Paolo Feltrin ha recensito il nuovo libro di Guido Baglioni, “La disuguaglianza e il suo futuro nei paesi ricchi“, edito da Il Mulino (Bologna, 2018)

Molti conoscono da decenni Guido Baglioni, e alcuni di noi che hanno vissuto una vita molto diversa dalla sua, pur sempre tra accademia e impegno politico-sociale, gli invidiano due qualità tipiche del mestiere accademico.
La prima qualità è la perseveranza, basata sulla convinzione che il lavoro intellettuale sia prima di tutto un ‘lavoro’, scandito da ritmi regolari, forse un po’ noioso, a cui dedicarsi con costanza, rigore, perfino con sacrificio, secondo l’antico motto che ricorda come questo mestiere sia fatto di tre sole componenti: leggere, pensare, scrivere.
La seconda qualità è il fiuto per i temi d’indagine, a metà strada tra ‘ciò di cui tutti parlano in città’ e le grandi questioni della disciplina, senza fossilizzarsi per tutta la vita su di un unico argomento su cui vivere di rendita, ma con la curiosità e l’ambizione del collezionista, alla ricerca delle cose che mantengono il loro valore nell’immenso accumularsi di fatti e teorie nel corso del tempo.

 

La disuguaglianza economica nelle società occidentali

Nessuna sorpresa dunque di fronte a questo nuovo libro, in  cui  fin dal titolo, La disuguaglianza e il suo futuro nei paesi ricchi, Baglioni manifesta la sua ambizione a dire qualcosa di diverso e di nuovo su un argomento oggi al centro di molte discussioni tra gli economisti, anche tra quelli mainstream. Come sempre nei libri di Baglioni, il linguaggio è chiaro e l’approccio didascalico, premurandosi di definire ogni nuovo concetto, indicatore o misura che vengono introdotti nella discussione, come pure di segnalare i contributi più importanti nell’avanzamento della disciplina, senza affogare il testo con centinaia di rinvii bibliografici come d’uso nella retorica accademica contemporanea.
Sembra che il pubblico di riferimento di Baglioni rimanga ancora oggi  quello degli studenti universitari e, proprio in questa ottica, è un peccato la rinuncia, immagino imposta da ragioni editoriali, a pubblicare i resoconti analitici degli autori di riferimento (Picketty, Stiglitz, Atkinson, Deaton, Sen), perché avrebbero costituito una Prima Parteintroduttiva al volume, utilissima dal punto di vista didattico.

“qui basta ricordare il filo rosso della tesi declinata negli otto capitoli del volume: la disuguaglianza economica esiste e non è diminuita nelle società occidentali nell’ultimo secolo

I contenuti del libro sono già stati riassunti, qui basta ricordare il filo rosso della tesi declinata negli otto capitoli del volume: la disuguaglianza economica esiste e non è diminuita nelle società occidentali nell’ultimo secolo, tuttavia:

  1. il livello inferiore da cui oggi si parte per misurare la diseguaglianza economica è molto più elevato rispetto al secolo scorso, tanto da farne  un problema qualitativamente diverso dalla diseguaglianza misurata nelle società povere e da rendere incomparabile la nozione stessa di diseguaglianza di  oggi se paragonata, come fa Picketty, con quella  del passato (pp. 53-55);
  2. in conseguenza dei progressi nella crescita complessiva dei redditi, almeno i quattro quinti della popolazione che vive nelle nazioni ricche non può dirsi povera e ha accesso a redditi e tenori di vita sufficienti (p. 89);
  3. l’aumento dei redditi e il contemporaneo calo dei prezzi ha condotto a stili di vita differenti, a cui hanno egualmente accesso tutti coloro con redditi sufficienti o più elevati: alimentazione, abitazione, automobile, istruzione, sanità, aspettative  di vita, tempo libero, consumi voluttuari, informazione digitale;
  4. di conseguenza, la disuguaglianza economica non è una priorità nelle nostre società, rispetto ad un obiettivo come – ad esempio – quello di una maggiore produttività, la sola in grado di garantire la riproduzione delle passate condizioni di redistribuzione dei redditi.

