Il radicale ribaltamento dei valori umani correnti, nel discorso evangelico delle beatitudini (Mt 5,3), ha il suo nucleo più forte nelle tre enunciazioni sulla non-violenza: “beati gli uomini miti perché possederanno la terra; beati i misericordiosi perché troveranno misericordia; beati i pacifici perché saranno chiamati figli di Dio”. Ancora più rivoluzionario è il monito: “non fate resistenza al male, se uno ti percuote sulla guancia destra, tu presentagli anche l’altra” (Mt 5,39). L’esperienza quotidiana testimonia che la violenza chiama altra violenza e spesso fino all’esito della morte di uno o di entrambi i litiganti. A spezzare questa spirale si pone ancora uno dei precetti più caratterizzanti, ma anche stranianti, del Vangelo: “ma io vi dico: amate i vostri nemici” (Mt 5,44).
Gli stessi capi del cristianesimo si sono lasciati nei secoli coinvolgere nelle guerre, hanno benedetto gli eserciti e nel 1506 papa Giulio II (Giuliano della Rovere, 1443-151) ha perfino guidato l’esercito pontificio alla conquista di Bologna. Molti altri papi hanno promosso le offensive e disastrose guerre delle crociate, mentre quasi tutti non hanno avuto remore a benedire gli eserciti delle nazioni cattoliche. Pio IX si rifiutò di benedire l’esercito risorgimentale italiano contro l’Austria, nella prima guerra di indipendenza, non per opposizione religiosa alla guerra, ma per non irritare quella cattolicissima nazione, che pure occupava indebitamente parte del territorio italiano, come denunciava Alessandro Manzoni.
Si è dovuto attendere oltre mezzo secolo prima che il mite Benedetto XV (1854-1922) procedesse, il primo agosto 1917, ad una condanna esplicita della prima guerra mondiale, come ‘inutile strage’, constatazione storica, ancor più valida oggi nell’era atomica. E tuttavia quella stessa radicale proclamazione contro la guerra non poggiava sulla radicalità del Vangelo contro la violenza a favore della mitezza e della misericordia, probabilmente perché ritenute virtù non politiche, ma relegate alla personale dimensione religiosa.
Il filosofo della politica, senatore a vita, Norberto Bobbio (1909-2004), ha riproposto il tema nel suo ‘Elogio della mitezza’ (Milano 1994), richiamandone l’utilità in campo giuridico, come le condanne miti o perfino “Il diritto mite” di Gustavo Zagrebelsky (Einaudi, 1992). E, pur distinguendo la mitezza dalla biologica e passiva mansuetudine, riconosce, però, che essa è ugualmente destinata alla sconfitta: “Virtù non politica, dunque, la mitezza, con il rifiuto di esercitare la violenza contro chicchessia, nel mondo insanguinato dagli odi di grandi (e piccoli) potenti, l’antitesi della politica” (pg. 31). Egli non cessa, comunque, di ritenere la mitezza una grande virtù, che può disarmare la protervia e la sopraffazione. Epperò ribadisce che essa “non è una virtù politica, anzi è la più impolitica delle virtù. In un’accezione forte della politica (di Machiavelli o di Karl Schmitt (1888-1985) la mitezza è addirittura l’altra faccia della politica”. (pg. 23) E cita Hegel, che esclude le persone miti dal novero dei grandi eroi fondatori di Stati, per cui, ribaltando le beatitudini evangeliche, afferma “guai ai miti: non sarà dato loro il regno della terra”.
Nella condanna radicale e senz’appello della guerra e della violenza, Papa Francesco tenta di condurre l’utopia religiosa a farsi anche guida razionale e sapienziale della politica, in un mondo oramai sotto l’oppressiva minaccia nucleare. Questa, infatti, costituisce la condizione che conduce, per una strana attrazione degli opposti, all’ineluttabilità della stessa utopia della recente enciclica “Fratelli tutti”. Rappresenta, quindi, per sua ineludibile connessione, il punto più esplicito del radicale evangelismo di Francesco, che a suo parere ben si intreccia alla condizione dell’umanità contemporanea, favorita, e quasi costretta, all’inevitabile fraternità, da una parte dall’intensità planetaria delle comunicazioni e degli scambi, ma dall’altra costretta anche dalla deterrenza minacciosa delle armi di distruzione di massa. Viene, così, a costituirsi la strana coppia di fraternità e deterrenza, perché, o per amore o per scongiurare la catastrofe planetaria, occorre spegnere ogni aggressività e guerra e non solo per onorare la mitezza evangelica, ma soprattutto perché rischiosa e letale, sia per colui cui è destinata, ma anche per colui che la mette in atto, non essendoci alcuna sicura barriera di contenimento verso l’effetto della diffusiva radioattività.
