La domanda a cui vorrei rispondere con queste riflessioni riguarda l’esistenza o
meno della necessità di affrontare le tematiche del welfare contrattuale avendo in
mente il punto di vista della distinzione della caratterizzazione “strutturale” di uomini e donne sul mercato del lavoro.

L’importanza di questa domanda deriva da una semplice considerazione: il welfare
oltre a fornire una serie di prestazioni di base (pensioni, sanità, educazione, ecc.)
assolve anche a diverse funzioni perequative di mitigazione delle distorsioni esistenti sul mercato del lavoro, sul piano sociale, ecc., oltre a svolgere funzioni di carattere
redistributive. E’ quindi evidente in questo senso come lo stesso debba prendere in
considerazione la variabile di genere. Proviamo ora a svolgere qualche riflessione preliminare a titolo di esempio per avere gli elementi necessari per rispondere a questa domanda.

Ogni forma tecnica con la quale si realizzano le varie forme di welfare può
determinare a sua volta dei meccanismi potenzialmente distorsivi. A questi “buchi”
la pratica, l’analisi dei bisogni e la progettualità degli attori sociali hanno risposto
fornendo soluzioni che si sono dimostrate in grado di risolvere queste potenziali
anomalie. Faccio un esempio per tutti. Nelle coperture pensionistiche l’elemento
dirimente ai fini della determinazione del diritto e della misura delle prestazioni è
legato alla presenza di una continuità contributiva. In questo senso alcune situazioni, considerate meritevoli del punto di vista sociale, penso tra tutte alla maternità, potrebbero dar luogo a scoperture contributive pregiudizievoli dei diritti sociali della lavoratrice. Per far fronte a questa situazione è stato individuato e realizzato l’istituto della contribuzione facoltativa.
Questa soluzione tecnica, si badi bene:
– non è insita automaticamente nel meccanismo previdenziale, nemmeno a quello a ripartizione;
– costituisce un elemento riequilibratore della “distorsione”;
– funziona tecnicamente solamente nel contesto all’interno di uno sistema tecnico
di funzionamento del sistema previdenziale.

L’anno 1992, quello della cosiddetta Riforma Amato, con l’introduzione di un
sistema misto, ha determinato una cesura del sistema previdenziale del nostro
paese. Il nuovo sistema non solo ha modificato l’impianto dal punto di vista dei
soggetti coinvolti (istituto pubblico della previdenza obbligatoria, ente contrattuale
per la previdenza obbligatoria) ma è intervenuto, con l’aggiunta di un sistema a
capitalizzazione individuale (previdenza complementare), modificando i meccanismi di determinazione delle prestazioni pensionistiche. Di fronte a un cambiamento di tale portata sarebbe stato lecito attendersi una riflessione globale sulle caratteristiche del nuovo welfare e sugli effetti che il cambio di paradigma avrebbe determinato. In realtà, purtroppo ciò non è avvenuto, nemmeno in minima parte. L’attenzione si è concentrata esclusivamente attorno allo sforzo di garantire un livello di adesioni sufficiente. Il fatto che la componente più programmatica sia stata messa da parte è una colpa che non può essere interamente imputata al sindacato. Le strutture sindacali a tutti i livelli si sono infatti trovate a dover supplire a un compito di “proselitismo” che sarebbe istituzionalmente toccata alle istituzioni pubbliche. Pertanto se oggi la previdenza complementare è una realtà consolidata è merito in grandissima parte dell’azione delle organizzazioni sindacali.

Il sindacato dovrebbe però, almeno oggi a più di 30 anni dall’avvio della previdenza
complementare, sforzarsi di considerare i fondi pensione non tanto come degli
strumenti finanziari quanto come una componente del welfare, con le sue regole
precipue, che però non escludono quelle di essere una componente del sistema di
protezione sociale. A partire da questa considerazione riprendiamo quanto abbiamo appena argomentato rispetto alle forme compensative e in particolare a quelle legate al periodo della maternità. Durante questo periodo la lavoratrice percepisce un salario
che in parte è erogato come retribuzione (quota a carico del datore di lavoro) e in
parte come indennità (quota a carico del sistema di protezione sociale).
Ora, salvo qualche lodevole eccezione, le previsioni contrattuali legate alla
previdenza complementare prevedono una contribuzione sulla retribuzione
escludendo quindi la parte percepita a titolo di indennità, che peraltro e
maggioritaria nei periodi di assenza facoltativa. Ovviamente non può in questo caso
funzionare l’istituto della contribuzione figurativa in quanto senza contribuzione
effettiva non esiste alcuna prestazione complementare. Lo stesso vale per tutte quelle altre assenze (es. 104) per le quali non si percepisce una retribuzione. Il correttivo può essere semplicemente il riferimento, definito su base contrattuale, alla retribuzione che chiamerei teorica.

