Che il nostro sia un Paese “che studia poco” è cosa ormai nota, quantomeno se paragonato alla media degli altri Stati dell’area OCSE. Gli ultimi dati, infatti, ci dicono che in Italia solo il 19,3% della popolazione ha un titolo di studio accademico, contro il 36,9% medio dei Paesi OECD, con un numero che sale al 27,7% se si considerano i giovani nella fascia 25-34 anni contro il 44,5% della media OECD.
Nel suo ultimo report l’Organizzazione afferma che “i giovani italiani hanno bisogno di ulteriori incentivi per iscriversi all’università e per laurearsi. In Italia, gli adulti con un’istruzione terziaria guadagnano il 39% in più rispetto agli adulti con un livello d’istruzione secondario superiore, rispetto al 57% in più, in media, nei diversi Paesi dell’OCSE”. (OECD, EDUCATION AT A GLANCE 2019).
Una prospettiva economica che dunque, molto spesso, si rivela determinante nel momento in cui si deve decidere se intraprendere o meno il percorso accademico e, in caso affermativo, in quale direzione. Qualcosa di simile a quello che in economia viene chiamato ROI (Return of Investiment), un indice di bilancio che, in soldoni, descrive quanto rende il capitale investito dall’azienda.
Ma è possibile quantificare con precisione il ROI del percorso universitario in Italia? In un certo senso, sì!
Lo ha fatto l’Osservatorio Job Pricing nel suo annuale University Report 2020, uno studio di carattere divulgativo sul “valore” dell’Istruzione nel mercato del lavoro italiano, con attenzione particolare alla formazione universitaria.
Un primo e significativo dato è quello preannunciato in apertura, l’Italia è un Paese che studia poco. Nel 2019, infatti, le cose non sono andate secondo le previsioni del “Quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione” e in generale, se si guarda ai dati OECD e UE, fino ad oggi nel campo dell’istruzione si sono accumulati ritardi significativi: l’Italia spende mediamente meno degli altri Paesi per l’istruzione (3,6% del PIL), quota inferiore alla media OECD del 5% (per i titoli di studio terziari l’Italia investe il 25% in meno della media dei paesi OECD; in Italia, poi, il tasso di abbandono prematuro di istruzione e formazione è superiore al resto della UE, al 14,5% e in crescita contro il 10,6% medio europeo; il nostro Paese continua ad avere la maglia nera per numero di NEET, i giovani tra 20 e 34 anni che non studiano e non lavorano (nel 2018 erano il 28,9%, a fronte di una media europea del 16,5%).
Il rapporto tra tasso di disoccupazione e livello di istruzione
Nel mercato del lavoro italiano, dove, come noto, il livello di disoccupazione è piuttosto elevato in generale, la situazione si esaspera in mancanza di titolo di studio o comunque in presenza di titoli di studio di basso livello. Il tasso di disoccupazione fra coloro che non hanno titoli o arrivano al massimo alla licenza elementare è quasi quattro volte superiore a quello dei laureati. Se si considerano invece coloro che hanno la licenza di scuola media inferiore, la differenza con i laureati scende a circa 3 volte e si attesta a circa 2 volte per i diplomati.
Se la disoccupazione in Italia è un problema, quella giovanile ha livelli ancora più preoccupanti (14,8% secondo i dati ISTAT). Anche in questo caso il titolo di studio fa la differenza: il tasso di disoccupazione giovanile è dell’11,9% fra i laureati, con una distanza di oltre 15 punti percentuali rispetto al tasso di disoccupazione di chi non ha alcun titolo di studio (27,0%). Il possesso del titolo di studio accademico è stato peraltro un elemento di forte tenuta sul lato occupazionale nell’ultimo decennio. Se prendiamo in considerazione i primi cinque anni del periodo, osserviamo come la disoccupazione è aumentata diffusamente, ma con tassi minori fra i laureati. Nei cinque anni successivi è calata diffusamente la disoccupazione ma con tassi più elevati fra i laureati
Questi dati risultano interessanti se messi a confronto con un altro fenomeno caratteristico, quello c.d. della “sovra-istruzione”, ossia quando il titolo di studio posseduto da una persona è superiore a quello richiesto per accedere o per svolgere il lavoro in cui è occupato: secondo il Rapporto Annuale ISTAT 2019, fra i giovani lavoratori laureati fra i 25 e i 34 anni, 4 lavoratori su 10 circa risultano sovra-istruiti.
