La famiglia rappresenta quella fondamentale e primaria formazione sociale a cui la Costituzione italiana e il Codice civile riconoscono e garantiscono diritti inviolabili e tutele specifiche. Nonostante ciò, l’Italia – a differenza di quanto, invece, è avvenuto negli altri Paesi europei – registra un forte ritardo nell’approntare concrete e universali misure di sostegno e supporto alla famiglia. Un tratto particolare del sistema italiano, evidente nel confronto con l’Europa, è l’esistenza di diritti e prestazioni economiche, disegnate solo in funzione delle famiglie nelle quali almeno uno dei genitori è lavoratore subordinato. Finalmente, di recente, è stato approvato il disegno di legge di misure organiche pensate per le famiglie con figli, noto come “Family Act”, il cui primo intervento attuativo è stato il decreto
legislativo n. 230, che ha istituito l’assegno universale per il sostegno economico per i figli a carico.

La misura, entrata in vigore dal 1° marzo 2022, spetta a tutti i nuclei familiari con figli, indipendentemente dalla condizione lavorativa dei genitori (lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi, pensionati, non occupati, disoccupati, percettori di reddito di cittadinanza) e viene erogato dall’Inps direttamente sul conto corrente dei genitori. Dalla stessa data, cessano di essere erogati, in busta paga o con la pensione, i trattamenti di famiglia tradizionali e non vengono più applicate le detrazioni fiscali per il carico dei figli fino a 21 anni di età. Con l’assegno unico, il Governo ha voluto realizzare due obiettivi: l’universalizzazione della prestazione e la modulazione progressiva dell’importo in relazione alla situazione Isee delle singole famiglie, tenendo conto dell’età e del numero dei figli, soprattutto se disabili. Oltre ai lavoratori dipendenti, ai percettori di trattamenti di disoccupazione, ai pensionati, ne beneficiano, infatti, anche le famiglie che, nel vecchio sistema, non sempre hanno potuto fruire dell’assegno al nucleo familiare perché i genitori non sono lavoratori dipendenti o assimilati e che, a causa dell’incapienza, non hanno potuto utilizzare neppure le detrazioni fiscali. Ma ne beneficiano anche i genitori lavoratori autonomi, esclusi dall’applicazione delle norme sugli assegni al nucleo familiare. L’assegno viene, inoltre, garantito – per ciascun figlio a carico, a partire dal 7° mese di gravidanza – in misura minima anche alle famiglie senza Isee o con Isee da 40.000 euro in su. Seppur con qualche preoccupazione rispetto alla perdita economica che, nella transizione, potrebbero subire alcuni nuclei familiari, si è registrato unanime consenso nei confronti della nuova misura, per la quale si è messa in moto una robusta campagna di informazione, soprattutto dell’Inps, ma anche dei Caf e dei Patronati, di cui i cittadini possono avvalersi per la dichiarazione Isee e la richiesta della prestazione.

Crescere un figlio è la sfida più bella, noi la sosteniamo“, è lo slogan dell’Inps che, all’assegno unico ha dedicato un sito web che si affianca alla comunicazione sul web, sui social media e agli spot radiofonici e televisivi. Nei mesi scorsi, sono state presentate all’Inps 11.000.000 di domande per circa 6.000.000 di figli e, contando che si può fare domanda fino a giugno (per garantirsi il pagamento delle mensilità arretrate), che la platea possibile è circa 10.500.000 e che 600mila potrebbero essere i figli dei percettori di Reddito di cittadinanza che non devono fare domanda, secondo l’Istituto, il trend è nella norma e entro giugno si raggiungeranno le cifre corrispondenti alla reale platea di riferimento. Chi ha presentato domanda entro febbraio sta già ricevendo sul proprio conto corrente l’accredito della prima mensilità. Ma tutto ciò non basta: una vera politica governativa a sostegno della famiglia deve prevedere che l’aiuto economico sia accompagnato, in modo integrato e complementare, da servizi adeguati che sollevino i genitori che lavorano dagli oneri connessi alla cura dei figli e li aiutino ad affrontare la fase successiva alla nascita di un figlio, consentendo, in particolare alle madri, di realizzare pienamente le proprie potenzialità anche sul piano professionale. Lo Stato deve, quindi, intervenire nel più breve tempo possibile con servizi adeguati per l’infanzia, che, secondo le ultimi rilevazioni Istat, risultano ancora insufficienti e sensibilmente sotto il target europeo.

