L’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) ha presentato alla Camera dei Deputati un importante rapporto con il quale, per la prima volta, analizza la legge di bilancio alla luce dei 17 indicatori di Bes (benessere equo e sostenibile), predisposti dalla Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
#Italia e #Agenda2030: a che punto siamo? “In netto ritardo”
Presentato oggi il rapporto di @ASvisitalia che analizza l’ultima Legge di #Bilancio alla luce degli Obiettivi di #SviluppoSostenibile ➡️ https://t.co/4SMJyGgqCU #Agenda2030Achepuntosiamo #27febbraio #Obiettivo2030 pic.twitter.com/HavUij0kqF— Earth Day Italia (@EarthDayItalia) 27 febbraio 2019
Cosa dicono i dati di Asvis?
I dati illustrati offrono una lettura contraddittoria della condizione italiana. Le straordinarie potenzialità del nostro Paese: ambientali, turistiche, produttive, riassumibili nel “Made (o Lifestyle) in Italy, potrebbero trovare una migliore e maggiore espressione se le politiche di sviluppo sostenibile rappresentassero una strategia condivisa e praticata a livello generale. Non è così!
O, meglio: non è ancora così. Infatti, dal punto di vista normativo e della sensibilità sociale e politica sul tema, il nostro è un Paese avanzato, ma, solo il 21% degli italiani conosce l’Agenda 2030. La politica, da un lato, manifesta attenzione e dà prova di applicarvisi (lo ha fatto anche il Presidente del Consiglio intervenendo nel convegno); dall’altro, nelle scelte concrete, dimostra di essere. ancora, sostanzialmente, condizionata da logiche tradizionali di sviluppo. Il dato quantitativo, sintetizzato nel Pil, prevale su quello qualitativo, rappresentato dal Bes.
La lettura della legge di bilancio, fatta dal professor Giovannini, che presiede l’Asvis, lo dimostra. Bisogna, dunque, operare un salto di qualità, sia a livello nazionale, ma forse, soprattutto a livello locale per passare dalla teoria, ormai abbondante, alle buone e diffuse pratiche.
Un nuovo ruolo per gli Enti locali
In quest’ottica, Legautonomie ha scelto di mettere al centro della propria strategia il tema dello sviluppo sostenibile. A esso ha dedicato un importante convegno, tenutosi a Roma nel mese di febbraio, dedicato proprio alla necessità che anche le autonomie locali si impegnino per migliorare la qualità della vita dei cittadini, con nuovi strumenti di analisi.
Secondo l’Ocse, infatti, gli enti locali e regionali sono partner essenziali del processo di attuazione dell’Agenda 2030, non solo perché sono già da tempo impegnati su essa, ma perché ben il 65% degli obiettivi di sviluppo sostenibile riguarda e coinvolge direttamente le comunità locali. Enti locali, in primis; ma anche gli stakeholder, attraverso una costante consultazione multilivello di tutti gli attori interessati: dal mondo scientifico, della ricerca, della società civile. Anche in questo campo, come in molti altri, il territorio può essere il motore del cambiamento.
A tal fine, l’Istat offre un rilevante contributo con la lettura degli indicatori articolata per territori. Il primo rapporto è stato pubblicato il 14 giugno dello scorso anno e riguarda tutte le 110 province italiane, analizzate con 61 indicatori, raggruppati in 11 “domini”:
- salute;
- formazione;
- lavoro e tempi di vita;
- benessere economico;
- relazioni sociali;
- politica ed istituzioni;
- sicurezza;
- paesaggio e patrimonio culturale;
- ambiente;
- innovazione, ricerca e creatività;
- qualità dei servizi.
Non dimentichiamo che fu proprio l’Istat, insieme al Cnel, ad avviare lo studio che produsse, nel 2013, il primo “Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (Bes)”. La lettura di questa importante mole di dati va, tuttavia, accompagnata a quella dei fabbisogni standard, pubblicati dal Mef. Comparandoli tra loro, gli amministratori locali saranno in grado di conoscere al meglio il microcosmo nel quale sono chiamati a prendere le loro decisioni di carattere economico e sociale.
