La campagna elettorale per le elezioni 2018 che ci siamo appena lasciati alle spalle, breve ma intensissima, ha fornito a noi comunicatori molti spunti di studio e di analisi. Certo, la comunicazione politica segue dinamiche che non sono sempre del tutto aderenti a quelle d’impresa e la costruzione del consenso è in molti casi molto più insidiosa di una normale strategia di reputation-building aziendale. I messaggi che hanno animato il dibattito nei mesi precedenti all’appuntamento elettorale e le scelte comunicative dei partiti sono però utili da prendere in esame per intercettare tendenze e testare l’efficacia dei canali su cui possiamo puntare.
Una campagna breve e senza finanziamenti pubblici
Partiamo da alcune considerazioni generali sulla campagna. Una maratona che a seconda dei punti di vista è stata lunghissima e cortissima. Dilatata nel tempo perché nei fatti è partita in modo ufficioso dopo il referendum del 4 dicembre 2016, che ha bruscamente interrotto la parabola di Matteo Renzi, forzandolo a lasciare Palazzo Chigi e a riconquistare la segreteria del partito con l’ennesimo ciclo di primarie. Incredibilmente breve perché in realtà è durata solo un mese e mezzo: i tasselli dei vari schieramenti si sono infatti allineati con estrema lentezza, in un’atmosfera generale di “non detto” (candidatura a premier, disponibilità ad entrare in coalizione) che certamente non ha “scaldato” l’elettorato come in passato.
Un altro elemento di novità è rappresentato dal fatto che questa è stata la prima campagna dopo l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti: ciò ha determinato l’esigenza di impostare strategie “low cost”, che valorizzassero al massimo la figura del candidato in un’ottica di razionalizzazione delle risorse.
“Un altro elemento di novità è rappresentato dal fatto che questa è stata la prima campagna dopo l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti: ciò ha determinato l’esigenza di impostare strategie “low cost”, che valorizzassero al massimo la figura del candidato in un’ottica di razionalizzazione delle risorse.
Un sistema elettorale inedito
Se fino a poco tempo fa si scontravano alle urne due grandi poli contrapposti e le elezioni apparivano come una sorta di referendum su leader politici fortemente polarizzanti come Silvio Berlusconi, il 2018 ci ha riservato invece un quadro difficile da interpretare.
A fronteggiarsi erano infatti tre poli di incerta classificazione: un centrosinistra frammentato e con la leadership del Partito Democratico messa in discussione dagli “scissionisti” di Liberi e Uguali, un centrodestra sospeso tra l’approccio moderato di Silvio Berlusconi e le prese di posizione più decise di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, il Movimento Cinque Stelle non coalizzabile e determinato ad arrivare al governo pur in assenza di una percentuale sufficiente di consensi.
Il sistema elettorale inaugurato con questa tornata elettorale non ha facilitato una piena comprensione del contesto da parte dei destinatari delle strategie di comunicazione: secondo i sondaggi gran parte dei cittadini non era del tutto consapevole di ciò che avrebbe trovato sulla scheda. Da qui l’equivoco di candidature nei collegi uninominali il cui esito non è dipeso solo dalla valutazione degli elettori sugli effettivi punti di forza dei contendenti. Il fatto di contrassegnare solo il simbolo del partito prescelto con un unico voto per la parte maggioritaria e proporzionale ha nettamente sfumato la rilevanza della persona associata a quel simbolo. In alcuni casi, inoltre, coloro che si sono trovati a correre nel collegio non avevano un legame diretto con quel territorio ma vi erano stati destinati per motivazioni non legate ad una qualche forma di rapporto con quella realtà.
Agenda-setting e suddivisione dei ruoli
Se dovessi valutare l’incisività comunicativa dei vari competitor, è evidente che il Movimento Cinque Stelle è stato quello maggiormente in grado di “dare il ritmo” e di dettare l’agenda.
