Se la speranza votasse Kamala Harris sarebbe già Presidente! Questo il clima a Chicago, nella Convention democratica. Una kermesse allegra, multietnica, aperta e “carica”; i discorsi di tutti i leader all’unisono, ma soprattutto quelli delle donne – da Hillary a Michelle, dall’ex portavoce Nancy Pelosi alla conduttrice televisiva Oprach Winfrey – l’abito bianco, il colore delle prime femministe, indossato da tante delegate; il “paterno” sguardo di Biden, passato da presenza ingombrante a padre nobile che col suo sacrificio ha dato il la al rito mediatico e politico: una coinvolgente “operazione riscossa”, ben organizzata.
E, infine, lei, Kamala, col suo discorso semplice, sobrio (come il tailleur!), ma convincente; evocativo della buona America; progressista, ma senza strafare; senza mai provocare, se non le grandi società del capitalismo rampante; determinata ma non arrogante.
Poco Trump e molta middleclass e ceti popolari. Harris ha messo a disposizione la sua storia: di americana per nascita, ma asiatica e centroamericana per le origini materne e paterne. Ha offerto il lungo cammino di emancipazione, la conferma che in America si può. Chiunque e da dovunque provenga può emanciparsi, affermarsi, diventare qualcuno, addirittura vicepresidente e… chissà. Questo, in fin dei conti, è il vero salto operato dal Partito democratico: fare propria l’identità americana – libertà e patriottismo – che sembrava essere rimasta appannaggio della destra e del trumpismo.

Basterà tutto ciò a fermare Trump, ma soprattutto ad arginare tutto ciò che lo muove: la paura; l’odio; le falsità; le offese? No, non basterà. Ci vorrà ben altro in questi due mesi rimasti. Bisognerà tenere vivo e moltiplicare l’entusiasmo di questi giorni; radicarlo in quella parte di America profonda che vive il disagio, le difficoltà e ha bisogno di cambiare; ma, al tempo stesso, ha paura che il cambiamento comporti nuove fatiche, nuovi problemi.
E qui sta un delicato aspetto dell’operazione Harris: marcare nettamente il dopo Biden, ovvero segnare il cambiamento generazionale, di genere, di collocazione sociale e culturale che Harris impersona, ma, al tempo stesso, garantire una continuità politica, come è chiaramente emerso nella Convention. Il filo che, tramite Biden, tiene legata la Harris agli Obama, ai Clinton, alla storia del partito democratico americano degli ultimi trent’anni sarà un vantaggio o un limite nei confronti dell’elettorato “di mezzo”, non schierato a priori, che si pone tra gli schieramenti, ma non è “moderato” nel senso comunemente dato a questo termine? Sarà sufficiente la scelta di Walz, il bonario e sorridente vicepresidente che Harris ha scelto proprio per parlare agli indecisi? Il discorso programmatico ma generico di Chicago andrà riempito di scelte e contenuti.

Alcune suggestioni sono già emerse: la casa, il lavoro, la sicurezza. Ma adesso servono programmi, risorse, tempistiche, non più solo evocazioni. Intercettare il vissuto profondo di un paese grande e complicato, che sa di essere forte, ma avverte una sua debolezza nel mondo che cambia rapidamente e che è sempre più interconnesso. E qui sta l’altro aspetto delicato per Harris. Trump ha finora diviso, tagliato tutto con l’accetta. Bianco-nero; buono-cattivo; americano-straniero… Che tutto ciò non sia la sola rappresentazione della realtà poco importa… Trump, con la forza comunicativa che lo caratterizza, ha trasformato la contrapposizione in metro per misurare la realtà. Almeno per una volta, questo ha funzionato elettoralmente e fino a qualche settimana fa sembrava dovesse funzionare di nuovo. Biden ha sconfitto elettoralmente Trump quattro anni fa, in pieno Covid, aggirando il dualismo trumpiano con proposte inclusive sul piano economico e sociale. Il trumpismo è stato contrastato, attenuato, ma non rovesciato.

Kamala Harris è, al contrario, essa stessa, la rottura di quello schema; ma, a differenza di Trump, deve unire, tenere insieme, congiungere. Per questo il confronto con Trump è vero, definitivo. Non solo politico. E non solo americano. La posta in gioco, infatti, come hanno ben compreso la neocandidata e tutti i delegati, non è questo o quel provvedimento legislativo, questo o quel diritto, ma l’essenza stessa dell’identità americana. E non solo.
A Chicago si è parlato poco di politica estera. Ma non era necessario, perché tutti, in America e nel resto del pianeta, sanno che l’esito di questo scontro avrà grandi ripercussioni su tutti noi, sul nostro mondo martoriato, diviso, separato, in lotta, in guerra, ma clamorosamente bisognoso di pace, reciprocità, amicizia e unità.

Quello che ci si aspetta dal voto americano non è la soluzione a questo immane problema; ma la capacità di esprimere un messaggio in grado di influenzare il cammino dei prossimi anni. In politica, messaggio e realismo non sempre coincidono. Ma, ora, è il momento del messaggio.

3 Commenti

  1. Condivido pienamente l’analisi di PP e credo che se il partito democratico americano saprà offrire programmi e prospettive , sogno e speranza varrà per tutti non solo per gli States..anche in Italia abbiamo bisogno assoluto di sconfiggere la destra populista e dal risultato negli States dipenderà anche il noatro futuro

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