E comunque, se solo esaminiamo la specificità della fenomenologia della mitezza, nel caso dell’aggressore e dell’aggredito della presente vicenda bellica tra Russia ed Ucraina, appare chiaro che la problematicità pratica della mitezza sembra escluderla dall’utilizzo come strumento di positività politica e morale. Il mite che, aggredito, rifuggisse dal difendersi per onorare la propria mitezza, offrirebbe un’assoluta opportunità di comoda vittoria all’aggressore. Che anzi, astenendosi dal contrastarlo, entrerebbe in una sorta di complicità passiva con lui: la mitezza ingenua lascerebbe libero campo all’aggressività altrui e costituirebbe per essa perfino un’esca di richiamo e di successo, che sarebbe in se stessa un gravissimo male morale di agevolazione, seppure non intenzionale, dell’agire violento, offensivo della giustizia e piaga sociale sovvertitrice della convivenza. Onorare la scelta valoriale della non-violenza e della mitezza, se deve facilitare l’impresa scellerata della sopraffazione, farebbe davvero della mitezza la più impolitica e pericolosa delle virtù, sovvertitrice, seppure passiva, dei corretti rapporti etici e sociali.
Eppure nel 1940 gli indiani del Mahatma Gandhi, con la ferma mitezza del loro leader, disarmarono i colonizzatori inglesi, i più potenti dell’epoca, e vinsero la battaglia dell’indipendenza. Possiamo accordare alla mitezza, consapevole di sé, e pertanto associata a fermezza, razionalità, dignità, il potere garantito di soggiogare l’aggressore, quasi con una sorta di suggestione ipnotica? Può reiterarsi il ‘prodigio’ del 452, quando papa Leone Magno inerme fermò, con la consapevolezza della propria sacralità, le feroci orde di Attila assetate di rapina?
Se Volodymyr Zelensky, il 24 febbraio scorso, avesse condotto i suoi Ucraini a riversarsi disarmati nelle strade e, come sterminata muraglia umana, ostruirle, invitando senza rancore i militari russi di Putin a fermare la corsa dei loro carri armati, li avrebbero convinti? Avrebbero fraternizzato insieme?
Questo probabilmente era alla base del sogno di Papa Francesco, che porta il nome del Santo di Assisi che ha ammansito il lupo di Gubbio, e che non si stanca di supplicare di dismettere le armi, molto contrariato per quelle che l’Occidente fornisce all’aggredita Ucraina, anche se solo per difendersi. Un mondo senza armi è, però, possibile nella citata utopistica prospettiva papale di “FRATELLI TUTTI”, in cui una razionale solidarietà rende incomprensibili le ostilità e le armi, considerate un’incongruenza stridente non solo con una grande religione, come la cristiana, ma anche con la retta e lucida ragione umana.
Ed invece l’assassinio originario del mite Abele è ancora storia quotidiana, perché destino della mitezza è l’inevitabile soccombenza, spesso tragica, alla sopraffazione, ed anche Gesù “mite ed umile di cuore” è stato ucciso dalla protervia del potere sacerdotale, che si è imposto perfino al Governatore di quella Roma, che affermava come sua missione quella di diffondere il diritto tra le genti conquistate.
E tuttavia, la mitezza ancora affascina cristiani autentici e uomini di profonda razionalità. E lo stesso Norberto Bobbio cita (pag. 20) Carlo Mazzantini, che avanza un’interessante osservazione sulla superiorità della mitezza rispetto alla protervia e sopraffazione. “Il violento non ha impero perché toglie a coloro ai quali fa violenza il potere di donarsi. Ha impero invece chi possiede la volontà, la quale non si arrende alla violenza ma alla mitezza”. Ne consegue che la mitezza disarmerebbe il vero potente, e che sono solidi i rapporti fondati sulla reciproca mitezza, e precari quelli fondati sulla reciproca soperchieria della violenza. In tal senso ha ragione il Vangelo nel sostenere che solo i miti potranno possedere la terra. Se, infatti, valesse la legittimità della sopraffazione e della violenza le nazioni si distruggerebbero nella successione di reciproci e interminabili conflitti. La dimensione della socialità, costitutiva della condizione umana, si regge sul reciproco riconoscimento, rispetto e aiuto solidale, valori estranei ai violenti ma connaturati ai miti.