“Proprio da qui può partire la discussione, cominciando dal motto che campeggia su tutti i tribunali,  ‘la legge è uguale per tutti’, per  ricordarci che il problema dell’eguaglianza sia (anche) una questione di giustizia, prima ancora che una questione dì sostenibilità economica

A ragione Baglioni osserva come il problema non sta nel sindacare quanto ricchi siano i ricchi, ma se le condizioni di una vita dignitosa siano rispettate per tutti. La sua conclusione è largamente affermativa. Proprio da qui può partire la discussione, cominciando dal motto che campeggia su tutti i tribunali,  ‘la legge è uguale per tutti’, per  ricordarci che il problema dell’eguaglianza sia (anche) una questione di giustizia, prima ancora che una questione dì sostenibilità economica, come venne sottolineato in un libro famosissimo, uscito nel  1971, scritto  dal filosofo John Rawls, curiosamente non citato, in larga parte dedicato a giustificare le politiche pubbliche di tipo egualitario. Tanto l’uguaglianza quando la diseguaglianza devono  essere adeguatamente motivate per essere socialmente accettate. Esiste quindi la necessità di dare giustificazione alle diversità nei redditi. Si tratta di un’operazione non neutrale, politica, in cui pesano i rapporti di forza tra i gruppi sociali e il loro grado di accesso al potere politico. Come mi è capitato di scrivere a proposito di Pierre Carniti, le politiche sindacali egualitarie di fine anni Sessanta, avevano come obiettivo non l’egualitarismo assoluto, ma la necessità di ridurre la discrezionalità  nelle scale salariali, poco o nulla legate a un merito oggettivamente valutabile, come pure, in secondo luogo, di dare maggiore considerazione sociale al lavoro manuale, di cui non si capiva la ragione di un riconoscimento economico tanto mediocre. Queste esigenze non paiono scomparse, o quantomeno il fatto che non se ne parli più non le rende per ciò stesso inesistenti. In quel caso, come in tanti altri esempi della storia del sindacalismo, la questione della povertà passava in secondo piano, nella convinzione che una battaglia egualitaria in favore dei penultimi vagoni sociali andasse a favore anche di stava in fondo al treno.

 

Il rancore sociale e le tesi autogiustificatorie

Baglioni sottolinea in più punti la non ragionevolezza delle polemiche contro le ricchezze ‘meritate’, ad esempio quelle degli attori (vedi p. 190). Tuttavia il problema può essere visto anche da altre angolature. Sotto osservazione in questo caso non sono le diseguaglianze ma la giustificazione delle ricchezze legittimate solo da un merito presunto. Più volte nel libro vi si fa cenno (p. 58, 61, 185, et passim) ma, forse, l’indagine può essere ancora approfondita, non fosse altro perché in molti studi risulta essere questa la radice di una parte importante del cosiddetto ‘rancore’ popolare contro le élite, per comodità riconducibili all’1% dei più ricchi nei paesi ricchi.  Quella del rancore o dell’invidia sociale a me paiono tesi autogiustificatorie – tanto delle élite, quanto degli studiosi – senza andare ad approfondire le ‘buone ragioni’ che potrebbero dare conto di comportamenti collettivi tanto diffusi all over the world.

Prendiamo in considerazione tre classi di fenomeni. In primo luogo, la tecnologia, la quale, come ci ricorda lo stesso Baglioni, è all’origine di molte grandi ricchezze. Anche in passato era così, si pensi alle prime corporation statunitensi, costruite sul monopolio o sull’oligopolio dei lavori pubblici (treni, ponti, strade) e contro cui si scagliarono con successo i primi grandi movimenti populisti, fino a giungere nel primo Novecento alle riforme contro i monopoli da parte di Theodore Roosevelt. La tecnologia, specie nelle sue fasi di prima applicazione, tende inevitabilmente a produrre superprofitti per pochi, o addirittura per uno solo. Questa tendenza va assecondata o contrastata? E questo proprio in nome della maggiore efficienza e produttività del sistema economico che, in più parti del libro, costituisce a ragione la prima preoccupazione e la ricetta aurea di Baglioni.

In secondo luogo, come osservò  Alessandro Pizzorno nel 1981, il pluralismo genera, anche in questo caso in modo inevitabile, chiusure corporative, legittimate da speciali protezioni legislative. Anche Baglioni ricorda l’insensatezza di certi comportamenti sindacali giustificati solo dal ‘potere vulnerante’ di questa o quella categoria lavorativa, ma chiediamoci se i redditi medi dei notai in Italia, prima della crisi, pari ad oltre 500.000 euro lordi anno (fonte: Agenzia delle Entrate),  fossero davvero legittimati dal merito oppure, invece, dalla sola capacità di lobbying corporativo nel mantenere esageratamente esiguo il numero degli iscritti all’ordine professionale e altrettanto esageratamente alto il numero e i relativi importi degli atti che obbligatoriamente dovevano passare per le loro mani. Analogo discorso potrebbe essere fatto per le orchestre e i cantanti lirici che hanno come unici interlocutori datoriali le istituzioni pubbliche. E così via. Le conseguenze non desiderate del pluralismo in termini di sovraredditi da monopolio corporativo, specie quelle che si basano su speciali protezioni legislative, sono o no un problema di eguaglianza, o meglio, di giustizia equitativa?