Essere sintonizzato con le percezioni sedimentate nella società italiana è innegabilmente un obiettivo più facilmente perseguibile per un Movimento che per sua natura non è ancorato ad una piattaforma fissa ideologica e valoriale. Un contesto in cui i frutti della timida ripresa economica sono ancora debolmente percepiti da larghi strati della popolazione, mentre permangono il timore per minacce “senza volto” (l’immigrazione incontrollata, i rischi per la sicurezza personale nelle grandi città e in periferia) e una diffidenza di fondo verso la Politica e i suoi rappresentanti. Un mix di rivendicazioni e pulsioni umorali che ha decretato la capacità degli attori politici di elaborare messaggi in grado di fare breccia nel dibattito quotidiano, condizionato da emozioni negative e spesso altalenanti. Uno sfilacciamento, quello tra le istituzioni e gli elettori, che ha penalizzato maggiormente chi veniva da una lunga e complessa esperienza di governo (come il Partito Democratico) e che ha invece premiato le forze che meglio si sono caratterizzate come alternativa radicale allo status quo (Movimento Cinque Stelle, ma anche la Lega).
“Essere sintonizzato con le percezioni sedimentate nella società italiana è innegabilmente un obiettivo più facilmente perseguibile per un Movimento che per sua natura non è ancorato ad una piattaforma fissa ideologica e valoriale.
Un’altra tendenza molto interessante è il dualismo che si è venuto a creare a livello di singola area. Nel centrosinistra il protagonismo del Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni come figura di “tessitura” e il confronto a distanza con un Matteo Renzi nelle inedite vesti del coach di una squadra di governo che puntava alla riconferma. Nell’altro schieramento, mentre Silvio Berlusconi, padre nobile in grado di rassicurare l’Europa e di parlare all’elettorato di Forza Italia, manteneva il baricentro del centrodestra nell’alveo dei moderati, Matteo Salvini e Giorgia Meloni adottavano uno stile più aggressivo nei confronti di Bruxelles e concentrato sui temi caldi come l’immigrazione e la crisi economica. Anche il Movimento Cinque Stelle ha rivelato nel corso della campagna un inedito palleggiamento tra il profilo conciliante e istituzionalizzato del candidato premier Luigi Di Maio e l’estrosità barricadiera di Alessandro di Battista, che ha rinunciato alla candidatura ma mantiene un’ineguagliata capacità di rappresentare plasticamente le parole d’ordine del Movimento.
Simboli e slogan, tra personalizzazione e trend internazionali
Sul piano dello stile comunicativo e degli slogan adottati, il panorama della campagna elettorale non ci ha fatto mancare scelte non convenzionali e spesso azzardate. Se passiamo in rassegna lo spettro politico possiamo osservare infatti un curioso miscuglio di reinterpretazioni di trend internazionali e di dosata personalizzazione, che hanno portato quasi tutti i partiti ad identificarsi sin dal simbolo con il proprio leader di riferimento.
Liberi e Uguali, la formazione di sinistra che ha riunito dietro la candidatura del Presidente del Senato Pietro Grasso gli ex esponenti del Partito Democratico in rotta di collisione con Matteo Renzi, ha scelto il tradizionale colore rosso e uno slogan “laburista”. Il “Per i molti, non per i pochi” che campeggiava sotto l’immagine del magistrato prestato alla politica è infatti un netto richiamo agli slogan del leader del Labour britannico Jeremy Corbyn, che pur perdendo le elezioni ha rilanciato il partito. Una collocazione che ha permesso di connotare in modo più identitario un cartello elettorale nato solo di recente e rappresentato da una figura poco politicizzata.
Il Partito Democratico ha invece optato, in controtendenza, per una decisa spersonalizzazione, anche dovuta alla compresenza di un Presidente del Consiglio uscente e di un segretario suo predecessore a Palazzo Chigi. I manifesti ideati dagli strateghi del Nazareno, che nel 2013 avevano incentrato la campagna su un inatteso Pier Luigi Bersani in maniche di camicia, puntavano tutto sulla scelta di campo a cui invitare gli elettori: per il lavoro, l’ambiente, l’Europa, la scienza, la cultura. Un invito razionale, sulla scia dell’attenzione per temi più sofisticati come i vaccini e la lotta alle fake news, che è stato schiacciato dalla potenza dei messaggi più emozionali degli avversari.
