Il nostro Paese per molti anni, già a partire dalla fine del XIX secolo, ha rappresentato una vasta risorsa per le economie più progredite del mondo. La forza lavoro impiegabile nelle industrie più avanzate ha provocato una forte emigrazione, motivata dallo stato di arretratezza economica, socio-culturale e istituzionale in cui ha versato a lungo l’Italia post-unitaria.
“Si assiste, quindi, a un progressivo impoverimento del nostro tessuto culturale, del nostro bagaglio scientifico, delle nostre possibilità di crescita tecnologica.
Oggi, dopo l’industrialismo, la crescita degli anni ’50 e ’60 del ‘900 e l’urbanesimo, il nostro sistema mostra evidenti segni di difficoltà e di stanchezza e sembra essere in ritardo nella competizione con le più avanzate economie mondiali sulla ricerca scientifica, sullo sviluppo di tecnologie avanzate, sulla produzione di beni sofisticati. Ciò comporta nuovi movimenti migratori verso l’estero, che questa volta investono soggetti più qualificati rispetto al passato (ricercatori, studenti, giovani professionisti) e la generazione più giovane che non riesce a trovare spazi e prospettive nel proprio Paese. Si assiste, quindi, a un progressivo impoverimento del nostro tessuto culturale, del nostro bagaglio scientifico, delle nostre possibilità di crescita tecnologica.
Ma oltre ad una fuga verso l’estero (nel 2016 se ne sono andati in 48.600 nella fascia di età tra i 18 e i 34 anni), come testimonia uno studio dell’Ocse che ci colloca tra i paesi maggiormente esportatori di studenti, in Italia assistiamo sempre di più ad una migrazione intellettuale dal Mezzogiorno al Centro-Nord.
Emigrare per studiare, il destino dei giovani meridionali
Se negli anni Cinquanta e Sessanta si emigrava al Nord con la valigia di cartone, oggi lo si continua a fare ma con una laurea in tasca. Dal 2000 sono stati almeno 200mila i giovani laureati che hanno lasciato il Meridione per trovare casa e lavoro da Roma in su. Un brain drain per il Sud (e corrispettivo guadagno per il Nord) con un costo stimato in 30 miliardi, che rappresentano la perdita netta degli investimenti in istruzione delle regioni meridionali, secondo uno studio recentemente pubblicato dalla Svimez.
Nel solo anno accademico 2016-2017 un giovane meridionale su quattro si è trasferito al Centro-Nord per studiare. Una realtà che ha impattato non solo dal punto di vista della perdita di capitale umano e sociale ma che ha avuto effetti rilevanti anche su Pil e consumi innescando un circolo vizioso che riguarda anche il sistema universitario: se sempre più giovani, a causa delle scarse opportunità lavorative, decidono di lasciare il Sud nel momento in cui intraprendono il percorso universitario, gli atenei meridionali non solo risulteranno impoveriti intellettualmente, ma riceveranno anche meno risorse dalla ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario e si ritroveranno (come accade) a tagliare i corsi di laurea e a ridurre l’offerta universitaria.
A ciò si unisce la riduzione dei consumi sia pubblici che privati e, di conseguenza, del Pil: pensiamo a quanto spende ogni studente fuori sede per l’alloggio, i trasporti, la cultura, i prodotti alimentari e le utenze. Tutto ciò comporta per il Mezzogiorno (e spesso per l’intero Paese) una perdita secca dovuta ad un investimento pubblico in istruzione del quale, a causa dell’emigrazione, non si potranno raccogliere i frutti.
“Oggi il Paese non riesce a trattenere le proprie migliori energie per finalizzarne gli studi e le conoscenze verso un avanzamento sociale, economico e, ovviamente, culturale che metta insieme le esigenze dei più vecchi con quelle dei più giovani.
In sostanza, se per anni l’Italia ha mostrato incapacità a costruire e valorizzare un sistema occupazionale ed economico che offrisse risposte ad un’ampia, quanto generalizzata, domanda di lavoro poco o affatto qualificato, e ciò ha contribuito anche ad acuire gli squilibri fra le regioni del Nord e quelle del Sud, oggi il Paese non riesce a trattenere le proprie migliori energie per finalizzarne gli studi e le conoscenze verso un avanzamento sociale, economico e, ovviamente, culturale che metta insieme le esigenze dei più vecchi con quelle dei più giovani.
Riparte l’esodo dei #laureati del #Mezzogiorno verso il #Nord. Oggi su @sole24ore il direttore @lubianchi68 su i #giovani #pendolari verso il Nord pic.twitter.com/LGn2iMvix1
— SVIMEZ (@svimez) 10 ottobre 2018
Giovani e laureati, quale futuro?
