Inutile negarlo: ognuno di noi, chi più chi meno, chi in maniera più manifesta chi in modo più riservato, ha vissuto o sta vivendo sentimenti nuovi, a volte contrastanti, figli di una situazione che si protrae da tempo, senza lo spiraglio (concreto, al momento) di una luce in fondo al tunnel. Il frutto di una pandemia, e delle conseguenti restrizioni, con la quale ci troviamo a fare i conti ormai da nove mesi.

Ci sentiamo stressati, stanchi, frustrati nel continuare a dover costruire una nuova normalità alla quale è difficile e non vogliamo abituarci.

E bene, nulla di strano, se così si può dire. Già, perché è proprio l’Organizzazione Mondiale della Sanità a rilevare e dare un nome a tutto questo: pandemic fatigue, una naturale reazione a una pandemia che dura da molto e per la quale non si intravede la fine.

Secondo lo studio dell’OMS, infatti, almeno il 60% degli intervistati sta sperimentando una sensazione di sfinimento per la situazione che sta vivendo e che l’Organizzazione definisce come “una risposta prevedibile e naturale a uno stato di crisi prolungata della salute pubblica, soprattutto perché la gravità e la dimensione dell’epidemia da Covid-19 hanno richiesto un’implementazione di misure invasive con un impatto senza precedenti nel quotidiano di tutti, compreso di chi non è stato direttamente toccato dal virus.

Tralasciando le possibili conseguenze psicologiche su ogni singolo individuo (tema sul quale esistono già numerosi e più sapienti contributi), il risvolto più pericoloso, secondo lo studio commissionato dagli Stati membri dell’UE, è che con i crescenti sentimenti di smarrimento e frustrazione dovuti all’impatto delle misure anti-Covid, sempre più persone potrebbero erroneamente ritenere le limitazioni un costo troppo alto da pagare rispetto al rischio posto dalla malattia. Uno stress prolungato che può portare ad una vera e propria serie di sofferenze come ansia, irrequietezza, desiderio di libertà, contrarietà alle norme imposte, desiderio di autodeterminazione, fino ad una vera e propria negazione del pericolo. Situazioni di protesta che, al netto dei facinorosi che nulla hanno a che fare con la legittima manifestazione del dissenso, abbiamo già iniziato a vedere da nord a sud nelle ultime settimane.

C’è poi un’altra minaccia, meno eclatante se vogliamo, ma più subdola e pericolosa che per l’Organizzazione va assolutamente scongiurata: una situazione così prolungata e apparentemente senza fine rischia, di pari passo anche con la perdita di efficacia delle campagne di sensibilizzazione, di generare una sorta di familiarità con il pericolo che porta ad abbassare la guardia. Insomma ci abituiamo al pericolo, lo normalizziamo e quindi ci proteggiamo di meno.

C’è un testo che, probabilmente più di ogni altro, descrive tutto questo. E che, non ha caso, è tornato alla ribalta negli ultimi mesi incrementando le vendite soprattutto in Italia. E’ ‘La Peste’, di Albert Camus, romanzo del 1947 che racconta il dilagare di un’epidemia che si manifesta in un tempo non precisato degli anni ’40 del secolo scorso, in una città dell’Algeria, Orano. In un passaggio, in particolare, si legge: “La conseguenza più grave dello sfinimento che pian piano prendeva tutti coloro che continuavano la lotta contro il flagello non era tanto questa indifferenza agli eventi esterni e alle emozioni altrui, quanto la trascuratezza cui si lasciavano andare. (…) Sicché quegli uomini si ridussero troppo spesso a ignorare le norme igieniche da loro stessi stabilite…”.

Che fare? Il documento dell’OMS, tra le numerose disposizioni finali, contiene due importanti suggerimenti rivolti ai governi nazionali. Il primo è un invito all’ascolto e alla comprensione dei cittadini, delle varie istanze e di quelle che sono le reali difficoltà. Solo partendo da questo presupposto sarà possibile mettere in pratica il secondo suggerimento, e cioè quello di sforzarsi per adottare misure che siano il più possibile chiare, motivate, semplici ma, allo stesso tempo, incisive.

Un’attenta considerazione di questi elementi porta a un maggior successo e a un miglior rapporto costo/efficacia di politiche, interventi e comunicazione, spiegano gli esperti dell’WHO-Europe. Che aggiungono come le persone debbano essere coinvolte come parte della soluzione e non del problema.

È fondamentale evidenziare il ruolo che i singoli possono assumere per il benessere dell’intera comunità. Promuovere l’auto-efficacia, il senso di appartenenza e l’utilizzo della narrazione attraverso le storie di testimonial della comunità rafforza il coinvolgimento dei singoli ed evita che i comportamenti raccomandati siano vissuti come sottomissione all’autorità.

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