Molto elegante la scelta grafica del movimento Più Europa di Emma Bonino, che giocando sul segno più ha impostato una campagna molto focalizzata sui benefici derivanti dal processo di integrazione europea che ha avuto presa su un pubblico più ristretto e raffinato.
Interessante la scelta di Forza Italia, tornata iconicamente allo stile degli anni Novanta dopo la parentesi del Popolo della Libertà: ad un rinnovato protagonismo di Silvio Berlusconi sui social media e nell’ambito delle principali trasmissioni televisive generaliste si è accompagnata l’insistenza su parole chiave non utilizzate in passato, come “esperienza”, “onestà” e “saggezza”. Un tentativo di intercettare il consenso di quell’elettorato alternativo al centrosinistra e spaventato dal “salto nel buio”, anche riaggiornando il “meno tasse per tutti” con un’espressione facile da memorizzare come “flat tax”.
Più tradizionale lo stile di Fratelli d’Italia: la formazione di Giorgia Meloni si è riallacciata con la graduale evoluzione del logo alla storia di Alleanza Nazionale, adottando slogan di impronta patriottica come “Il voto che unisce l’Italia”.
Blu protagonista della campagna della Lega di Matteo Salvini, mettendo in secondo piano il verde acceso delle origini. Alle convention americane durante le quali vengono acclamati i candidati alle presidenziali sembrano ispirarsi i cartelli rigorosamente blu con la scritta “Salvini Premier” che abbiamo visto sventolare durante i raduni del leader leghista. Un richiamo a Donald Trump e al suo stile “politicamente scorretto”.
Tutta virata sul giallo, colore ormai caratteristico del Movimento fondato da Beppe Grillo, l’identità visiva della compagine Cinque Stelle, con un riferimento comunque molto marcato alla candidatura di Luigi Di Maio alla Presidenza del Consiglio e uno slogan che è in realtà una call to action: “Partecipa, scegli, cambia”. Un invito, insomma, a sostenere una formazione politica di “portavoce” delle istanze della società, come indicato anche dal primo commento di Di Maio dopo l’annuncio dei risultati: “Inizia la Terza Repubblica, quella dei cittadini”.
I “colpi di scena” di Di Maio e Salvini
Proprio a questi due ultimi protagonisti della campagna sono riusciti i due maggiori coup de théâtre, che hanno tutto il potenziale per rimanere impressi nella mente degli elettori anche dopo la chiusura delle urne.
“Ora che lo scontro dialettico e la “guerra di simboli” ha lasciato il posto al gioco parlamentare, sarà interessante seguire la “narrazione” che i due vincitori delle elezioni saranno in grado di elaborare per raccontare le proprie mosse.
A Matteo Salvini va riconosciuta l’abilità di essersi posto in anticipo come il leader trainante del centrodestra, giurando da premier in Piazza Duomo a Milano brandendo il Vangelo e un rosario.
Luigi Di Maio ha invece avviato in largo anticipo un filo diretto con il Quirinale, sconvolgendo la prassi e presentando provocatoriamente una sorta di “governo ombra” a Cinque Stelle a pochi giorni dal voto. Forzare la mano non sempre paga in termini di consolidamento della propria immagine, ma in questo caso possiamo dire che i due strappi (uno nei confronti dell’opinione pubblica, uno in termini di galateo istituzionale) siano serviti a rafforzare ancora di più la dirompenza del messaggio e la riconoscibilità delle due figure.
Ora che lo scontro dialettico e la “guerra di simboli” ha lasciato il posto al gioco parlamentare, sarà interessante seguire la “narrazione” che i due vincitori delle elezioni saranno in grado di elaborare per raccontare le proprie mosse.