Si è svolta nei giorni scorsi ad Assisi l’Assemblea nazionale degli Enti locali per la pace e i diritti umani “Artigiani di pace”. Questa edizione è stata dedicata alla memoria di Marina Baretta, scomparsa recentemente. Di seguito l’intervento di Pier Paolo Baretta, presidente di ReS.

Ringrazio tutti, ma in particolare Flavio Lotti per aver voluto dedicare questa giornata a Marina. E ringrazio David Baroncelli, sindaco di Barberino Tavarnelle, per averla ricordata con tanto affetto. Continueremo convintamente insieme il nostro impegno nella sua memoria e nel suo esempio. Grazie.

La responsabilità degli amministratori pubblici è profondamente interrogata dal magistero di Francesco. Che coinvolge, ovviamente, gli amministratori che ne condividono la fede e i contenuti, ma in verità riguarda tutti, perché l’impatto dell’economia di Francesco (… riduttivo definirla solo economia, ma è utile perché consente di verificare la immediatezza e la concretezza delle scelte che vengono assunte) è tale che chiunque abbia incarichi pubblici non può non confrontarvisi.

La sua forza consiste nel proporre una profonda rilettura del modello economico, proponendo nuovi criteri, parametri e discriminanti che hanno a che fare col “buon governo”. Dove per buon governo si intende non tanto – o meglio non soltanto – efficienza, efficacia e quadratura di bilancio, aspetti sempre essenziali, ma “ben-essere” delle persone e delle comunità; affidando allo stacco, segnato dal trattino, il compito di esprimere meglio il significato che vogliamo attribuire al termine benessere (che si presta a diversi equivoci).

In questa prospettiva, il compito che spetta all’amministratore è arduo e spesso destinato all’insuccesso. Viviamo dentro una contraddizione costante tra modelli e realtà, tra ideali ed interessi, tra bisogni e possibilità; stretti tra domande sociali crescenti, vincoli economici e ristrettezze culturali.

Questa è la nostra condizione e come tale va vissuta. Una condizione contraddittoria, dunque.

Il contributo che cercherò di dare stamattina è, perciò, finalizzato non tanto a offrire soluzioni, di cui non dispongo, ma a focalizzare, attraverso la mia attuale esperienza, proprio queste contraddizioni, nella convinzione che dalla loro presa di coscienza, per quanto a volte faticosa, sia necessario partire.

Spesso, soprattutto nelle città, le contraddizioni si manifestano con grande clamorosità e proprio per questo rappresentano un buon terreno di ricerca, in cui tentare di tenere almeno in relazione i nostri compiti di amministratori con gli insegnamenti di papa Francesco e, possiamo dire, dell’intera dottrina sociale della Chiesa, soprattutto per come si è evoluta dal Concilio in avanti.

Dopo una vita nel sindacato, per circa sette anni ho fatto parte del governo centrale, come Sottosegretario al Mef. Poi, per un anno, sono stato Consigliere comunale di opposizione nel Comune di Venezia e ora, da poco più di un anno, sono Assessore al bilancio e patrimonio del Comune di Napoli.

L’esperienza di governo nazionale consente una visione generale dei problemi del paese. Si tratta indubbiamente di un centro di potere, da dove è possibile influenzare dinamiche complesse. Ma l’esperienza di amministratore locale offre un impagabile contatto con la gente, con il “popolo” … il famoso odore delle pecore a cui Francesco ha richiamato i pastori.

Ora, siamo sinceri, questo odore di popolo, come quello delle pecore, è spesso forte, acre, a volte fastidioso. E la tentazione di proteggersi, di sfuggirvi è presente, soprattutto di fronte a situazioni di degrado estremo o di mal-essere.

Nel caso di Napoli, per esempio, si tratta di una condizione particolarmente significativa e diffusa. Città straordinaria, piena di vita, di opportunità e, appunto, di contraddizioni: 106ª per sicurezza, ma 23ª per cultura. Una presenza di giovani superiore a tutte le altre città metropolitane italiane (una vera chance per il futuro!), ma con un tasso di disoccupazione giovanile che raggiunge nella fascia 25-29 anni un picco del 47,33%, rispetto ad un 17,18% nazionale. Il tasso di disoccupazione generale è del 31,39%, contro un 11,58% nazionale. Il tasso di povertà delle famiglie è quasi del 10%. Numeri che rimandano per forza alla presenza di un sommerso diffuso, che spiega le capacità di sopravvivenza e i livelli di consumo.