Per questo, nel PNRR, sono stati investiti quasi 6 miliardi per rafforzare in maniera strutturale i servizi per l’infanzia e sostenere in particolare i genitori che lavorano; 264 mila nuovi posti saranno aggiunti negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia, con un aumento di oltre il 70% rispetto a oggi, e almeno 1000 edifici saranno adattati per ampliare il tempo pieno nelle scuole con il servizio mensa. Tali misure, unitamente all’introduzione di una specifica decontribuzione previdenziale per le lavoratrici, puntano anche ad incidere sul tasso di occupazione di quelle con bambini piccoli, evitando il rischio dell’abbandono del lavoro dopo la maternità. I dati Istat dicono che una consistente percentuale di donne esce sistematicamente dal mercato del lavoro per motivi di famiglia e l’Ispettorato del lavoro denuncia che oltre il 70% delle dimissioni volontarie è di donne per cause di maternità. Le parole del Presidente Inps ne sintetizzano le conseguenze anche in termini di disuguaglianze pensionistiche che derivano dalle perdite in termini di salario nel medio e lungo periodo: le pensioni delle donne risultano in media più basse del 27% rispetto a quelle degli uomini. E’ chiaro, quindi, che occorre redistribuire il lavoro di cura tra famiglia e servizi, ma anche tra genitori, evitando di replicare il solito cliché secondo cui tutto ciò che ruota intorno alla famiglia, dalla crescita dei figli all’assistenza dei genitori anziani, sia esclusivo appannaggio delle donne.

In questa direzione va la legge di bilancio 2022, che ha reso strutturale il congedo di paternità obbligatorio, portandolo a 10 giorni da fruire entro 5 mesi dalla nascita/adozione del bambino, e quello facoltativo di 1 giorno, in alternativa alla madre lavoratrice. Si tratta, però, di timidi interventi. Il congedo, in teoria, è obbligatorio, ma in realtà il suo utilizzo è legato all’esplicita richiesta del padre. Ma se il padre non lo richiede, non viene sanzionato nessuno, né il lavoratore, né il datore di lavoro; aspetto, questo, che rende la misura molto vaga e incerta. Anche se lentamente, i papà si dimostrano, però, più sensibili e sta aumentando il loro ricorso al congedo parentale tradizionale di 6 mesi, indennizzato per il 30% della retribuzione. Il tema della conciliazione vita lavoro è strategico anche per le aziende. Il Bilancio 2022 di Cerved le descrive sempre più interessate ad esperienze innovative come quella del welfare aziendale, utile, in molti casi, per riempire il vuoto nel nostro sistema di welfare pubblico. Le imprese che vi investono agiscono, infatti, su un duplice fronte, modificando l’organizzazione del lavoro e generando servizi per le famiglie dei lavoratori. Le imprese possono, per esempio, offrire flessibilità sull’orario di lavoro concedendo part-time, modificando l’orario di entrata o uscita dal lavoro o alternando lavoro in presenza con lavoro da remoto, tutte soluzioni che trovano molto gradimento nei lavoratori. Ma possono anche offrire soluzioni collettive alle esigenze dei lavoratori, come fa l’accordo aziendale che porta all’apertura di asili nido in ogni sito produttivo di Fincantieri, firmato a gennaio con le categorie dei metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil. Anche Intesa Sanpaolo ha recentemente sottoscritto l’accordo di secondo livello con le organizzazioni sindacali, che contiene alcune interessanti novità in materia di welfare aziendale legate al benessere dei dipendenti, per esempio la “Banca del Tempo”, per cedere permessi e ferie a colleghi che si trovano ad affrontare momenti difficili. Ma anche le piccole e medie imprese, nel 63,3% dei casi hanno attuato, tra le misure organizzative, almeno un’iniziativa di sostegno alla genitorialità e facilitazioni per il lavoro (Rapporto Welfare Index PMI 2020). Si tratta di risultati che rappresentano una quota ancora piccola degli accordi aziendali, ma, dai dati dei Sindacati, sicuramente in crescita, con cui si dà una risposta concreta alle famiglie di chi lavora e indirettamente si può contribuire anche alla realizzazione di un altro importante obiettivo, la crescita demografica.

Proprio sul tema del calo demografico, il Rapporto Istat sullo scorso anno ha, purtroppo, riportato un quadro definito “inimmaginabile”: nel 2021, le nascite in Italia, scendendo sotto quota 400mila, mostrano i numeri peggiori tra quelli registrati dal 2007 e la debole ripresa registrata negli ultimi mesi dell’anno riguarda più che altro le nascite da donne over 35. E soprattutto, un’analisi dettagliata dei dati evidenzia che il calo delle nascite, dovuto solo in parte alla pandemia, è l’effetto (ahinoi!) proprio dell’assenza nel nostro Paese di politiche strutturali a lungo termine.

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