In verità, gli Enti locali si sono già attivati sullo sviluppo sostenibile. Nel giugno 2017, in occasione del G7 Ambiente, i sindaci delle città metropolitane hanno firmato, a Bologna, la “Carta per l’ambiente”. Un documento che impegna le maggiori città italiane al raggiungimento di obiettivi di tutela ambientale in linea con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile.
Il protocollo individua otto macro-obiettivi da inserire nelle agende metropolitane per lo sviluppo sostenibile: riduzione dei rifiuti e riciclo (economia circolare), protezione del suolo e rigenerazione urbana, prevenzione del rischio di disastri generati dai cambiamenti climatici, transizione energetica, qualità dell’aria e riduzione delle polveri sottili, tutela delle acque e del verde urbano e mobilità sostenibile.
Nello specifico il documento pone l’obiettivo di raggiungere, entro il 2030, un livello di riciclo al 70% limitando al 5% il ricorso alla discarica e portando all’80% la raccolta differenziata. Di ridurre entro il 2020 del 20% il consumo netto di suolo e le emissioni del 40% nel 2025, arrivando al 27% la produzione di elettricità da fonti rinnovabili; di ridurre dei 2/3 lo spreco di acqua. di raddoppiare la superficie di verde urbano per abitante e di limitare, entro il 2020, l’uso di auto e moto al 50% degli spostamenti urbani.
Vanno, inoltre, nella direzione di rafforzare la centralità degli Enti locali nei processi di sviluppo sostenibile, due iniziative promosse a livello europeo dalle associazioni che rappresentano i comuni e le regioni d’Europa. A novembre scorso, a Venezia si è tenuta la prima edizione di Venice city solution, l’iniziativa organizzata da Aiccre (Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa) con l’associazione mondiale UCLG (Città Unite e Governi Locali) e tre Agenzie ONU. Obiettivo dell’incontro, che ha messo al centro gli obiettivi di sviluppo sostenibile di Agenda2030, è stato quello di confrontare le esperienze dei governi locali e metterle in pratica attraverso un confronto internazionale.
Si è chiuso, invece, il 22 Febbraio scorso, il sondaggio promosso dal Comitato europeo delle regioni, insieme all’Ocse, per comprendere in che modo è stata – o viene – perseguita la realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile nelle città e nelle regioni. Le informazioni raccolte saranno utilizzate per influenzare la futura strategia dell’UE in materia di sviluppo sostenibile, per caldeggiare con maggiore efficacia un approccio territoriale ai processi di elaborazione delle politiche a livello europeo e nazionale, nonché per stimolare interventi attuativi.
Il contesto legislativo nazionale
Il contesto legislativo nazionale favorisce questo percorso, iniziato con una indagine conoscitiva della Commissione Bilancio della |Camera dei Deputati nel 2012. C’è voluto del tempo, ma, alla fine, l’impegno è stato coronato con l’ingresso degli indicatori BES nella legislazione italiana. Con la legge 163 del 4 agosto 2016, che ha riformato la legge di bilancio e, successivamente, col decreto del 16 ottobre 2017, sono diventati legge 12 indicatori.
Vale la pena ricordarli: 1) Reddito medio disponibile aggiustato pro capite; 2) Indice di diseguaglianza del reddito disponibile; 3) Indice di povertà assoluta; 4) Speranza di vita in buona salute alla nascita; 5) Eccesso di peso; 6) Uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione; 7) Tasso di mancata partecipazione al lavoro, con relativa scomposizione per genere; 8) Rapporto tra tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con figli in età prescolare e delle donne senza figli; 9) Indice di criminalità predatoria; 10) Indice di efficienza della giustizia civile; 11) Emissioni di CO2 e altri gas clima alteranti; 12) Indice di abusivismo edilizio.