Passiamo al terzo tema, quello più controverso e allo stesso tempo più eclatante, quando cioè si somma la logica del ‘primo arrivato’, in campo tecnologico, alla logica della ‘pressione pluralistica’ degli interessi, sul terreno della protezione politica e legislativa. Loghi big five tecnologiaPrendiamo in considerazione i cinque big five dell’alta tecnologia made in Usa. I numeri del primo semestre 2018 sono impressionanti: Apple, Alphabet (Google), Microsoft, Facebook e Amazon hanno insieme realizzato oltre 70 miliardi di dollari di profitti; la loro capitalizzazione in Borsa supera i 3.500 miliardi di dollari, più del doppio del prodotto interno lordo italiano. Domanda: si tratta di guadagni ‘meritati’, anche al netto di scandali, evasioni fiscali, comportamenti lesivi della concorrenza? Oppure, si tratta di qualcosa di simile alle ricchezze dei robber barons che imperversavano nell’America di fine ottocento,  stile Gangs of New York di Martin Scorsese? Come ha sottolineato Enrico Moretti, in tutti i cinque casi appena citati gli investimenti in capitale fisso, in stabilimenti e macchinari, sono irrisori e il loro successo dipende dallo sfruttare il capitale intellettuale (altrui), dalla loro capacità di ‘trovarsi al posto giusto al momento giusto’ e, infine, dall’abilità nel proteggere attraverso norme statali ad hoc le  moderne ‘tasse sul macinato’  da loro applicate alla clientela mondiale, e tutto questo lo si ritrova fin dal primo caso di scuola, l’imposizione all’universo mondo di un software non particolarmente efficiente, il quasi dimenticato Ms-dos, da parte di Bill Gates.

“Da ultimo, sarà pur vero come scrive Baglioni nell’ultimo capitolo, che la riduzione della disuguaglianza è improbabile, ma da sola non appare una ragione sufficiente per abbassare la bandiera egualitaria, e ciò indipendentemente dai risultati concreti che si possono raggiungere.

Per Baglioni, i profitti da sfruttamento tecnologico sono legittimi, come era apparso ragionevole dalla triplice Smith-Ricardo-Marx in poi. Ma oggi si possono trattare le nuove tecnologie digitali alla stessa stregua di quelle ottocentesche? Oppure c’è un salto qualitativo che ne cambia sia l’origine, come ha sottolineato Mariana Mazzuccato, sia la sua natura sociale e, di conseguenza, finisce per mettere quantomeno in discussione la legittimità della sua appropriazione esclusiva nella mani dei primi arrivati?  Per omaggio alla rivista che ospita questa recensione, va fatto almeno un cenno al ritardo sindacale nel riflettere sulla redistribuzione della ricchezza una volta che il general intellect, di cui intuì la potenza il Marx del ‘Frammento sulle macchine’,  abbia conquistato la primazia nel computo dei fattori produttivi. Alcune riflessioni del post-operaismo di origine anglosassone, a cominciare da David Graeber e da David Harvey, oppure di economisti del lavoro statunitensi come Lawrence Mishel, potrebbero aiutare a fare qualche passo avanti nelle definizione di politiche redistributive che tengano conto di questa prospettiva.
Da ultimo, sarà pur vero come scrive Baglioni nell’ultimo capitolo, che la riduzione della disuguaglianza è improbabile (p. 170), ma da sola non appare una ragione sufficiente per abbassare la bandiera egualitaria, e ciò indipendentemente dai risultati concreti che si possono raggiungere.

 

La democrazia come libertà e uguaglianza

La democrazia, nella definizione standard di Giovanni Sartori, è “un sistema etico-politico ecc.”, dove il trattino corto serve a  sottolineare l’eguale importanza dei due termini, una legatura fra concetti diversi, rinunciando ad utilizzare nell’endiadi la meno impegnativa congiunzione semplice ‘e’. In questa definizione, la democrazia è un sistema politico che funziona nel modo piuttosto scadente che conosciamo, ma aspira continuamente a diventare qualcosa di più allo scopo di realizzare i due valori in cui si invera la sua eticità: libertà e uguaglianza. Come ci ricordava Raimondo Luraghi, la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776 affermava: “noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la vita, la libertà, e il perseguimento della felicità” (sottolineiamo: prima la vita, poi la libertà). Nonostante questa impegnativa dichiarazione, i cinque estensori, primo fra tutti Thomas Jefferson, continuarono a mantenere inalterata, senza particolari sensi di colpa, la loro condizione di proprietari di centinaia e centinaia di schiavi. Analogo appello al perseguimento dei valori,  anche se (momentaneamente) sconfitti nelle contingenze della storia, venne rivolto nel 1919 da Max Weber ai suoi studenti in chiusura della sua celebre conferenza su La politica come professione e come vocazione.

