Dopo aver commemorato don Milani prete, nel centenario della sua nascita, lo commemoriamo ora come maestro. Il prete Don Milani fu, quasi per necessità, maestro improvvisato: prima della scuola serale per i giovani parrocchiani di Calenzano, poi nella pluriclasse che raccoglieva i poveri figli dei pastori e campagnoli della pieve di Barbiana, di diversa età. Essi, o non erano mai andati alla scuola pubblica, o si erano ritirati perché bocciati. Riuniti intorno ad un grande tavolo della canonica, sotto l’energica regia del
priore, si lavorava insieme con il sistema del mutuo insegnamento, aiutandosi fra loro a studiare e fare i compiti, mentre nella scuola statale era severamente proibito suggerire o aiutare i compagni.
Nella scuola di don Milani chi era indietro non veniva sanzionato, egli diventava il preferito, ed i compagni più grandi gli erano intorno per aiutarlo a recuperare: “Abbiamo 23 maestri! Perché, esclusi i sette più piccoli, tutti gli altri insegnano a quelli che sono minori di loro. Il Priore insegna solo ai più grandi” (Lettere, pg 168). Lorenzo Milani non era stato un bravo studente, troppo indipendente e indocile, tanto da concludere gli studi liceali con il punteggio minimo, assegnatogli forse anche in considerazione della sua dottissima
famiglia. Lorenzo, carattere forte, era insofferente dei tempi e modi burocratici della scuola pubblica, come da prete ferocemente critico delle pigrizie pastorali, che trascuravano la conoscenza della parla di Dio.
Nato in una famiglia ebraica, doveva aver nel sangue il culto del libro sacro, e della parola non solo rivelata, ma anche dell’uso quotidiano, come strumento essenziale di umanità e socialità. La povertà, secondo lui, era causata soprattutto dallo scarso possesso della parola: “La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”. (Esperienze Pastorali, p.209). “Ogni parola che non conosci è una fregatura in più, è una pedata in più che avrai nella vita”. Per questo il suo impegno a Calenzano, e soprattutto nel ‘penitenziario ecclesiastico di Barbiana’, si fondava sulla parola, su ogni parola: conoscerne l’origine, l’etimologia, l’uso corrente per affrontare la società consapevolmente ed a fronte alta. “Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un tramonto, un deformarsi. … La parola è la chiave fatata che apre ogni porta.. Ecco,
questo è appunto il mio ideale sociale: quando il povero saprà dominare le parole…la tirannia del farmacista, del comiziante, e del fattore sarà spezzata” (Lettere, p.57).
I suoi scolari don Milani li aveva raccolti ad uno ad uno, non senza difficoltà a causa della ostilità dei loro genitori pastori o agricoltori verso la scuola, che avrebbe umiliato i loro figli e sancito ufficialmente la loro inferiorità culturale e sociale. Don Milani dovette sudare e far ricorso al suo forte carattere, fino ad iniziare uno sciopero della fame, per convincerli a non mandare più i loro figli nei campi o dietro al gregge, ma da lui in canonica alla sua scuola, perché si aprissero non solo all’umanità della cultura, ma anche, come per tutti i ragazzi, alle buone prospettive di lavoro.
Don Milani, maestro improvvisato, non mancava, tuttavia, di genialità nel realizzare metodi didattici efficaci, oltre al mutuo insegnamento. Anzitutto nessuna umiliazione per chi rimaneva indietro, anzi egli diventava l’oggetto della fraterna cura dei più grandi. Ma usava, quando necessario una severa durezza per scuotere l’apatia che era triste conseguenza della rassegnazione alla miseria del destino. Nella ‘Lettera ad una professoressa’ egli polemicamente affermava: “Noi per i casi estremi si usa anche la frusta” (pag.82). Ma contestava alla scuola pubblica di usare uno strumento peggiore, che era il due sul registro, un marchio indelebile per il ragazzo di fronte alla società, perché era oramai un ‘respinto’ “un castigo sproporzionato e crudele”(80). Rimproverava anche i suoi sacerdoti: “Molti non sanno amare con la durezza del Signore. Credono che il sistema migliore per educare i poveri sia di sopportarli” (pg 90). E ovviamente abbandonarli alla loro condizione di paria, invece di riscattarli.
