23 maggio 1992, ore 17,58: circa 500 kg di tritolo fanno esplodere, all’altezza di Capaci, l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo.

La devastazione è enorme, le carreggiate sono esplose in ambedue i sensi di marcia, una decina di autoveicoli vengono investiti dalla tremenda onda d’urto, un’enorme cratere si apre nella carreggiata interna e dentro scompare semisepolta e sventrata un’auto blindata. Un’altra blindata, che precedeva il corteo viene sbalzata in una scarpata a circa 100 metri di distanza.
Nella prima auto i corpi agonizzanti del giudice Giovanni Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo, anch’essa magistrato, nell’altra trovano la morte Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, poliziotti del servizio scorte della Questura di Palermo. Decine sono i feriti tra viaggiatori ignari, feriti sono pure altri tre agenti della seconda auto di scorte.
Francesca Morvillo muore subito dopo, Giovanni Falcone resiste fino all’arrivo all’ospedale Civico di Palermo poi…ci lascia anche lui.
Ci lascia e subito l’Italia, tutti noi, i siciliani, ci sentiamo orfani, più esposti allo strapotere della mafia.

Lo Stato appare fragile, attonito, sbandato, incapace di reagire adeguatamente, di riaffermare la sua sovranità. Ma sembra anche compromesso e addirittura complice. Le successive inchieste e sentenze giudiziarie ci diranno quanto fosse vera questa sensazione.
La Repubblica è senza la sua guida più autorevole: da settimane non si trova l’accordo tra le forze parlamentari per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Soltanto dopo la strage, sull’onda dell’emozione e dello sdegno popolare si ritrova la necessaria coesione e viene eletto il Presidente Oscar Luigi Scalfaro.

Ma la reazione delle Istituzioni è lenta, inadeguata, confusa. Già da qualche tempo (dopo l’omicidio Lima), una parte dei vertici dello Stato stavano maturando l’idea di una trattativa con i corleonesi ma Falcone rappresentava un grosso ostacolo su questa strada. Paolo Borsellino raccoglie il testimone di Falcone e capisce subito che deve fare in fretta a raggiungere dei risultati. Sa che sarà il prossimo bersaglio degli stragisti mafiosi e sa che la trattativa va fermata subito. Lo Stato non può trattare con la mafia, con l’antistato, non soltanto per un principio etico che sta a fondamento dello Stato Democratico ma perché sarebbe inutile: la mafia non accerta limiti, condizionamenti alla sua azione criminosa, al suo controllo del territorio. La mafia non riconosce lo Stato, le sue leggi, la sua Costituzione, le sue sentenze come quella definitiva per gli imputati al maxi processo.

19 luglio 1992 ore 16,58: in via D’Amelio a Palermo, un’autobomba esplode ed uccide Paolo Borsellino e 5 agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Cosina, Claudio Traina. Sono trascorsi solo 56 giorni dalla strage di Capaci.

La reazione popolare è enorme, tutti comprendiamo che in gioco non c’è soltanto la lotta alla mafia, alla criminalità organizzata ma l’essenza stessa della nostra democrazia e della nostra convivenza civile.
Anche la reazione delle Istituzioni, finalmente, si fa più dura e sopratutto più lucida e determinata. Tuttavia la trattativa continua e cosa nostra alza il prezzo a suon di bombe che esplodono non più in Sicilia: a Roma, Firenze, Milano potenti ordigni vengono fatti esplodere vicino ad importanti monumenti, allo stadio Olimpico di Roma viene evitata per un soffio una strage che avrebbe coinvolto un reparto di carabinieri in servizio di ordine pubblico. Tutti infine comprendono che la trattativa è impossibile ed allora la repressione diventa veramente dura.

In pochi anni viene smantellata, non senza sacrifici e rischi delle forze di polizia e della magistratura, l’ala militare di cosa nostra, vengono arrestati i suoi capi e condannati al regime carcerario previsto dal 41 bis, viene riguadagnato il controllo del territorio anche con il forte contributo di una nuova coscienza e consapevolezza civica che si è formata dopo le stragi del 1992. Ma la mafia non muore, si trasforma, si adatta, si adegua, si inabissa.

Leonardo Sciascia, uno dei nostri più grandi scrittori contemporanei, una volta utilizzò una delle sue famose metafore per far comprendere la capacità pervasiva della mafia. Disse che la “linea della palma”, quella linea geografica immaginaria oltre la quale le palme non riescono più a crescere, si spostava sempre più verso Nord e si riferiva alla capacità della mafia di spostare i suoi interessi criminali verso nuovi territori, tradizionalmente immuni da questo fenomeno. Le inchieste, anche di questi giorni, sugli affari della criminalità mafiosa nelle regioni e nelle città del Centro e del Nord Italia, in tanti Stati europei, sono la conferma di quella lucida intuizione.

La sfida allo Stato continua e non riguarda soltanto i traffici criminali, ma interessa parti importanti della nostra economia e della nostra finanza, dell’amministrazione della cosa pubblica. Nuove mafie sono cresciute, grandi capitali di origine criminale girano per i mercati finanziari, a Palermo o a Reggio Calabria si spara di meno (ma non a Napoli) e la lotta alle mafie sembra divenuto un affare di pochi, un problema minore di fronte alle nuove paure, alle emergenze ingigantite da chi sfrutta l’insicurezza dei cittadini anziché assumere il dovere di “governare” i problemi, rassicurare la popolazione, assicurare la legalità.

Quanti cittadini oggi, considerano le mafie un problema più grande e più eversivo dell’immigrazione? Quanti pensano che la legalità democratica sia il valore ed il bene più grande da difendere? Pochi, troppo pochi. La lotta contro le mafie sembra un affare di alcuni magistrati, di alcuni poliziotti, carabinieri e finanzieri, di qualche amministratore locale e di qualche sacerdote come don Luigi Ciotti. Le forze politiche che oggi governano il Paese a partire dal ministro degli Interni sembrano più impegnati a costruire le loro fortune politiche alimentando rabbia e paura piuttosto che ottemperare al loro dovere civico ed istituzionale di combattere il crimine, di combattere quei poteri criminali che attentano alla legittimità dello Stato democratico. Oggi saranno tutti pronti a versare lacrime di coccodrillo nel commemorare Giovanni Falcone e tra qualche mese Paolo Borsellino.

Ma a questo Paese serve che la battaglia per la legalità non venga considerata residuale rispetto ad altre questioni, serve che magistratura e forze di polizia siano supportate da una legislazione adeguata alle trasformazioni del crimine, di avere la disponibilità di uomini, tecnologie e mezzi idonei a questa lotta, di educare alla legalità le nuove generazioni.
Matteo Messina Denaro, l’ultimo mafioso della stagione delle stragi, è latitante da decenni. Abbiamo il dovere di catturarlo e di processarlo, abbiamo il diritto di fargli dire tutta la verità sulla stagione stragista e sulle complicità, anche istituzionali, che la hanno determinata. Verità necessaria per capire la successiva evoluzione dei poteri criminali.

Solo così potremo dire di onorare davvero Giovanni, Paolo e tutti gli altri morti nella battaglia per la giustizia e la legalità. Solo così potremo guardare in faccia i nostri figli.

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