Di fronte a questi dati, alla realtà che rappresentano, la tentazione di fuggire è molto forte.

Ci sono molti modi per “scappare” pur rimanendo seduti nel proprio ufficio. Il più diffuso è considerare il problema, per la sua dimensione, irrisolvibile sul piano sociale e politico. Questa convinzione, ammessa o inconscia, produce due atteggiamenti onesti e persino necessari, ma devianti rispetto all’orizzonte strategico di cui stiamo parlando.

Il primo, che definirei burocratico, si esprime in un’amministrazione convinta di poter solo tamponare le emergenze, ritenendo che la cosa migliore sia dare il massimo nella gestione della quotidianità. Quindi, “si fa quel che si può”.

Sappiamo bene quanto questo approccio sia diffuso. Bisogna essere chiari: non è una vera e propria deresponsabilizzazione. I funzionari e i politici, anche quelli di buona volontà, si muovono tra limiti oggettivi, vincoli di legge e consuetudini che ne limitano l’azione. Ma è evidente che stare dentro questo approccio non basta.  

L’altro modo di non affrontare il problema, che definirei moralistico, è di rispondere all’eccesso di complessità con un volontarismo sociale di taglio assistenziale, affidandosi ad un associazionismo che occupa gli spazi lasciati vuoti dallo Stato o dagli enti locali e che altrimenti sarebbero (o sono) occupati, dalla malavita organizzata, come ormai avviene nelle grandi città, non solo a Napoli e non solo al Sud.  Va detto subito e chiaramente, per non ingenerare un equivoco del nostro ragionamento, che le presenze associative sono fondamentali, in molti casi decisive e vanno sostenute in pieno. Ma sono pur sempre sostitutive di politiche pubbliche assenti.

Allora si pone per l’amministratore il problema di trovare strade, percorsi politici e istituzionali che affrontino i problemi senza rimuoverli, per la semplice ragione che non è vero che non sono risolvibili. Il primo compito della politica, propedeutico ad ogni passo successivo, è il riconoscimento del problema, la sua emersione. Talvolta può succedere che più i problemi sono rumorosi, meno sono riconosciuti nella loro essenza profonda. Dobbiamo rovesciare il paradigma. Nessun problema è irrisolvibile.

Questo approccio di non rimozione ha una portata “pedagogica”, perché consiste nel gestire le ansie comprensibili che si diffondono negli uffici, tra i dirigenti, i funzionari. Possiamo provare a rispondere anche attraverso una nuova cultura della programmazione e del bilancio, dove i tempi e le modalità delle soluzioni possano prescindere dai tempi dei bilanci di previsione e dalla durata delle Amministrazioni. .

Inoltre – e questo è un punto decisivo – le soluzioni prescindono anche dal problema in sé stesso; o, più precisamente, non si esauriscono in esso. La tendenza delle amministrazioni è quella di lavorare per comparti a sé stanti, ognuno per conto suo, in una organizzazione parcellizzata, una sorta di fordismo applicato alla P.A. Mentre nessun problema di un certo rilievo è risolvibile se si affronta isolatamente, e non in una progettualità generale.

Viceversa, qualsiasi problema può essere affrontato solo se è dentro una idea di città! Non esiste un problema ambientale, occupazionale, abitativo, sanitario in sé, ma in quanto è una componente non separabile da una idea complessiva di territorio, di urbe.

Si pone per tutti, ma per le grandi città in particolare, un problema delicato: come alimentare questa visione complessiva, senza, però, staccarsi troppo dalla condizione specifica della articolazione territoriale necessaria per non perdere il contatto con …l’ovile.

A questo fine va sicuramente potenziato il decentramento amministrativo. In primis l’articolazione istituzionale per municipi, con competenze vere e risorse adeguate. Dove la politica, come nei comuni di piccole e medie dimensioni, sia cosciente che la vicinanza col gregge non consente sofisticate querelle o esasperate lentezze conseguenti il gioco degli equilibri. Diciamola in questo modo: la professionalità politica è diversa a seconda del luogo nel quale la si esercita.

Serve anche un coinvolgimento costante degli stakeholder, attraverso forme di consultazione permanente dell’associazionismo che opera nel territorio. Ma, soprattutto, è la formazione delle classi dirigenti il vero punto debole di questa fase storica.

