L’anno centenario della nascita di don Lorenzo Milani (Firenze, 27 maggio 1923) ci dà l’occasione per rileggere la sua breve avventura umana di 44 anni, nei due versanti di prete e di maestro, che ancora spingono la nostra società ad interrogarsi ed emendarsi alla luce del suo ministero, ma anche dei suoi libri, come ‘Esperienze pastorali’ del 1957 e ‘Lettera ad una professoressa’, scritta insieme ai suoi ragazzi nel 1967, divenuta bandiera della rivolta studentesca del 1968.

Rampollo di una una famiglia ebraica di Firenze, molto in vista per patrimonio e per cultura, famosa già per il bisnonno materno, Domenico Comparetti (1835-1927), senatore, feroce anticlericale, linguista e papirologo padrone di 19 lingue, autore di ricerche e pubblicazioni che scorrazzavano dall’Egitto alla Finlandia, fino ai nonni docenti universitari, al padre archeologo, alla madre Alice Weiss, allieva di Italo Svevo e James Joyce. Lorenzo, carattere forte e acuminato, si accostò al Vangelo casualmente già ventenne e ne rimase folgorato: “si ingozzò letteralmente di Vangelo, fino a pigliarsi un’indigestione di Gesù Cristo”, ha
testimoniato mons. Raffaele Bensi, suo padre spirituale. Si fece battezzare, decise di farsi prete ed entrò in seminario, sempre mal sopportato, come corpo estraneo, dai suoi  confratelli e dalle gerarchie ecclesiastiche, per lo stile diretto e i contenuti dirompenti delle sue idee, destinate a produrre nella Chiesa e nella società italiana dibattiti, ripensamenti profondi ma anche esplicite ostilità. La rivista dei Gesuiti ‘La Civiltà Cattolica’ dell’agosto 1958 stroncò duramente ‘Esperienze pastorali’, prima sua opera, ed anche il cardinale di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli futuro Giovanni XXIII, la qualificò come “l‘opera di un povero pazzerello, scappato dal manicomio”, e non avrebbe mai pensato, invece, che i papi, suoi successori, sarebbero andati in pellegrinaggio fino a Barbiana del Mugello sulla tomba di quel prete. Su cui si fecero allora anche indagini segrete su eventuali suoi collegamenti con gruppi nemici della Chiesa. Noi, ora, sentiamo il bisogno di ripensare a lui e commemorarlo in due succinte schede: la prima sulla sua attività di prete obbediente, ma nella piena libertà dei figli di Dio, e l’altra sulla sua straordinaria didattica di maestro improvvisato in una pluriclasse di alunni espulsi dalla scuola pubblica.

Don Milani prete
Nominato, il 9 ottobre 1947, viceparroco della Chiesa di S. Donato a Calenzano, un comune di operai tra Firenze e Prato, come aiuto di un preposto che era lì dal 1913, il giovane don Lorenzo intraprese uno studio sistematico della realtà umana e religiosa della parrocchia.
Divenne subito molto critico verso le attività parrocchiali di passatempo, come cinema, sport, attività ricreative. La parrocchia finiva così per adescare gli adolescenti figli di operai, ma li tradiva non preparandoli alla vita, come necessitavano i figli di famiglie così umili. Don Milani scorgeva questo stesso errore nelle ‘Case del Popolo’ del Partito Comunista di allora, preoccupato anch’esso di far proseliti tra i ragazzi. Con la solita radicalità sentenziava: “I preti dei ricreatori e i comunisti delle case del popolo non hanno stima della
gioventù operaia e così pur di non perdersela non hanno saputo far di meglio che accarezzare le sue passioni. Hanno raccolto quel che hanno seminato: giovani schiavi delle proprie passioni e inutili a se stessi e a loro”. Analizzò anche, con precise statistiche e grafici, i fenomeni devozionali, le processioni, le novene, le prime comunioni, e criticò tutto quello spazio dato a manifestazioni e ricorrenze festive, mentre v’era così scarsa lettura dei testi sacri. Se la prendeva allora con la sua Chiesa, la cui religione di onore a Dio doveva essere fondata sulla ‘parola’, come affermava S. Giovanni nel suo Vangelo: “in principio erat Verbum… et Deus erat Verbum”: Dio è parola, è messaggio di una nuova e diversa umanità. Questo massimo onore alla Bibbia gli derivava forse anche dalla sua ascendenza ebraica.

