I risultati delle elezioni presidenziali del 28 luglio, con le accese manifestazioni di popolo che ne sono scaturite, hanno posto all’attenzione della comunità internazionale tutti i nodi e le conflittualità che attraversano l’intera America Latina, configurandosi come una minaccia della stabilità locale e determinando il coinvolgimento di numerosi attori esteri in un momento di forte instabilità globale: ci riferiamo a molti Stati dell’America Latina, agli Stati Uniti d’America, Cina, Russia, Iran e Qatar.

Il Venezuela è evidentemente diviso in due, sta vivendo il post-voto nel caos, con il Presidente uscente Maduro che dopo poche ore dalla chiusura dei seggi ha dichiarato la sua inequivocabile vittoria, sostenuto dal parere della Commissione Elettorale – ritenuta da molti come un organo controllato dal Governo uscente – mentre le opposizioni gridano ai brogli elettorali. I dati ufficiali sanciti dalla commissione riportano un 51,2% delle preferenze espresse dagli elettori per il socialista Maduro, contro il 44,2 % ottenuto dall’oppositore Edmondo Gonzales, che ricordiamo essere entrato solo di recente nell’agone politico per sostituire la conservatrice  Maria Corina Machado, interdetta  dalla Corte Suprema venezuelana a ricoprire incarichi pubblici e politici per i prossimi 15 anni per “essere stata coinvolta in vari atti che hanno interferito  con la pace e la sovranità del Paese” pur avendo stravinto le primarie con oltre il 92% dei voti.

Al riguardo, anche su pressione degli Stati uniti e di altri Paesi che hanno raccomandato elezioni trasparenti e pacifiche, l’esecutivo di Maduro e le opposizioni avevano concordato alle Barbados di organizzare elezioni libere ed eque, in cui gli osservatori internazionali potessero svolgere il ruolo di testimoni di garanzia. Proprio in virtù di questo accordo Washington aveva iniziato ad allentare le sanzioni contro il Venezuela e rappresentanti diplomatici dei paesi europei stavano lavorando con una delegazione a Caracas per l’attuazione dell’intesa. Purtroppo fin da subito Maduro ha sparigliato le carte dell’accordo denunciando di avere subìto intimidazioni e aggressioni, procedendo quindi con arresti e forme di repressione violenta contro sostenitori dell’opposizione.

Alla chiusura dei seggi, l’opposizione dichiara di avere la certezza di circa il 70% delle preferenze, considerando che alcuni sondaggi pre-voto avevano stimato un vantaggio tra i 20 e 30 punti in più rispetto al contendente.

Le proteste hanno determinato la forte reazione estera, tanto che il segretario statunitense Anthony Blinken ha chiesto un nuovo conteggio “trasparente” dei voti dubitando apertamente che il risultato sia in linea con la volontà popolare. Analogamente, l’alto Commissario per gli Affari esteri dell’Unione Europea, Joseph Borrell, ha dichiarato la necessità di poter accedere ai registri di voto per la verifica trasparente dei risultati come un diritto ineludibile nei confronti di un “ popolo che ha votato pacificamente e numeroso per il futuro del proprio Paese”. Vengono ad aggiungersi a questi anche Cile, Costarica, Perù, Uruguay, Panama e Guatemala che contestano ufficialmente la validità ed i risultati del voto.

Chi tende la mano a Maduro invece sono stati la Cina, la Russia e l’Iran, che, per evidenti interessi personali, da tempo sostengono la ripresa economica del Governo Maduro, che il Fondo monetario internazionale prevede crescerà nel 2024 del 4%, attestandosi a loro detta come la più performante economia  di tutta l’America Latina. Dunque in questo momento hanno apertamente riconosciuto la vittoria del Presidente uscente, auspicando il rafforzamento delle relazioni bipolari ed il partenariato strategico in tutti i settori, anche i più sensibili, come dichiarato dal Cremlino. Ricordiamo che il Venezuela ha le più grandi riserve al mondo di petrolio ed un tempo godeva dell’economia più avanzata del continente. Poi il crollo dei prezzi del petrolio, le diffuse carenze di beni e una iper-inflazione – al 180% – hanno generato un diffuso clima di protesta interna ed una emigrazione di massa (circa 7 milioni di persone in 10 anni). Le sanzioni imposte dagli Stati uniti per costringere Maduro a lasciare il potere, dopo la prima rielezione del 2018, anch’essa ritenuta effetto di brogli, avevano aggravato ulteriormente la crisi. Ora, le proteste generate dai risultati di questa recente tornata, stanno aprendo una lacerazione profondissima nel paese,  diviso in due tra i fedelissimi e quei cittadini che dopo 25 anni di governo chiedono un cambio di rotta.

