Dare il là a un periodo di totale incertezza e confusione normativa in un settore importante e delicato. Questa la prima conseguenza dell’esclusione del commercio su area pubblica dalla direttiva Bolkestein, introdotta con l’ultima legge di bilancio. Siamo in presenza, infatti, di una soluzione non idonea neanche a conseguire il suo preteso obiettivo di tutela degli attuali operatori del comparto contro gli eccessi della concorrenza.

Per evitare di restare nell’ambito fin troppo facile della critica negativa delle altrui iniziative, sembra doveroso provare ora a esprimere il mio punto di vista in positivo circa le problematiche del commercio ambulante e le possibili risposte a tali problematiche.

La concorrenza e l’Europa

La concorrenza non va mai demonizzata, ma neppure mitizzata. In generale, concorrenza nell’accesso al mercato significa maggiore libertà di intraprendere un’attività economica, contro le rendite di posizione: è certamente un’opportunità per i giovani, per gli immigrati, per coloro che non sono figli di chi già svolge tale attività economica. Questa ovvia considerazione, con le dovute differenze e specificità, vale sia per chi vuol fare l’avvocato, che per chi vuol fare il commerciante al dettaglio su area pubblica.

Però la concorrenza va regolata e devono essere predisposti non solo i necessari meccanismi di sostegno delle parti più deboli, perché sia una competizione tra pari e non squilibrata, ma anche gli indispensabili ammortizzatori sociali, in quanto, nei momenti in cui l’economia non è in espansione, l’ingresso di nuovi operatori non è indolore e non colpisce solo la rendita eccessiva e ingiustificata, ma rischia di porre fuori mercato anche chi con quel reddito (o quella rendita) può garantirsi un’esistenza dignitosa.

Ne consegue che la difesa corporativa di chi già svolge un’attività o una professione non è mai la risposta giusta, perché non danneggia solo lo sviluppo economico in astratto, ma cancella opportunità e occasioni di miglioramento per chiunque non abbia già trovato una collocazione soddisfacente nel mercato; tuttavia l’introduzione di nuovi elementi di concorrenza deve essere comunque graduale per minimizzare il danno alle persone. Perché di persone si tratta, rispetto alle quali anche un solo risultato negativo può essere intollerabile, e non solo di “dati economici” che comunque possono dar luogo a un bilancio positivo fra i danni ad alcuni e le opportunità per gli altri.

Per l’Europa in generale e, in questo specifico caso, per la direttiva servizi può farsi un discorso analogo, senza demonizzazioni né mitizzazioni.

Le norme europee in materia di concorrenza sono state certamente per gli Stati nazionali (e per l’Italia in particolare) uno stimolo fortissimo di modernizzazione. In molti casi, se non fossimo stati costretti dai vincoli europei, non saremmo riusciti a vincere la palude dell’indecisione e delle resistenze corporative che rendono difficile qualsiasi riforma e cambiamento degli equilibri già noti. Peraltro, le soluzioni definite in Europa sono frutto di analisi di impatto e processi di concertazione che, spesso, tengono conto della complessità dei problemi e lasciano agli Stati membri gradi di libertà nell’attuazione, sufficienti a rispettare specificità e sensibilità nazionali.

Questo non significa che, se le soluzioni e la flessibilità di attuazione previste non siano comunque adeguate, le norme europee non possano essere oggetto di critiche anche aspre e di richieste nazionali di modifica: se si sa qual è l’obiettivo ragionevole che si vuole conseguire, vi sono strumenti e procedure per far meglio rilevare tali esigenze già nella fase di costruzione di tali norme europee e poi anche per sollecitare ed ottenerne modifiche; è invece velleitario e controproducente tentare semplicemente di ignorare le norme europee che come Paese ci siamo autovincolati a rispettare.

Lo spazio per i miglioramenti coerenti con le norme europee

In questo caso, la direttiva servizi (articolo 12) impone certamente procedure selettive per le concessioni di area pubblica (il paragrafo 1, in cui tale prescrizione è espressa, è fatto in ogni caso salvo), ma non pone come assolutamente inderogabie il divieto di accordare “vantaggi al prestatore uscente”, disponendo anzi che “gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”.