Il ministero sacerdotale doveva tendere essenzialmente ad elevare i fedeli verso la comprensione del Vangelo, ed anche della parola come strumento essenziale dell’umano consorzio. La Chiesa, invece, più che portare i testi sacri ai suoi fedeli, rendendoli  consapevoli della loro dignità, li spingeva verso la pessima religione delle novene, delle processioni, dei riti, delle preghiere per ottenere grazie materiali, mantenendoli così in un’umiliante condizione di dipendenza servile ed utilitaristica da Dio, dispensatore di favori, invece di alimentare un rapporto di elevazione verso la divinità, e da essa verso i fratelli.
Questo rigore spinse don Milani a creare subito un doposcuola parrocchiale, per dare ai suoi fedeli, e soprattutto ai giovani, una base culturale per accostarsi ai libri sacri, ma anche per affrontare dignitosamente la vita civile, specialmente sindacale, per la difesa della dignità del lavoro. Altra feroce critica era rivolta verso l’orientamento politico della Chiesa, che nello scontro elettorale del 1948 apertamente si era schierata con la Democrazia Cristiana, il partito dei ceti medi borghesi, contraria al Partito Comunista, che era il partito dei proletari e degli operai, perfino scomunicato dalla Chiesa per il suo ufficiale ateismo. Pur di ricchissima famiglia borghese, don Milani soffriva per quella collocazione della Chiesa contro il partito dei poveri, contro Lazzaro, il mendicante del Vangelo, ed a sostegno invece dei vari ricchi Epuloni della DC, condannati invece all’inferno per la loro avarizia e carenza di carità. Dalla lettura del Vangelo il borghese don Milani traeva il sentimento della dignità dei poveri, nei quali vedere lo stesso Cristo “quello che avrete fatto ai poveri l’avrete fatto a me”. Ma anche il partito comunista, che diceva di difenderli i poveri e poteva trovare nel Vangelo un alleato, si dichiarava ateo ed eliminava quella identificazione col Cristo. Don Milani si trovava davvero spiazzato da entrambi i partiti, eppure doveva far votare per la DC, che fu vittoriosa grazie all’appoggio ecclesiastico, che, peraltro, in quel frangente storico, salvò le libere istituzioni italiane.

Ed ancora, don Milani non poté sopportare che i Cappellani militari esaltassero il dovere della partecipazione alla guerra contro l’obiezione di coscienza. Subì un processo penale per l’incitamento alla diserzione e si difese con il magnifico libello ‘L’ubbidienza non è più una virtù’, vista la dimensione totalizzante delle moderne guerre. Fu assolto, ma nella sentenza di appello dell’ottobre 1967, lui già defunto da pochi mesi, il suo coimputato, il comunista Luca Pavolini, direttore della rivista comunista ‘Rinascita’, che aveva pubblicato i suoi scritti, venne invece condannato. Per le sue critiche alla pastorale parrocchiale, Don Milani fu relegato, dal 1954, in una sorta di ‘penitenziario ecclesiastico’, qual era la pieve di S. Andrea di Barbiana, sperduta sulle alture del Mugello nell’Appennino Tosco-Emiliano, un pugno di misere abitazioni di pastori e agricoltori, isolati dal mondo, senza luce elettrica
e senz’acqua corrente. Ma fu proprio questo esilio a determinare la sua eroica esperienza di parroco ed insieme di improvvisato maestro eccezionale dei figli di quei pastori, respinti dalla scuola pubblica. Ne diremo nella prossima scheda.

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