Secondo il Guardian, molti dei manifestanti che si sono scontrati con le forze di polizia provengono da quei quartieri poveri, bastioni del movimento chavista cui il predecessore di Maduro aveva restituito centralità politica  e sociale, per esempio attraverso strutture di autogoverno locale, che non sono più soddisfatti della loro condizione. Del resto Maduro da un lato non è  riuscito ad emulare il carisma del suo predecessore, dall’altro a governare il collasso della situazione economica in caduta libera.

Alla vigilia delle elezioni la postura minacciosa nei confronti degli elettori chiamati a votarlo con lo spauracchio di una possibile “guerra fratricida” e l’espulsione di personale diplomatico di diversi paesi accusati di interferire con il voto, hanno mostrato le paure di un leader incapace di governare democraticamente  e con lungimiranza un paese con grandi potenzialità, che ha tuttavia puntato tutto sulle risorse “naturali” a discapito di altri settori, come l’agricoltura e la manifattura, che avrebbero potuto garantire crescita e competitività  alternative. Essere troppo dipendenti dalle esportazioni di petrolio  ha aumentato la precarietà del Paese sui mercati finanziari, con un effetto domino impressionante sull’intera situazione economica. Con il calo della produzione di petrolio il Pil si è ridotto fino a -30% nel 2020, il debito estero e l’inflazione sono aumentati con un picco dell’800% nel 2016.

Dunque a Caracas si sta consumando l’ultimo atto di una gravissima deriva autoritaria del chavismo, con un presidente che non gode più del sostegno popolare, in un Paese dilaniato dalla crisi economica, che intende reprimere il dissenso a qualunque costo anche decretando l’arresto del suo oppositore Gonzales per disobbedienza alle leggi, cospirazione usurpazione di funzioni e sabotaggio. Nel frattempo Maduro si comporta come un presidente in carica. Ringrazia i governi dei paesi sostenitori, ha presentato un ricorso al tribunale supremo con lo scopo di certificare i risultati del Consiglio elettorale nazionale, ha presenziato una cerimonia delle forze armate, complimentandosi per il contenimento delle proteste.

Dal canto suo, Gonzales domenica si è visto costretto ad uscire dal Paese – senza peraltro che nessun impedimento sia stato adottato dal Presidente uscente – chiedendo asilo politico alla Spagna. Nei prossimi giorni, come ha annunciato, Gonzales potrebbe prestare giuramento a distanza come neo Presidente. Dunque la situazione si aggrava di giorno in giorno.

Come uscire da questa situazione? Una possibilità è offerta dalla soluzione latinoamericana portata avanti dal Brasile insieme a Colombia e Mexico, tre paesi di peso regionale e con governi di sinistra, che sono orientati ad una soluzione negoziata. Finora si sono rifiutati di riconoscere Maduro come vincitore e lo esortano a pubblicare i verbali di voto. A questo gruppo potrebbe aggiungersi anche il Cile, in quanto tutti ospitanti grandi comunità della diaspora venezuelana: due milioni e mezzo in Colombia, trecentomila in Brasile, mezzo milione in Cile. Tutti temono che l’aggravarsi della situazione possa determinare una nuova ondata migratoria. Non è detto però che la pressione internazionale abbia effetto. Per difendere il potere Maduro intende resistere, aumentare la repressione e provare a dividere l’opposizione.

Intanto, come in un romanzo distopico, il Presidente ha annunciato l’anticipo del Natale al Primo ottobre 2024, rispetto al primo novembre dello scorso anno, che “arriverà con la pace, la gioia e la sicurezza” nel Paese.

(Foto di aboodi vesakaran su Unsplash)

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