Infine, nel Febbraio 2018 il Governo Gentiloni (adempiendo ad un obbligo di legge, che il governo in carica non sta rispettando) ha inviato al Parlamento la prima relazione sui 4 indicatori che, tra i 12, sono stati considerati prioritari. Essi sono: 1) il Reddito medio disponibile aggiustato pro capite; 2) l’indice di diseguaglianza del reddito disponibile; 7) il tasso di mancata partecipazione al lavoro (che è un criterio ben più articolato del tradizionale tasso di disoccupazione); 11) le emissioni di CO2 e altri gas clima alteranti.
A seguito di questo percorso politico e legislativo, i Governi italiani, dunque, sono tenuti, d’ora in poi, a valutare in maniera sistematica, accanto al ruolo del Pil – che resta, tuttavia, centrale nella definizione e monitoraggio degli obiettivi di politica economica e di finanza pubblica – gli effetti delle loro politiche anche su altri aspetti rilevanti della vita dei cittadini.
Si tratta di un passo importante, come ha riconosciuto lo stesso Ufficio Parlamentare di Bilancio, definendo gli indicatori di benessere come una cerniera tra analisi macroeconomiche e analisi micro e settoriali, tra politiche economiche e riforme strutturali. L’Italia è stata la prima tra i Paesi europei a superare un approccio alla programmazione esclusivamente basato sul Pil.
Le ragioni che ispirarono il Parlamento Italiano
Ma, cosa indusse il Parlamento italiano ad occuparsi dello sviluppo sostenibile e ad avviare la indagine conoscitiva sui diversi modi di valutare la crescita?
Innanzitutto, la presa di coscienza, dettata dalle evidenti difficoltà del nostro paese e dal dibattito sulla crisi, che bisognava interrogarsi, anche, sulle logiche di spesa, di entrata; di gestione, in sostanza, della finanza pubblica. All’ordine del giorno c’era la riforma del bilancio e dell’articolo 81 della Costituzione, per introdurre, come richiesto dalla Troika e dal Ministro Tremonti, che ne avviò la discussione in Italia, il pareggio di bilancio su base annua.
Ora, come ben sanno tutti gli amministratori, il pareggio di bilancio è un obiettivo positivo, da condividere e praticare. Difficile da raggiungere e, ancor di più, da mantenere. Però, perseguirlo è segno di buona amministrazione. Ma, come conciliarlo con la necessità di politiche espansive? O con la gestione di drammatiche emergenze naturali (terremoti, alluvioni, ecc.) o sociali (picchi di disoccupazione)?
Su questo punto si è accesa la discussione e alla fine il Parlamento, anche su spinta del centrosinistra, ha respinto la formula statica, rigida ed esclusivamente quantitativa del pareggio di bilancio su base annua, per introdurre una visione dinamica, di tipo qualitativo. Di fatto, una gestione pluriennale del bilancio. L’articolo 81 riformulato, infatti, non prevede la parola “pareggio” e recita: “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le uscite del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti sul ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”.
La proposta emersa nella presentazione del rapporto ASviS di inserire lo sviluppo sostenibile in Costituzione trova la possibilità di essere accolta proprio dalla lettura dell’articolo 81.
Nel contempo, era in atto un dibattito sul federalismo e il decentramento dello Stato, che poneva nuovi problemi di gestione, anche delle risorse, per gli amministratori locali. La vicenda ha poi subito alterne fortune, impantanandosi prima su un eccesso di compromesso che ha indebolito le nuove province e le città metropolitane, poi sulla bocciatura del Referendum Costituzionale e, infine, sulla Autonomia differenziata, che, come vediamo anche in queste ore, da qualsiasi parte la si approcci, è davvero complicata e divisiva. Un raccordo tra lo Stato e gli Enti locali su questa tematica può trovare spazio nei lavori della Conferenza unificata Stato-Enti locali.
Tutte queste novità resero evidente che serviva una nuova cultura del bilancio, nella quale lo sviluppo sostenibile, a partire dalla riflessione critica sul Pil e dalla, conseguente, misurazione alternativa del benessere, costituisse una componente essenziale. Con queste premesse fu conseguente, nella Legislatura successiva, proseguire nel percorso tracciato ed arrivare al risultato sopra illustrato.