“Orbene, qualunque azione politica o sindacale si ponga come obbiettivo di utilizzare un qualche ‘potere frenante’ per guadagnare tempo (il katéchon di Carl Schmitt), alla luce di queste tendenze dell’economia contemporanea, a noi sembra quantomeno da valutare con attenzione.

Può apparire eccessivo  questo richiamo alla tensione etica da mantenere sull’ideale egualitario, specie in chi, come chi scrive, appartiene alla schiera dei realisti. Tuttavia, la lettura di un libro come quello di Tyler Cowen, La media non conta più, suggerisce di non sottovalutare alcune tendenze contemporanee a giustificare come inevitabili  anche le ineguaglianze più gravi. Cowen, parlando degli Stati Uniti, dando per scontato un futuro popolato da masse di poveri vieppiù in aumento, dedica gran parte dell’ultimo capitolo del suo libro a elargire buoni consigli per chi entra nella spirale delle difficoltà economiche. La sua idea è che i nuovi poveri devono (re)imparare a vivere da poveri: cambiare il posto in cui vivere andando ad abitare in stati e aree meno costose, anche se giocoforza meno salubri, più deserte, meno popolate; vivere in abitazioni prefabbricate di bassa qualità, con un prezzo più basso, pur se con qualche inconveniente nella qualità della vita; cambiare regime alimentare, nonostante la già pessima qualità degli store americani di basso livello; e così via. Orbene, qualunque azione politica o sindacale si ponga come obbiettivo di utilizzare un qualche ‘potere frenante’ per guadagnare tempo (il katéchon di Carl Schmitt), alla luce di queste tendenze dell’economia contemporanea, a noi sembra quantomeno da valutare con attenzione.

“Se c’è una cosa che il malessere nelle urne delle nazioni ricche segnala è che le dimensioni e le caratteristiche dello scoglio siano molto più serie di quanto fin qui ipotizzato, dunque non così facili da affrontare con la cassetta di attrezzi fin qui adoperata e alla quale il libro rinvia.

Di fronte al crescere di correnti del pensiero contemporaneo di questo tenore, se ha ragione, certo, Baglioni a considerare improbabile (p. 170) e non prioritaria la riduzione della diseguaglianza economica (p. 38), non appaiono queste due constatazioni sufficienti per ammainare la bandiera dell’eguaglianza economica, sia per motivi di etica democratica (à la Sartori), sia per motivi di giustizia distributiva (à la Rawls), sia per motivi di contrasto alla chiusura nella cittadella dei potenti (à la Pizzorno), sia per guadagnare tempo (à la Schmitt) di fronte alle conseguenze indesiderate della modernità.
Baglioni ogni tanto fa cenno a questo ostacolo difficile da aggirare (ad esempio a p. 89), ma con forse eccessivo ottimismo, pensa sia risolvibile con le tradizionali misure congiunte di produttività ed equità. Se c’è una cosa che il malessere nelle urne delle nazioni ricche segnala è che le dimensioni e le caratteristiche dello scoglio siano molto più serie di quanto fin qui ipotizzato, dunque non così facili da affrontare con la cassetta di attrezzi fin qui adoperata e alla quale il libro rinvia.Quando Baglioni antepone, ad esempio, l’insicurezza alla diseguaglianza, la domanda da porsi è se la prima non sia la conseguenza della seconda, dal momento che le attese, misurate a partire dal background familiare e dal titolo di studio, vengono confrontate con le conseguenze in termini di qualità del lavoro svolto e del reddito ad esso connesso.

Al momento, come aveva intuito Michael Piore, la libertà di accesso a comunità liberamente scelte, sulla base degli orientamenti sessuali, delle convinzioni religiose, delle preferenze nel tempo libero, dei gusti alimentari, ecc, ha fatto da ammortizzatore al senso di insicurezza e di deprivazione relativa connessa alla stagnazione dei redditi medi e medio-bassi. Molti segnali, non ultimi quelli elettorali, suggeriscono oggi  un ottimismo minore e la necessità di interventi riequilibratori; ad esempio, forse, la vecchia idea sindacale che i poveri (i sottoproletari del tempo che fu) si aiutino meglio rendendo più uguali i penultimi (i proletari del tempo che fu) rimane ancora oggi d’attualità. Insomma, il  merito del volume di Baglioni è di mantenere ciò che promette,   riaprendo una discussione fin troppo  rinchiusa nei confini della disciplina economica, mostrandone i mille risvolti sociali e politici, invitandoci a riflettere sui tanti aspetti di un tema classico, tanto che,  su alcuni di questi,  abbiamo provato a  segnalare l’urgenza di un confronto ancora più serrato.

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