Ancora più complessa infatti la situazione dopo la laurea, segnale evidente della sconfitta di quell’idea per cui l’Università e lo studio rappresentavano un ascensore sociale per migliorare le proprie condizioni materiali e un mezzo per realizzare le proprie ambizioni. Sappiamo come nel nostro Paese una laurea non sia sufficiente per accedere a molte professioni per le quali servono altri anni di studio non pagati tra tirocini, praticantati obbligatori, concorsi, scuole di specializzazione, abilitazioni, esami di stato ed altre peripezie per scalare rendite di posizione e privilegi.
“La questione, che deve riguardare la politica, è se non si tratta più di una scelta individuale ma piuttosto di una necessità diffusa, dovuta al fatto che il sistema produttivo non è in grado di corrispondere alle aspettative e ai sogni di centinaia di migliaia di giovani che il sistema stesso ha formato per oltre 20 anni.
Una fase, quella successiva alla laurea, ancora più complicata perché ci si trova in un limbo in cui non si è più studenti ma non ancora lavoratori, fuori dai circuiti di rappresentanza e senza alcuna tutela, iper-specializzati e spesso impiegati in mansioni dequalificanti o che nulla hanno a che vedere con il proprio percorso di studi. Ed è bene chiarire che rispetto a questo, il tema non è la qualifica di per sé o il cosiddetto status sociale; il problema non è che sia meglio fare il medico del cuoco. La questione, che deve riguardare la politica, è se non si tratta più di una scelta individuale ma piuttosto di una necessità diffusa, dovuta al fatto che il sistema produttivo non è in grado di corrispondere alle aspettative e ai sogni di centinaia di migliaia di giovani che il sistema stesso ha formato per oltre 20 anni.
I governi conservatori degli ultimi 20 anni hanno interpretato lo scarso assorbimento nel sistema produttivo delle competenze, prodotte in sede universitaria, come uno spreco delle risorse finalizzate ad un’università troppo “di massa”, se rapportata a un sistema economico con esigenze limitate di forza lavoro qualificata, e ha preferito agire sul comparto per operare pesanti tagli proprio sulla formazione e il diritto allo studio (oltre che per sostenere un progetto classista), favorendo nel contempo l’ingresso di soggetti privati e ampliandone gli spazi d’azione.
Ciò è avvenuto nonostante tutti gli indicatori inducessero a considerare un aumento degli investimenti nel comparto della formazione e della ricerca (come avvenuto addirittura per mitigare gli effetti della crisi negli Stati Uniti, in Germania e in altre realtà europee) e, semmai, una ristrutturazione dell’impianto economico che caratterizza l’Italia, anche in riferimento alla continua riduzione della quantità di mercato delle nostre esportazioni.
Non è, quindi, un caso che in Italia l’incidenza sul Pil della spesa in istruzione e formazione fosse al 4,8% – un valore inferiore a quello dell’Unione Europea a 27 che si attestava al 5,6% – già nel 2009, ossia al momento in cui la crisi economica non aveva ancora prodotto tutti i suoi effetti sulla nostra economia.
E così non solo abbiamo rinunciato a politiche volte all’aumento del livello conoscitivo, ma non siamo stati in grado di formare e impiegare in modo adeguato la forza attrattiva che il nostro Paese esercitava sulle popolazioni migranti dall’estero che, si badi bene, presentano livelli di istruzione simili a quelli della popolazione nazionale – la metà degli stranieri è in possesso al più della licenza media (il 49,7%, a fronte del 46,3% degli italiani), il 40,3% ha un diploma di scuola superiore e il 10% una laurea. Ciò è avvenuto anche nei confronti di quanti hanno scelto Roma per cercare occupazione o formazione di livello.
Non è casuale, quindi, che contestualmente a un miglioramento dei dati più recenti sul livello delle competenze (indagine Pisa dell’Ocse), che mettono in luce un recupero rispetto al passato dello svantaggio degli studenti 15enni italiani in tutti gli ambiti considerati (lettura, matematica, ecc.), la partecipazione dei giovani al sistema di formazione al termine del periodo di istruzione obbligatoria è diminuita in questi anni, come dimostra il tasso di immatricolazioni all’università. Secondo i dati del Miur di Aprile 2013 il tasso di immatricolazione dei diciannovenni era al 25% nel 2000/2001, è aumentato al 33,1% nel 2007/2008, ma è poi progressivamente diminuito fino al 29,8% nel 2012/2013. Così come interessante è il dato che riguarda la percentuale di 30-34enni italiani che ha conseguito un titolo di studio universitario o equivalente, ossia il 22,4% (Istat, Rapporto Bes 2014 – istruzione e formazione) a fronte di percentuali dei paesi del centro Europa e scandinavi che sono doppi.