Una seconda questione riguarda l’applicazione delle tabelle di conversione del
capitale in rendita con le quali a partire da quanto accumulato nella forma
complementare viene determinato dai fondi l’importo delle pensioni.
La storia delle pensioni pubbliche ci dice che donne e uomini, indipendentemente
dalla loro differente speranza di vita, hanno diritto a una pensione di uguale importo.
La ragione di questa scelta mutualistica tra sessi è abbastanza chiara: la pensione
deve assicurare un reddito dignitoso per gli anni successivi al ritiro dal lavoro e
questo valore è indipendente dalla durata temporale in cui ogni individuo rimarrà
probabilmente in vita. La stessa impostazione è stata ribadita anche con il nuovo
meccanismo contributivo. Il coefficiente che trasforma il montante virtuale in
pensione è uguale per uomini e donne.

Cosa succede nella previdenza complementare? Sebbene l’Unione Europea suggerisca l’utilizzo di un coefficiente unico, i fondi pensione hanno deciso di applicare tabelle disgiunte sfruttando una facoltà presente nella stessa normativa che consente di giustificare la rinuncia a questa opzione. Questo significa a parità di montante una pensione inferiore per le donne. C’è un ulteriore questione legata alle prestazioni pensionistiche complementari. Ogni iscritto ha la facoltà di indicare il tipo di pensione verso la quale indirizzare il capitale che ha accumulato. Fermo restando che questa flessibilità è uno dei punti più
importanti della previdenza complementare mi chiedo se qualche riflessione in più
non debba essere svolta in merito alla alternativa tra pensione senza reversibilità e
con reversibilità. Considerata la disparità tra i sessi sul mercato del lavoro sarebbe
forse più equo e tutelante prevedere che in alcuni casi particolari (coniuge senza
pensione o con pensione al di sotto di un certo livello), si debba prevedere una
obbligatorietà della conversione della prestazione con reversibilità. Qualcuno
potrebbe obiettare a questo proposito che questa imposizione potrebbe ledere un
diritto individuale a disporre del proprio risparmio. A questa obiezione rispondo
ricordando che le forme di previdenza complementare godono di una trattamento
fiscale molto agevolato che è previsto solamente in funzione della natura sociale di
questa forma di risparmio. In base a tale contributo e a tale finalizzazione è del tutto
ovvio prevedere delle limitazioni, stante che in assenza di reversibilità il costo di un
eventuale integrazione di reddito al superstite sarebbe a carico dell’assistenza e
quindi dello Stato.

Vi è poi un tema di natura politica che riguarda la rappresentanza. Se esaminiamo il
rapporto tra uomini e donne all’interno dei consigli di amministrazione dei fondi
pensione emerge una disparità enorme; le rappresentanti femminili sono meno del
10% numero complessivo degli amministratori. Vorrei essere chiaro: non mi riferisco qui a un problema di quote rosa, ma voglio solo rappresentare il fatto che l’assenza delle donne nei consigli di amministrazione è un’ostacolo alla promozione o solo alla discussione delle istanze di cui stiamo solo parlando all’interno dei fondi pensione. Ma questo è un problema del tutto sindacale, su cui occorrerebbe una riflessione che non mi spetta.

Infine va considerato una disparità di carattere strutturale tipica di tutte le forme di
risparmio. Nei meccanismi a capitalizzazione conta la quantità di risorse versate e il
tempo/continuità con la quale i versamenti vengono realizzati. Se consideriamo la
componente femminile del mercato del lavoro emerge da questo punto di vista una
duplice penalizzazione. Non solo le donne soffrono in molti casi di un gap salariale,
ovvero sono inquadrate mediamente a livelli inferiori e quindi percepiscono
retribuzioni più basse, ma allo stesso tempo hanno storie contributive più irregolari e più corte.

Infine esiste una distorsione che si attua a livello di scelte di investimento: poiché le
donne tendono a percepirsi, e il più delle volte lo sono, come più precarie tendono a compiere delle scelte di investimento più conservative. Il che significa che
partecipano a comparti meno redditizi dal punto di vista del rendimento. E sappiamo che in un sistema a capitalizzazione il rendimento dell’accantonamento
previdenziale gioca un ruolo essenziale nella determinazione dell’importo della
pensione. Stare in un comparto più conservativo significa avere a parità di
versamenti una pensione decisamente più bassa. In questo senso mi sembrerebbe utile svolgere da una parte una iniziativa di comunicazione per aumentare il livello di consapevolezza delle lavoratrici sull’importanza delle scelte di allocazione del proprio risparmio e dall’altra costruire un sistema di incentivi per “tenere dentro” le donne nel sistema complementare aumentando gli orizzonti temporali e quindi le opportunità di scelte allocative.

Mi sono concentrato esclusivamente sugli aspetti inerenti la previdenza complementare ma analoghe riflessioni potrebbero essere compiute, nella loro specificità, con riferimento a tutti gli strumenti del welfare contrattato (forme sanitarie in primis). Da qui la necessità di costruire una vera e propria agenda per intervenire sulle distorsione prima che queste creino un sistema a due velocità, o meglio a due livelli di copertura.

 

(Foto di Ярослав Гринько su Unsplash)

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