La guerra commerciale

Nuovi equilibri si palesano nel complicato scenario globale. La guerra dei dazi e delle telecomunicazioni; del gas e dell’import-export, è un conflitto in piena regola che vede un’America risoluta a mantenere un primato minacciato dal sorgere della potenza cinese.

“Von Clausewitz ha detto: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica….”.

Von Clausewitz ha detto: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica…”. Questa frase andava certamente bene quando ogni conflitto veniva risolto con la forza delle armi, ma ora che, per fortuna, nonostante le irrazionalità e le follie che scuotono il mondo, il rischio di una guerra vera e propria sembra sotto controllo, ma non la governance mondiale, viene da chiedersi se, senza la guerra, la politica stessa finisca di esercitare il suo ruolo. Non è così! Essa trova altre strade, altri mezzi per imporre il suo primato. E quale è l’altro grande mezzo con il quale le civiltà si sono sempre confrontate? Misurate? Il commercio, gli scambi, i traffici… Quindi – parafrasando il famoso generale prussiano – possiamo dire che la guerra commerciale non è altro che la politica che si afferma con altri mezzi. È proprio quello che sta succedendo.

La crisi delle istituzioni internazionali

In questo scenario, confuso ed inedito, l’opinione pubblica mondiale, reduce da un decennio di acuta crisi economica e sociale, esposta a una tecnologia della comunicazione sempre più invasiva, è disorientata e impaurita. Preoccupata del futuro che, forse per la prima volta, appare più difficoltoso del passato e cerca rifugio nel proprio mondo, chiudendo le frontiere psicologiche, culturali e fisiche, alla ricerca – ahimè illusoria – di sicurezze domestiche.
Come tutte le guerre anche questa ha le sue vittime. Anche fisiche, purtroppo; come leggiamo quotidianamente (dagli avvelenamenti a Kashoggi…); ma ancor di più istituzionali ed economiche. Chi parla più dell’Onu, del Wto, del Bit? Il Fondo monetario compare talvolta nelle cronache per l’eleganza di Christine Lagarde, ma la Banca mondiale è praticamente scomparsa.

Che fine ha fatto l’Europa?

La maggior vittima designata sembra essere l’Europa. Il primo mercato del mondo è come il famoso vaso di coccio, schiacciato dal confronto tra giganti. Eppure il nostro vecchio (per storia e per demografia) continente ha potenzialità straordinarie ed un ruolo da svolgere nella ridefinizione dello scacchiere mondiale. Innanzi tutto proprio perché è depositario del principale patrimonio artistico e culturale, che la rende sempre più meta di visitatori; e perché è produttrice primaria di beni che esporta nel mondo e di consumi che importa da ovunque. Ma, soprattutto, perché ha fatto la sua forza costruendo un modello economico-sociale che appare sempre più il solo in grado di dare una risposta equilibrata agli scompensi di una globalizzazione selvaggia, ma inarrestabile e, se ben guidata, benefica. Il modello dell’economia sociale di mercato, dello Stato sociale, della democrazia economica. Le crepe di questo modello sono evidenti, ma vale per esso, come per la democrazia, il detto di Churchill: lo stato sociale e la democrazia economica possono anche essere considerare negativamente, ma sono di gran lunga il meno peggio rispetto al liberismo senza regole e al collettivismo senza persona.

Le ragioni della nascita dell’Unione europea

“Pace, solidarietà e un destino comune sono alla base della prosperità dell’Europa degli ultimi settant’anni. E nemmeno gli ultimi dieci di crisi provano il contrario.

Quando l’Europa moderna nacque, dopo il disastro della Seconda guerra mondiale lo fece sommessamente e su un progetto economico molto concreto: la comunità del carbone e dell’acciaio (che, oggi, vorrebbe dire, delle telecomunicazioni e delle infrastrutture materiali e digitali!); ma era ispirata da precisi valori, tra i quali l’idea che solo un’unità europea l’avrebbe protetta dalle guerre intestine che per secoli l’avevano dilaniato e dalle invasioni (non solo militari, per l’appunto). Pace, solidarietà e un destino comune sono alla base della prosperità dell’Europa degli ultimi settant’anni. E nemmeno gli ultimi dieci di crisi provano il contrario.