In passato ci pensavano le scuole di partito o sindacali, le scuole di politica diocesane. Erano le parrocchie, le sezioni, i consigli di fabbrica a forgiare i futuri politici, amministratori, sindacalisti. Oggi si avverte una crisi della formazione politica e sociale. È urgente ripristinare questi percorsi formativi. Difficile amministrare senza studiare, conoscere, interpretare. Proprio perché è cresciuta la complessità.  

Provo a evidenziare meglio questi concetti attraverso tre esempi concreti, con i quali mi sto e ci stiamo misurando a Napoli, ma che hanno una rilevanza generale, alla ricerca di risposte innovative coerenti con la nostra responsabilità civica vissuta, per quanto malamente, nell’ottica dell’economia di Francesco.

Il primo attiene alla riscossione (…date a Cesare…). Come sappiamo, in Italia la fedeltà fiscale è molto relativa (100 miliardi di evasione sono una cifra imponente che sottrae risorse al buon funzionamento della cosa pubblica. Nel caso di Napoli le cifre sono impressionanti: 2,2 miliardi di tasse non riscosse, di cui 770 milioni di Tari e 880 di multe. È evidente la necessità di intervenire, anche con determinazione.

Ma nella nostra responsabilità affiora una serissima, grave domanda: che rapporto c’è tra questi dati, insostenibili, e quelli, altrettanto insostenibili, del tasso di povertà, della disoccupazione e del reddito, di cui ho parlato prima? Come distinguere? Esiste una evasione incolpevole o, soprattutto, di necessità?

C’è chi sostiene, con molte buone ragioni, che questa distinzione sia scorretta perché giustifica comportamenti sbagliati. Ma, togliendo di mezzo i furbi, ci resta comunque tra le mani una problematica sociale da risolvere.

Le democrazie moderne si reggono, dal punto di vista fiscale, sul doppio principio: “no taxation without representation” (ovvero: nessuna tassazione è dovuta se non c’è rappresentanza; punto di partenza della rivoluzione americana) e il suo rovescio: se non paghi le tasse niente rappresentanza, leggasi cittadinanza!

A Napoli, l’alta evasione – che, si noti, è sostanzialmente equivalente al disavanzo – viene giustificata dall’assenza o dalla scarsità di servizi (in particolare igiene urbana, trasporti, ecc.).

Un modo di ragionare non accettabile, ma che pone all’attenzione di chi amministra, una volta depurato dalla strumentalità, un punto discriminante: quale è la natura dello scambio tra cittadino e istituzione?

La mia sensazione è che negli anni scorsi, a Napoli, lo scambio non dichiarato fosse proprio questo: noi amministrazione tolleriamo un tasso di evasione eccessivo (solo ora abbiamo affidato la riscossione coattiva a una società specializzata) e voi cittadini tollerate il disservizio.

Nella società contemporanea, soprattutto nelle città, il peso dei servizi è però destinato a crescere e saranno i servizi, più che il reddito (da lavoro o di cittadinanza) a determinare le condizioni di vita delle persone e delle famiglie. Perseguire una politica di recupero dell’evasione è un dovere e una necessità, ma è evidente che la credibilità di una amministrazione sarà sempre più affidata alla capacità di organizzare un sistema di servizi dignitoso ed efficiente.

Quindi lo scambio c’è, ma deve essere virtuoso, non perverso…

Il secondo esempio riguarda il patrimonio residenziale pubblico. La diffusa morosità degli occupanti, spesso abusivi, è un fenomeno comune tra le grandi città. Alcuni sono morosi per scelta, molti lo sono per una condizione sociale che impedisce loro di far fronte al rispetto delle scadenze, tanto più ora che l’inflazione galoppa e le pensioni e i redditi bassi non lievitano.

La domanda di edilizia residenziale pubblica conseguente alla urbanizzazione crescente ha portato, in tempi non remoti, alla costruzione di veri e propri mostri urbanistici, tipo le Vele di Scampia, o Corviale a Roma… Una sorta di nostrane favelas di cemento armato.

All’ombra di queste follie urbanistiche sono cresciuti interi quartieri urbani (a Napoli sono 22 mila gli alloggi popolari di proprietà del Comune) che se non arrivano al livello delle Vele o di Corviale, citati prima, sono pur sempre luoghi di degrado e di perdizione, per usare un termine in disuso ma che ben rappresenta il concetto di perdita di sé, della propria dignità.

