegno della sostenibilità del debito (costo del debito a zero, monetizzazione dei debiti pubblici, finanziamento degli intermediari, dei settori e delle aziende e strategiche). Questo ruolo è simbolicamente fotografabile con l’immagine delle manovre di ‘Quantitative Easing’ (Allentamento quantitativo) e dell’esplosione dei bilanci delle principali banche centrali.

Lentamente le Banche Centrali hanno ampliato il raggio di azione, non limitandosi neanche più al finanziamento di ultima istanza dei debiti degli stati, ma ad un ruolo di investimento permanente nelle economie con l’acquisto di obbligazioni, fondi comuni, persino azioni. Il paradosso è che questo avviene con le autorità meno ‘democraticamente’ controllate in parte a difesa del primato dei mercati.

Ma anche le politiche fiscali hanno cambiato.

Anche le politiche fiscali sono diventate sempre meno liberiste, con interventi continui a sostegno dei settori difficili. L’appoggio finanziario al sistema finanziario è stato notevole. L’aumento del debito pubblico nei primi cinque anni a supporto delle politiche di intervento e dei privati è stato per le economie avanzate vicino al 40% del prodotto interno lordo.

Di crisi in crisi, nel luglio 2012 vi fu l’apice della crisi dell’unione monetaria, con l’euro che appariva a molti commentatori politici destinato ad una ineluttabile fine. La crisi ha avuto invece come effetto un ampliamento  notevole dei meccanismi di controllo e di intervento delle Banche Centrali, fino ad allora dominata dalla concezione tedesca monetarista.

Con il discorso del Luglio 2012 in cui pronunciò la frase  “Whatever it takes”, “Ad ogni costo”, Draghi cambiò completamente la natura e gli scopi della Banca Centrale Europea, superando i timori della finanza ortodossa e puntellando l’euro di interventi molto simili a quelli tipici di un prestatore di ultima istanza.  Sono suoi i provvedimenti più incisivi: il Piano di Rifinanziamento a lungo termine (LTRO), studiato per sostenere la liquidità delle banche in un periodo caratterizzato da sofferenze e credit crunch, il taglio dei tassi d’interesse fino a portarli in negativo, per sostenere con lo strumento più tradizionale una politica ultra accomodante, lo sblocco del Meccanismo europeo di stabilità (ESM), meglio noto come Fondo salva-Stati, studiato per porre rimedio a crisi debitorie dei Paesi del Blocco .Ed il Quantitative easing, con cui l’Eurotower riacquista i titoli di Stato in pancia alle banche immettendo liquidità da destinare al finanziamento di famiglie e imprese. Un programma che, nonostante le resistenze tedesche, ha immesso nel sistema – sino a fine 2018 – circa 2.600 miliardi di euro, pari a quasi il 20% del Pil dell’Unione europea.

La crisi pandemica del 2020, si avvia a diventare il banco di prova per il più massiccio intervento delle autorità centrali dalla seconda guerra mondiale ad oggi. Tra marzo ed aprile, con la dichiarazione di pandemia delle Nazioni Unite e con la diffusione esplosiva dei casi in tutto il mondo, sono stati annunciati provvedimenti non paragonabili per intensità e ampiezza con la storia recente. Si pensi ai 3 trilioni di dollari messi in campo dal presidente degli USA dopo un periodo di relativa freddezza rispetto al fenomeno. E probabilmente si tratta solo di un primo intervento. Interventi altrettanto scioccanti per intensità e ampiezza sono previsti in tutti i paesi del mondo.

Quarto dato comune è la messa in discussione del modello di crescita globale liberista e la pubblicizzazione sistematica delle perdite.

Il dato saliente di questi venti anni è che il modello di sviluppo basato su globalizzazione, liberismo, primato della finanza e della libertà di movimento dei capitali è un modello che porta alla instabilità e al disastro sociale se non corretta e guidata da visioni illuminate. Ogni crisi si trasforma di fatto in una pubblicizzazione delle perdite private in nome del principio ‘Too big to fail’ (troppo grande per fallire), ovvero della necessita di mantenere in piedi le grandi istituzioni quando sono in difficoltà.

Ma si tratta di soluzioni di breve termine che rimandano il problema alle generazioni future, ipotecando quindi le risorse di domani per i consumi di oggi. Inoltre si favorisce l’azzardo, nella consapevolezza che le autorità sono costrette a mantenere in vita il sistema costi quel che costi.

Se da un lato il sistema multipolare è ormai una realtà

Quinto dato comune è la multipolarità costante nella leadership delle soluzioni e la messa alla prova del modello europeo.