Il cortocircuito provocato dal combinato disposto del clima culturale innestato in questi ultimi anni dall’attacco sistematico alla formazione scolastica e universitaria e dalle difficoltà della micro, piccola e media impresa (spesso a conduzione familiare, collocata su segmenti di mercato manifatturiero e priva delle risorse necessarie per avviare notevoli progetti di ricerca e innovazione del prodotto) ha generato la riduzione dei segmenti di mercato caratterizzati dalla presenza italiana, nonché un aumento dei giovani non inseriti in un percorso scolastico/formativo né impegnati in un’attività lavorativa che sono oltre due milioni, il 19,9% dei giovani tra i 15 e i 24 anni contro una media Ue dell’11,5%.
Questo valore, tra i più elevati a livello europeo, indica il clima di stanchezza e mancanza di prospettive cui è sottoposta la generazione più giovane al cospetto del mondo del lavoro.
L’università pubblica come strumento di crescita sociale dell’Italia
L’università pubblica, che ha visto messa in discussione il suo ruolo centrale per la crescita ed il progresso del Paese, deve diventare strumento centrare per lo sviluppo culturale, ma anche economico della nazione, integrandosi con le principali realtà europee: è questo che ci chiedono il processo di integrazione europea e di globalizzazione economica, ancor prima della mera risoluzione delle difficoltà di bilancio.
Il primo elemento per intervenire in modo sistemico sul complesso impianto di formazione scolastico d universitario italiano è agire sul modello produttivo, così che la ricerca di mercati adatti a prodotti a più elevato contenuto tecnologico e innovativo comporti la contestuale domanda di personale altamente qualificato e di ricercatori.
Quindi, europeizzare l’Italia implica l’azione sulla dimensione della nostra impresa, sul suo impianto gestionale, sulla sua mancanza di strumenti che favoriscano la cooperazione volta alla ricerca e all’innovazione tecnologica, nonché l’inversione di rotta rispetto al continuo disimpegno statale e regionale (con la costante riduzione degli investimenti pubblici e la mancanza di pianificazione integrata fra atenei, centri di ricerca, impianti e comparti produttivi, servizi alle imprese).
Non è un caso che già nel 2009, ossia agli albori della grave crisi economica che ha caratterizzato questa fase storica, l’economia italiana perdesse quote significative di mercato (sia nel comparto industriale sia in quello terziario e delle professioni) e l’incidenza dell’1,26% sul Pil nella spesa per ricerca e sviluppo in Italia fosse un valore assai più distante dai paesi europei più avanzati.
D’altro canto, non aver fin’ora creduto in un modello economico basato sull’accrescimento della qualità e l’innovazione dei prodotti e, quindi, sulla “coltivazione” di un vasto capitale umano da mettere al servizio di tale ambizioso progetto, mostra tutti i suoi limiti nella quantità di richieste di brevetti che l’Italia presenta: sebbene in crescita nell’ultimo decennio, rimane tra i più bassi dell’Unione Europea a 15. L’Italia ha importanti strutture universitarie e di ricerca pubbliche nonché elementi di vivacità nel comparto privato: ampliarne le capacità di studio e di collegamento con il tessuto produttivo è fondamentale; la formazione e la ricerca devono essere l’elemento di accrescimento culturale ma sono anche i settori sui quali investire per ottenere importanti ritorni in termini economici e, quindi, occupazionali.
“La questione, che deve riguardare la politica, è se non si tratta più di una scelta individuale ma piuttosto di una necessità diffusa, dovuta al fatto che il sistema produttivo non è in grado di corrispondere alle aspettative e ai sogni di centinaia di migliaia di giovani che il sistema stesso ha formato per oltre 20 anni.
Da quanto fin’ora osservato, possiamo agevolmente dire che l’impianto culturale che ha guidato le scelte in materia di formazione ed economia nell’ultimo ventennio è di certo fallimentare.
E per il futuro diventa fondamentale costruire una società della conoscenza che implichi il potenziamento dei settori della formazione e della ricerca e assuma un ruolo centrale sia per la consapevolezza dei cittadini italiani sia in relazione alla capacità competitiva del nostro Paese in ambito internazionale.
La via del futuro è quella che desideriamo percorrere.