Alcune proposte di metodo e di merito

Vi è quindi spazio per articolati interventi nazionali compatibili col diritto europeo. A maggior ragione occorre partire da un’analisi dell’attuale stato del commercio su area pubblica e della sua regolazione, nonché da un’esplicitazione degli obiettivi cui si dovrebbe tendere, facendoli emergere da un approfondito confronto con le amministrazioni territoriali che hanno diretta conoscenza e competenze in materia, cioè con Regioni e Comuni, nonché con le associazioni di categoria più rappresentative del settore. Perché chi ha responsabilità di Governo dovrebbe definire i propri obiettivi senza farsi dettare agenda e contenuti dall’ultima protesta. Le “piazze” vanno certamente ascoltate, ma tenendo conto dell’articolazione e delle dimensioni effettive delle rappresentanze e anche delle esigenze di chi non scende in piazza, cercando di capire quali disagi reali esprimono e di fornire risposte possibili e compatibili con gli altri interessi in gioco meritevoli di tutela; le piazze non vanno invece assecondate al solo scopo di acquisire un consenso di breve periodo.

Parola d’ordine? Programmazione

Le norme in materia di concorrenza e liberalizzazioni hanno in generale riformulato il ruolo della programmazione nello sviluppo delle attività di servizi, escludendo che essa possa avere un obiettivo di artificioso allineamento dell’offerta alla relativa domanda di mercato mediante l’introduzione di meccanismi di contingentamento e limitazione delle nuove aperture. Ciò non fa venir meno, però, il ruolo della programmazione nella valutazione delle misure di incentivazione dello sviluppo delle attività di servizi e, per contro, nell’eventuale limitazione di tale sviluppo per ragioni di sostenibilità e di compatibilità rispetto ad altri interessi primari e rilevanti, quali quelli alla salute, alla tutela dei beni storici ed ambientali, alla viabilità, ecc. A maggior ragione resta rilevante il ruolo della programmazione nel settore del commercio sulle aree pubbliche, dove permane l’esigenza di individuare la migliore destinazione di risorse limitate, quali quelle del suolo pubblico, comparando i diversi interessi economici, compreso quello ad un’offerta adeguata di servizi commerciali, con tutti quelli connessi agli usi alternativi del medesimo spazio. Qui non si tratta infatti di stabilire quanti operatori possano operare senza eccesso di offerta rispetto alla domanda, ma quante e quali aree pubbliche destinare permanentemente o periodicamente o occasionalmente a tale attività economica e con quali specifiche regole e limitazioni.

Autorizzazione o Scia?

Nella direttiva servizi e, comunque, in un assetto razionale e proporzionato delle regole di avvio delle diverse attività di servizi, il mantenimento dell’autorizzazione amministrativa ha un senso nei casi in cui l’amministrazione conservi, per ragioni di tutela di preminenti interessi pubblici, uno spazio discrezionale di diniego dell’autorizzazione anche nei confronti di chi possegga tutti i requisiti morali e professionali prescritti, mentre la segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), nelle sue diverse declinazioni, è la risposta amministrativa più semplice e proporzionata quando si tratti solo di verificare il possesso o meno di tali requisiti e quando tale verifica possa avvenire a posteriori senza insostenibili rischi per altri interessi primari.

Nel caso del commercio su area pubblica la discrezionalità dell’amministrazione è interamente concentrata nella fase di programmazione e concessione, cioè nella disciplina generale delle aree di esercizio del commercio in forma itinerante e, ancor di più, nella programmazione e concessione delle aree per l’esercizio del commercio nei posteggi dei mercati o delle fiere o nei posteggi isolati su area pubblica.

La fase di avvio dell’attività in quanto tale, invece, non ha caratteristiche diverse dall’apertura di un qualsiasi esercizio di vicinato, da anni assoggettata solo a SCIA, e solo un malinteso tentativo di protezione corporativa della categoria dalla concorrenza di nuovi accessi “troppo facili” ha fatto mantenere in vita un meccanismo autorizzatorio sostanzialmente privo di utilità.