Affrontare queste situazioni è un dovere civico. Ma anche etico. È difficile mantenere una sia pur minima coerenza con la economia di Francesco accettando questo dato di fatto.

La strategia di risposta, alla quale ci stiamo applicando, sta in una complessa operazione che prevede tre momenti.

Il primo: abbiamo accumulato circa 900 ordini di sgombero inevasi ed è evidente che non riusciremo mai ad attuarli tutti. Anzi, in alcuni casi, non sarebbe nemmeno giusto. Ma neppure è giusto mantenere il grande equivoco: tu occupi la casa (o non paghi il canone), io ti denuncio… tanto i tempi della giustizia son quel che sono e per anni non succede niente.  

Cominciamo, allora, con la mano ferma verso chi ha conti in sospeso con la giustizia o ha usurpato diritti altrui.

Contemporaneamente, ed è la seconda mossa, avviamo un percorso di regolarizzazione basato su un piano di conciliazione del debito arretrato (quella che nel linguaggio economico internazionale è chiamata la remissione del debito) per i soggetti fragili e affiancata dalla massima rateizzazione della cifra da riscuotere; oggi fino ad un massimo di 60/72 rate, pena la perdita dell’immobile. Si tratta di operare una precisa scelta di bilancio, probabilmente non negativa essendo molte di quelle cifre inesigibili, ma certamente innovativa sul piano contabile.

La terza mossa prevede un piano di dismissioni degli immobili a favore degli occupanti, che comprende sia il riscatto sia un fondo di garanzia.

Il terzo tema su cui interrogarsi è l’energia. La sberla dei costi delle bollette è davvero pesante, sia per le famiglie e le imprese, che per i comuni. Noi abbiamo speso, nel 2021, 41 milioni, e siamo già a oltre 70 milioni quest’anno. Faremo certamente delle politiche di risparmio energetico, ma come ben sappiamo per il comune si tratta di tenere illuminate le strade, riscaldare le scuole, ecc.

In questo caso la transizione energetica ed ecologica va proprio accelerata. Mi limito a dire che il Comune deve promuovere la diffusione di comunità energetiche e che, forse, su molti tetti pubblici si potrebbero installare pannelli solari, sostituire rapidamente le luci con i led e così via…. Questo è un interessante caso nel quale l’economia di Francesco non è solo giusta, ma è palesemente conveniente.

Da questi esempi e dai molti altri che potremo citare nella nostra comune esperienza quotidiana, emerge una domanda conclusiva, dirompente nella sua portata e nelle sue conseguenze, ma semplice nella sua essenza e centrale nella nostra riflessione di oggi.

È possibile governare tenendo insieme giustizia e misericordia?

Non lo so, penso di sì, ma vedo le fatiche che facciamo solo per porci la domanda.

Se ci vogliamo provare davvero dobbiamo agire almeno su tre ambiti: una idea di governo che assuma la complessità come valore; una cultura del bilancio che individui spostamenti di risorse; una disponibilità a soluzioni innovative.

In ogni caso il punto di partenza è l’esistenza dell’altro, è la persona. La mia generazione si è formata in un’epoca di grandi sommovimenti sociali, di ribellioni: per molti di noi lo stimolo ad occuparsi di sociale, di politica, prima ancora che dall’ideologia è venuto da una semplice frase: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto…” sono anche le nostre (Concilio Ecumenico Vaticano II; Costituzione conciliare Gaudium et spes).

Per questo (permettetemi di concludere così), pochi giorni fa, salutando mia sorella nella affollata chiesa di Tavarnelle, ho citato una frase di Simon Weil che ripeto qui:

“La pienezza dell’amore del prossimo è semplicemente l’essere capaci di chiedergli: quale è il tuo tormento?”

Grazie.

1 commento

  1. Caro Pierpaolo un abbraccio di vicinanza per questa perdita così dolorosa che lascia una scia di azioni e solidarietà oltre che di affetto che ne costituisce eredità preziosa. Grazie per questo intervento che è una vera lezione di spirito civico, di senso dello Stato e della comunità, di volontà di misericordia perché tutto è possibile in colui in cui crediamo. Ludovica

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