La crisi del modello europeo

Brexit

Ma l’Europa contemporanea è scossa e come e più della opinione pubblica del resto del pianeta. Quella europea è talmente disorientata da aver smarrito la strada comune per affidarsi a soluzioni pasticciate e controproducenti, come la Brexit, che sta rivelando tutta la sua negatività, o a leader improbabili che non offrono soluzioni, ma solo suggestioni…
Certo le ragioni ci sono. L’Europa, in questi anni, non ha dato buona prova di sé. L’eccesso di tecnocrazia; la disattenzione ai bisogni locali e ai destini dei comunità; l’incapacità di offrire soluzioni alle crisi regionali che la circondano, l’est e i Balcani (al solito!), al vicino Oriente, hanno rivelato un’Europa lontana, matrigna, inerte.
Ma si pone, allora, in tutta la sua drammaticità una domanda cruciale e definitiva: tutto ciò è avvenuto per un eccesso di Europa – come sostengono, con formidabile efficacia comunicativa, i nuovi nazionalisti – o per carenza di Europa? Il gioco dei veti, esercitato costantemente dagli Stati nazionali, portatori, per necessità, di interessi particolari, è stato sempre più forte degli interessi comunitari. È così per la mancanza di una seria politica dei flussi migratori; è così per l’assenza di una politica di bilancio che favorisca la crescita della aree più deboli e gestisca, in quest’ottica, il debito; è così per le contraddizioni delle politiche commerciali (dalla Bolkestein al Parmesan); è così per l’assenza di una comune politica estera verso la Russia, in primis.

L’integrazione europea

Se la risposta al quesito è, come a noi sembra, che la questione europea sta nella sua fragilità nello stare insieme, più che nella fatica della convivenza, non resta che procedere verso una maggiore integrazione europea.
Un’integrazione che, innanzitutto, è politica. Ecco perché è arrivato il momento di eleggere direttamente il Presidente del Governo Europeo. Nei giorni scorsi, al convegno “Italia, Europa: un nuovo riformismo” (che ha visto tra gli organizzatori anche Res), Romano Prodi ha sostenuto la necessità di dare visibilità, già in occasione delle ormai imminenti elezioni europee, a un solo candidato per ogni coalizione e anche Gentiloni prospetta un largo fronte unitario del centrosinistra. Lo stesso problema si porrà a destra e, a quel punto, il nodo del rapporto tra Lega e Forza Italia andrà definito, o con un irreparabile divorzio o con una rinnovato alleanza, ma, conseguentemente, alternativa a quella di governo con i 5Stelle.
Una nuova Europa “patria delle patrie”, che sappia apprezzare e valorizzare le storie e le potenzialità di ciascuno dei suoi membri; ma, al tempo stesso, porti a sintesi questa straordinaria varietà di esperienze è quello che dobbiamo volere.
Tanto più noi italiani che siamo depositari di tre grandi opportunità da spendere nel gioco globale, ma che passano per una dimensione più ampia del singolo territorio. Siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa, il primo al mondo per patrimonio artistico e possiamo godere di una potenzialità logistica straordinaria dovuta alla nostra posizione geografica nel mediterraneo.

Possiamo davvero pensare che tanto vantaggio competitivo sia esercitabile in una visione autarchica? Ci sono voluti pochi mesi perché la Gran Bretagna si rendesse conto di quanto fosse scriteriata un’idea di questo tipo in un mondo globale e ci sono volute poche settimane perché Salvini abbia ricevuto proprio dai suoi amici, sui temi dei migranti e del deficit di bilancio, la conferma che soluzioni non condivise non vanno da nessuna parte.
Peraltro i sondaggi sono chiari e non bisogna farsi confondere. Se le politiche protezionistiche del governo riscuotono un vero successo, quando si parla di Europa il 70% degli Italiani è contraria ad uscire dall’Euro. Anche perché nel restare in Europa possiamo trarne solo vantaggi, se pensiamo alle nostre riconosciute peculiarità. Tutti diciamo che il nostro miglior biglietto da visita nel mondo è il Made in Italy. Cosa è il Made in Italy? Non è solo un buon prodotto, una buona abilità lavorativa, ma qualcosa di più: uno stile che incorpora qualità e bellezza. Uno stile appunto.

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