Ma, adesso, bisogna continuare, con scelte che rafforzino la direzione di marcia. Una di queste è cambiare la natura del Cipe – e, simbolicamente, anche il nome – per rendendo un soggetto attivo dello sviluppo sostenibile. Questa proposta fu lanciata dall’ASviS (che l’ha riproposta nel convegno del 27 febbraio), ma ha subito una vicissitudine parlamentare degna di miglior causa… è stata, infatti, colpevolmente bocciata, nella precedente legislatura, dalla maggioranza di centrosinistra (la stessa che, pure, produsse il BES!), mentre la allora opposizione, oggi al governo, votò a favore. Ma, in questa Legislatura, le parti si sono invertite, il governo gialloverde ha dato parere contrario, mentre il centrosinistra la sostiene…
Le opportunità fiscali
A completare le condizioni favorevoli allo sviluppo di interventi nazionali, ma, soprattutto, locali, finalizzati allo sviluppo sostenibile, sono state prodotte, in Italia, in questi anni, delle iniziative legislative e fiscali, che sono coerenti con gli obiettivi di sviluppo sostenibile e che vanno utilizzati dagli Enti locali, nella prospettiva di un programma di sviluppo sostenibile.
Innanzitutto, le detrazioni fiscali per interventi di ristrutturazione edilizia, riqualificazione energetica, riqualificazione antisismica, che non riguardano più solo le abitazioni private, ma anche condomini e alberghi. Soprattutto questi ultimi due consentono agli amministratori locali una importante facilitazione che permette la messa a punto di veri e propri interventi di riqualificazione urbana. Essi incidono positivamente sul raggiungimento dei Target 11.3, 11.5 e 11.6, perché aumentano l’urbanizzazione inclusiva e sostenibile, mettono in sicurezza il territorio prevenendo o riducendo le conseguenze delle calamità, rendono efficiente l’utilizzo delle risorse naturali.
Sia il piano “Casa Italia” (varato anche a seguito delle gravi calamità degli ultimi anni: inondazioni e terremoti; proprio quegli eventi eccezionali di cui parla l’art 81), sia il “Piano Periferie”, per quanto mutilato dai recenti interventi del Governo in carica, fanno parte di una unica strategia che ha al centro la vivibilità e la qualità della vita nelle nostre comunità. Le azioni vanno rivolte alle aree dismesse, agli spazi pubblici, alla mobilità, alla casa, ma guardano anche al welfare, allo sport, alla sicurezza e alla resilienza.
Infine, un posto particolare è occupato dalla lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Oltre la confusione in atto su questo decisivo aspetto della vita pubblica e ai rilevanti dubbi che suscita il reddito di cittadinanza – anche visto l’andamento che stava assumendo il Rei, che andava rifinanziato – mi interessa, qui, sottolineare l’inderogabile necessità che la gestione della lotta alla povertà, in qualsiasi forma la si organizzi, resti affidata ai Comuni, ossia agli enti locali più prossimi ai cittadini bisognosi e, quindi, quelli più in grado di interpretare le necessità delle comunità locali.
Un nuovo ruolo per la Finanza
Ma, se, sia pure con le contraddizioni esposte, nel nostro Paese ci sono le condizioni per procedere, la situazione a livello internazionale appare più complicata. Sicché, mentre cresce la sensibilità sociale sul futuro del pianeta e sulla qualità del vivere, una parte importante della politica globale e degli operatori economici affrontano questa decisiva questione con scelte inadeguate o contraddittorie. Le recenti dispute sul clima, con le scelte improvvide del governo americano, la corsa … capitalistica dei cinesi, le condizioni sottosviluppate dell’Africa (che sono all’origine di buona parte delle migrazioni), ne sono la prova e l’assenza (ormai possiamo definirla così!) di un ruolo regolatore o propulsivo delle grandi istituzioni internazionali (dall’Onu al Wto, al Bit…) la conferma.