La durezza di don Milani sosteneva i ragazzi, che sapevano che egli li amava, più di quanto non amasse Dio. Ed invece la scuola pubblica di quel tempo, gli sfortunati li ‘respingeva’ ed un fallace scientismo aveva istituito le classi differenziali, dove raccoglierli, e lì peggiorava la loro condizione perché deprivati delle stimolazioni orizzontali dei propri compagni migliori. Si è parlato da parte dell’attuale Ministro dell’utilità delle umiliazioni, ma non ha premesso che solo se in un contesto di certezza per il ragazzo di essere molto amato e accettato, mentre avvertire disprezzo e rifiuto lo distrugge o lo rende irriducibilmente aggressivo. Don Milani affermava che “chi era senza basi, lento e svogliato, si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la. scuola fosse tutta solo per lui” (12) Sicuri dell’amore sviscerato di don Milani, i ragazzi ben sopportavano le sue sfuriate e severità. “Io i miei figlioli li amo, ho perso la testa per loro, non vivo che per farli crescere, per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare.
Amo i miei parrocchiani molto più che la Chiesa e che il Papa. E’ un rischio corro per l’anima mia, non certo quello di aver poco amato, piuttosto di amar toppo. E chi non farà scuola così, non farà mai vera scuola’ (lettera a G. Pecorini, 10.11.1959).
Per questo don Milani non perdonava la scuola pubblica dove, quando un alunno aveva problemi, si trovava subito la maniera di scaricarselo, mandandolo alle classi differenziali o bocciandolo per accollarlo alla maestra successiva, o spingendolo all’evasione scolastica. E così quelli che maggiormente avevano bisogno della scuola ne erano allontanati, come se una clinica curasse i sani e respingesse i malati, diceva don Milani, che nel gusto dei ribaltamenti surreali suggeriva: ”Borse di studio ai deficienti e un branco di pecore da badare ai più dotati: ecco uno slogan che sarebbe degno di un partito cristiano” (Esperienze pastoralil, pg 222.). Nella sua forte intuizione didattica faceva leggere i giornali ai suoi ragazzi e su quelli si affrontavano storia, linguaggio, politica. Chiamava grandi professori da Firenze e organizzava un confronto tra essi ed i suoi figli di pastori e campagnoli. Mandava i suoi ragazzi all’estero per ottenere l’apprendimento naturale delle
lingue straniere. Aveva materiali didattici, come carte geografiche, sussidi scientifici, registratori per controllare la propria pronuncia. Intuitivamente, forse neppure conoscendoli, egli attuava i principi innovatori dei grandi pedagogisti del ‘900 e le metodologie didattiche che si andavano attuando nelle nuove scuole: attivismo, lavori di gruppo, esperienza grezza, il globalismo, l’effetto Pigmalione, lo strutturalismo concettuale
‘La lettera ad una professoressa’, scritta dai ragazzi di Barbiana guidati da don Milani, oramai consunto da un tumore allo stomaco, uscì qualche mese prima che egli morisse a soli 44 anni. nel 1967.
Produsse un’enorme impressione e consenso nella società italiana, perché era la voce schietta degli studenti, offrì argomenti forti alla rivolta studentesca del 1968 e spinse il governo ad intraprendere profonde riforme, che hanno cambiato il volto della scuola e della società (inserimento dei ‘portatori di handicap nelle classi normali e docenti di sostegno, eliminazione delle classi differenziali, limitazioni alle sanzioni di bocciatura,
democrazia nella scuola con gli organi collegiali, consiglio di istituto , aperto a studenti e genitori e le loro assemblee. E soprattutto venne dal prete don Milani, inventatosi maestro, il richiamo all’art. 3 della nostra Costituzione: “ E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…”, e quindi sul dovere di non emarginare chi è in difficoltà : Il maestro don Milani vi aggiunse di suo una risorsa (didattica) fondamentale: l’amore sviscerato per i suoi alunni. I quali hanno testimoniato: “Questa scuola, senza paure, più profonda e più ricca, ha appassionato ognuno di noi… che dopo pochi mesi si è appassionato anche al sapere in sé… per usarlo solo al servizio del prossimo, schierandosi dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, contadini, operai, montanari … Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue, per potersi intendere fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre”.