Anche in questo caso, dunque, non si pone tanto il problema di tornare alle norme vigenti prima dell’attuazione della direttiva servizi, quanto piuttosto quello di completarne l’attuazione mediante l’esplicita introduzione della SCIA per l’avvio dell’attività di commercio ambulante: senza alcuna ulteriore condizione, se l’attività debba svolgersi in forma itinerante; ovvero subordinando l’effetto della SCIA alla decorrenza della prima concessione di posteggio ottenuta, se chi presenta la SCIA intende esercitare l’attività in una specifica porzione di suolo pubblico soggetta a concessione.

Il commercio itinerante

Per il commercio itinerante non vi è quindi nessuna specifica concessione di suolo pubblico e per gli operatori esistenti nessun problema da risolvere in merito. Resta però l’esigenza di definire meglio e con criteri uniformi a livello nazionale la durata ragionevole della sosta, per evitare che il commercio itinerante possa svolgersi con modalità assimilabili al commercio su posteggio in concessione, con elusione dei relativi vincoli e concretizzando una concorrenza sleale rispetto agli operatori regolari. La possibilità di fermarsi fino alla conclusione delle operazioni di vendita in corso è una prescrizione troppo astratta che si presta ad abusi o, per contro, a incertezza rispetto a possibili sanzioni arbitrarie: da un lato, non garantisce una ragionevole durata temporale per l’offerta e i tentativi di vendita, dall’altro, in aree in cui la domanda sia forte e costante, potrebbe finire per consentire una sosta a tempo indeterminato, almeno nei normali orari lavorativi. D’altro canto, un limite orario fisso (a esempio, una o due ore) rischia di essere troppo o troppo poco a seconda delle diverse caratteristiche dei luoghi di sosta in relazione alla salvaguardia della migliore viabilità per gli autoveicoli e all’agevole utilizzo dei marciapiedi per i pedoni. È tema evidentemente da affrontare, in un quadro di criteri generali uniformi, nella sede specifica della programmazione che può ben vietare la sosta in zone in cui sia in contrasto con la tutela del decoro di aree storiche e beni culturali o possa creare rischi per la viabilità ordinaria, e comunque può differenziare i periodi di sosta ammissibili negli altri casi, a seconda delle caratteristiche (livello di traffico, ampiezza dei marciapiedi, ecc.) della specifica via o piazza interessata.

Il contrasto dell’abusivismo

Altro tema importante nel settore è il contrasto dell’abusivismo, nella consapevolezza che l’esercizio dell’attività in assenza di requisiti e senza il rispetto di obblighi ed adempimenti comporta maggiori rischi economici e per la salute dei consumatori e danneggia la competitività degli operatori regolari. Non esistono, secondo me, scorciatoie rispetto a un effettivo potenziamento e miglioramento dei controlli (amministrativi, fiscali, sanitari, lavoristici, contributivi) sul territorio contestuale a una semplificazione di tutti gli adempimenti (che eviti il più possibile irregolarità “involontarie” o di “necessità. Non risolutiva appare anche la soluzione perseguita da alcune norme nazionali e regionali di trasformare in un ulteriore requisito di accesso, attraverso l’obbligo di produzione del DURC (documento unico di regolarità contributiva), il necessario rispetto delle regole contributive, da salvaguardare in ogni caso nei confronti di tutti gli operatori attraverso l’utilizzo dello specifico e già previsto apparato sanzionatorio. Tale soluzione appare anzi in parte controproducente, in quanto determina in generale un inefficace appesantimento burocratico e, più specificamente, una sanzione impropria (impossibilità di esercizio dell’attività) anche per chi si trovi involontariamente o occasionalmente in situazione di irregolarità, intenda sanare la propria situazione e abbia bisogno dei proventi della propria attività per poter utilizzare le opportunità di ravvedimento previste dallo specifico ordinamento relativo agli obblighi contributivi e fiscali.

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