Il mondo è cambiato notevolmente dagli anni Ottanta ad oggi, ovvero dall’inizio della globalizzazione. E’ diventato multipolare in modo irreversibile, anche se la divisione del lavoro internazionale è messa alla prova. La pressione demografica e i cambianti economici hanno reso Cina,   India, e l’Asia tutta parte integrante del nuovo mondo di relazioni e bisogni. Nonostante i prevedibili aggiustamenti al modello di sviluppo globale, la Cina è destinata a conservare e raffinare il ruolo di motore industriale del mondo. Russia, Brasile, Turchia, Corea del Sud e altri nuovi leader contano nella stabilità delle economie, nella efficacia delle soluzioni, nella tempistica delle reazioni alla crisi..

Nelle crisi precedenti il coordinamento delle banche centrali e delle politiche di contenimento delle volatilità finanziarie è stato sempre più pressante.

Nella crisi del 2020 un dato saliente è la rapida messa a comun fattore della comunità scientifica delle ricerche e  delle evoluzioni.. Una apertura di dati, esperienze, competenze mai vista prima con tanta intensità e apertura.  E anche la crescente coscienza che le soluzioni dovranno essere condivise. Quelle mediche, economiche e finanziarie.

Paradossalmente è proprio l’Europa ad avere le maggiori reticenze e difficoltà di messa a comune delle soluzioni, di visione sul futuro. Ancora una volta è evidente la mancanza di una direzione politica comune, a fronte di una sostanziale unione economica e monetaria. Questo non solo ne indebolisce la capacità di soluzione e il peso internazionale, spingendo di fatto ogni singolo paese ad una reazione autoctona, ma rischia di minare irreversibilmente la sostanza dell’unione stessa, dando fiato e argomenti ai movimenti dissolutivi.

Ultimo dato caratteristico è l’accentuazione degli squilibri sociali anche nei paesi avanzati, della iniquità nella distribuzione della ricchezza, delle emergenze ambientali, e delle crisi politiche.

Durante tutte le crisi degli ultimi venti anni, la risoluzione dei problemi è stata effettuata con poca attenzione alla evoluzione di nuovi e potenzialmente non meno distruttivi squilibri, che hanno a che fare con il rispetto dell’uomo e dell’ambiente sociale e politico in cui vive.

Stiamo pericolosamente transitando verso un modello di società aristocratico, caratterizzato da una concentrazione mai vista della ricchezza, una verticalizzazione degli ambienti lavorativi, una crescente concentrazione nei settori chiave come finanza e tecnologia in poche, una crescente semplificazione personalistica delle dinamiche politiche, e una sostanziale indifferenza verso il disastro ambientale.

Con riferimento alla diseguaglianza di distribuzione gli Stati Uniti sono uno dei paesi al mondo con maggiore disuguaglianza ma il record è stato toccato dal Medio Oriente dove, nel 2016, la porzione di reddito nazionale nelle mani del 10 per cento più ricco è stata pari al 61%. L’Europa rimane tra le più moderate insieme a Cina e Russia dove non si supera il 40%.

Il trend globale degli ultimi decenni indica un aumento generalizzato delle diseguaglianze che sono aumentate soprattutto in Stati Uniti, in Cina, India e Russia. Dal 2000 nonostante le ripetute crisi il numero i miliardari censiti è quintuplicato, e la ricchezza concentrata in questo segmento particolare è aumentata di sette volte.

Nel rapporto Oxfam, del 2018 “Ricompensare il lavoro, non la ricchezza“, presentato all’Annual Meeting del World Economic Forum emerge che L’1% più ricco della popolazione mondiale detiene quanto il restante 99% ma si arricchisce sempre di più. Secondo Oxfam, l’82% dell’incremento della ricchezza netta è stata appannaggio dell’1% della popolazione.  Mentre il 50% più povero della popolazione mondiale, che oggi conta 3,7 miliardi di persone, non ha minimamente beneficiato di tale incremento.

Certo la globalizzazione e l’accesso alla tecnologia hanno avuto anche rilevanti effetti positivi indubbi, come l’alfabetizzazione e la uscita dalla povertà di aree del mondo finora ai margini dello sviluppo. Si pensi ai grandi cambiamenti di  aree enormi del mondo in Asia, America Latina, Africa. Ma ai miglioramenti in queste aree, ha fatto da contraltare un veloce peggioramento della eguaglianza sociale nei paesi industrializzati, e un modello di instabilità sociale permanente, il culto del breve termine e del risultato immediato rispetto alla sostenibilità di lungo. La mobilità tra classi che è stata parte del successo di sviluppo nei paesi avanzati nel dopoguerra si sta erodendo anche attraverso l’accesso selezionato alla istruzione. In sintesi, nella competizione dei modelli, vi è stato uno schiacciamento verso modelli polarizzati di iniquità sociale, che potrebbero alla fine non reggere.

Anche questo farà parte della eredità del post crisi 2020 di cui bisognerà tener conto.

E anche in quei casi si rischierà di arrivare tardi, a lacerazione sociale, ambientale e politica avvenuta. Anche se finalmente per molti di questi temi cresce la consapevolezza.

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