Questo “mismatch” a sfavore dei giovani laureati sembra avere, inoltre, un elevato grado di persistenza: a più di 6 anni dall’assunzione, fra i lavoratori con laurea circa il 40% risulta ancora occupato in mansioni sottodimensionate rispetto al titolo di studio.
Quanto “vale” investire nella formazione?
Appurato che l’istruzione accademica è un differenziale competitivo importante per un giovane che ricerca lavoro, è lecito chiedersi se essa rappresenti anche un vantaggio in termini di carriera e di stipendio: esiste una differenza retributiva tra chi è laureato e chi non lo è?
La risposta è ovviamente sì: Job Pricing rileva che la differenza media fra queste due categorie di lavoratori è di circa 12.000 euro annui (lordi) se consideriamo la RAL, che diventano quasi 13mila euro se si considera l’intero pacchetto retributivo (RGA), comprensivo cioè di eventuali premi variabili aggiuntivi rispetto alla retribuzione fissa.
Di più: analizzando gli stipendi dei lavoratori in possesso di una laurea, appare evidente come il completamento del ciclo di studio universitario, almeno con il conseguimento di un master di primo livello o della laurea magistrale, sia un fattore decisivo in termini retributivi. Infatti, se la laurea triennale garantisce una retribuzione analoga a quella dei diplomati, intorno ai 30.000 euro lordi annui, con la laurea magistrale la retribuzione cresce considerevolmente per arrivare a quasi 42.000 euro lordi annui, con una differenza che supera il 40%. Tuttavia, il premio per l’istruzione terziaria rispetto a quella secondaria nel nostro Paese (+36,5%) è comparativamente più basso, sia rispetto alla media OECD (+53,6%), che a quella UE (49,1%).
Quali sono i corsi di laurea che rendono economicamente di più?
E arriviamo all’altro aspetto menzionato in apertura, quello ribattezzato come ROI. E bene, dai dati emerge che l’investimento nello studio universitario comincia “a rendere” in modo significativo già entro i 5 anni dal conseguimento del titolo: secondo i dati del XXI rapporto di Almalaurea, la retribuzione netta aumenta di oltre il 35%, sia per le lauree triennali sia per quelle magistrali. Ma attenzione: non è così per tutte le classi di laurea. Se, infatti, come detto fin ora è laurearsi comunque “conveniente” dal punto di vista retributivo, è altrettanto possibile definire quali facoltà permettono maggiormente uno scarto netto e in grado di massimizzare l’investimento di tempo e denaro. Analizzando il livello retributivo di ingresso nel mondo del lavoro, le facoltà migliori sono Ingegneria Gestionale e Ingegneria Chimica e dei Materiali.
La situazione non cambia se si analizza l’andamento della retribuzione durante il percorso di carriera. Ancora una volta in testa vi è la facoltà di ingegneria. In particolare, primeggiano ingegneria chimica e dei materiali (con una crescita pari all’87%), gestionale (86%) e meccanica, navale, aeronautica e aerospaziale (83%). Le note amare sono invece tutte per le facoltà umanistiche, che prospettano le peggiori retribuzioni, sia nel medio che nel lungo periodo. Un esempio: a 10 anni dal conseguimento del titolo, i laureati in lingue e letterature straniere guadagnano in media 26.086 euro, vale a dire il 14,3% in meno rispetto alla media nazionale.
Tutti i dati, i grafici e la nota metodologica su jobpricing.