La classifica di “SDG indet And Dashboard Report 2018” pone i paesi scandinavi in buona posizione (l’Italia è al 29esimo posto), ma, in generale, nessuno raggiunge il massimo. Soprattutto i paesi a basso reddito faticano ad assumere lo sviluppo sostenibile come una priorità.
Le eccezioni ci sono, insufficienti, ma interessanti, come la, ormai datata, Commissione Sarkozy in Francia, o la recente assegnazione del Nobel a Bill Nordhaus e Paul Romer, con la esplicita motivazione che: “hanno disegnato metodi…sul come ricreare e tenere in piedi una crescita economica sostenibile”.
Secondo il rapporto Schroders (che raccoglie le tendenze di 22 mila investitori di 30 paesi investitori), l’Italia è al 22esimo posto. Complessivamente l’Europa occupa, per investimenti “etici”, solo il terzo posto dopo Asia e America e tra i paesi più interessanti spiccano l’Indonesia, l’India, il Brasile… il primo paese europeo è la Svezia, ma solo all’undicesimo posto.
Eppure, sempre secondo il “Schroders Global Investitori Study, il 78% degli investitori coinvolti (il 72% di quelli italiani) considera importante investire in sviluppo sostenibile. E’ un dato in netta crescita il che fa ben sperare sulla riflessione in atto nel sistema finanziario rispetto alla prospettiva economica globale.
Le emergenze economiche, sociali e ambientali, che sono esplose negli ultimi anni nel mondo, ci dicono, infatti, che dobbiamo cambiare stili di vita e modelli di produzione. In particolare, l’esplodere della crisi economica globale del 2008 ha reso evidente che è finito un ciclo di sviluppo e non regge più – né teoricamente né praticamente – la tesi, diffusasi negli anni ‘80, che la crescita era infinita. Dunque, bisogna, interrogarsi sui modelli di sviluppo.
Per un certo periodo la discussione sembrò orientarsi tra i sostenitori della crescita a qualsiasi costo, e i propugnatori della “decrescita felice”, sostenuta da ampie aree del pensiero progressista e radicale. Si è visto che si tratta di una discussione sterile.
Lo sviluppo globale presentava (e presenta), infatti, una grandiosa contraddizione: da un lato, meritoriamente, consente di ridurre la povertà assoluta e di far entrare “in casa” milioni di persone che ne erano escluse; ma, dall’altro, dentro “la casa” (quella globale e quelle singole delle diverse regioni) le distanze tra gli abitanti aumentano e non c’è posto a tavola per tutti… Quindi: la crescita globale non assolve al principio di base del liberismo, secondo il quale col crescere della marea tutte le barche si alzano. Si alzano solo quelle che sono già in grado di stare a galla; quelle ammaccate o da … riparare, affondano. Al contrario, proprio in ragione di quella opportunità (più inclusione possibile per tutti) e di questo svantaggio (maggiori disuguaglianze) la “decrescita felice”, pur animata dalla idea di una migliore qualità della vita, nell’agitare il concetto stesso di “decrescita”, non assolve al compito di sfamare, guarire e istruire, ovvero diffondere benessere dovunque e per tutti.
La strada da perseguire, dunque, è quella dello sviluppo equo e sostenibile. La concezione, cioè, che dobbiamo sviluppare al massimo le potenzialità straordinarie che la nostra epoca offre – mai come prima d’ora – in termini di mezzi scientifici e tecnologici, ma di governarli dentro un processo che consenta alle barche già sane di viaggiare tranquille, ma senza distaccarsi eccessivamente dall’insieme della flotta e senza abbandonare chi viaggia più lentamente o ha delle riparazioni da fare. E, questo, non solo per una esigenza “etica”, che, ancorché auspicabile, è impossibile da imporre; ma, perché, proprio la grande crisi, dalla quale siamo solo provvisoriamente in uscita, ci insegna che l’eccesso di disuguaglianze, in un mondo interconnesso, dove tutti siamo dei “vicini” l’un l’altro, finisce per essere un rallentamento per tutti.