Occorre, tuttavia, chiarire bene i termini della questione. Il mite non è obbligato a lasciarsi immolare, come agnello sacrificale, dalla violenza altrui, ma ha il diritto-dovere di reagire, non solo per difendersi, ma soprattutto per non dar campo aperto al prevalere della sopraffazione altrui, che è il male radicale che corrode l’umana convivenza. Rinunciando a difendersi, il mite agevolerebbe l’aggressione del violento, diventandone complice passivo, ed il suo, se pur atto eroico nella dimensione personale, sarebbe deleterio in quella della convivenza sociale, permettendo lo stravolgimento della razionalità giuridica con il prevalere dell’arbitrio della violenza. Anche il vicino o il passante che, potendo, non soccorresse l’aggredito, fermando e, potendo, non contrastando l’aggressore, verrebbe meno ad un suo dovere sociale.
Siamo, così, di fronte ad uno dei non rari paradossi della nostra condizione umana: la mitezza passiva, e pur non volendolo, agevola l’aggressione che detesta. Anche il pacifismo integrale delle persone singole e dei singoli stati, si espone alla violenza dei prepotenti e la rende politicamente determinante. Per eliminarla è necessario che i miti si associno ed assumano un ruolo politico consapevole ed attivo, per cancellare ogni aggressione violenta, difendendosi da essa, senza odio ma con determinazione, fino a sopprimere, se inevitabile, l’aggressore in atto, come del resto prevedono le leggi. E’ il diritto alla legittima difesa che diventa diritto-dovere anche per il mite, al fine di contrastare ovunque l’esercizio della violenza altrui, assecondando e rafforzando l’ordine razionale dell’umana convivenza, che esclude ogni sopraffazione.
La mitezza può e dev’essere, così, militanza consapevole ed attiva per la pace, e pretenderla non solo per sé e per situazioni individuali, ma anche per l’intero ordine internazionale, con efficace dissuasione morale universale, in prima istanza, o, se necessario, con il coalizzato intervento di forza economica e perfino armata delle nazioni, anche con mezzi attivi ed efficaci della dissuasione e del contrasto. Tutte le nazioni devono comprendere la necessità in questa materia dell’universale coalizione, perché se solo qualcuna si astiene si lascia spazio alla prepotenza, al suo deleterio vantaggio pratico. La pace integrale può funzionare solo se essa è universale, imposta con il prestigio morale dei pacifisti coalizzati, che mettano in campo strumenti economici dissuasivi o, se necessario, la stessa deterrenza delle armi. Se la mitezza non sarà congiunta alla fermezza, che si impone o con la ragione e con la forza, sarà in se stessa imbelle, incapace di fermare gli impulsi belluini dei prepotenti, e perfino agevolarli.
La Carta costituzionale italiana esclude la guerra offensiva, ma ammette quella difensiva, il cui concetto può e deve includere ed obbligare ad una pace attiva, che implica necessariamente anche una efficace deterrenza politica, anche armata, della violenza altrui. Lo stesso Papa Francesco, in ‘Fratelli tutti’ (241) ammette che “chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama”. Osservazione che può trasferirsi al piano dei rapporti fra le nazioni, ove oltre al diritto, spesso imbelle, è necessario la forza, come suo surrogato.
Contrastare i violenti, da parte dei miti, non deve, pertanto, ritenersi una rinuncia al pacifismo, ma la sua concreta attuazione. Paradossalmente, perfino l’equilibrio del terrore, come la deterrenza atomica, può rappresentare una condizione che di fatto determina una indotta mitezza universale nei rapporti internazionali. Il mite che non si rende forte, incoraggia inevitabilmente l’aggressione sopraffattrice, come ammonisce il vecchio adagio: “chi agnello si fa lupo se lo mangia”. E sarebbe la fine miserevole della politica introdotta dalla mitezza, come argomenta Bobbio. Ma sarebbe certamente anche la fine della politica, se si autorizzasse la violenza, che porterebbe o ad una guerra di tutti contro tutti o al dominio del più forte su tutti, che impedirebbe anche la coalizione dei meno forti ed imporrebbe una pace di schiavistica sudditanza. Il mite potrà trovare rispetto solo se la sua mitezza poggia su un profondo convincimento che provochi l’altrui rispetto, ma deve poggiare anche su una controllata forza e lucida deterrenza. Altrimenti la mitezza può costituire un’altissima testimonianza umana, ma personale ed invece risibile ed inefficace sul piano della politica.
Questo, nell’attuale momento storico, sembra essere lo schema concettuale adattabile alla condizione paradossale dell’Ucraina, costretta, anche per amore della pace, ad una strenua e vincente controffensiva armata: la resa darebbe il successo all’aggressione proveniente dalla più forte Russia, che verrebbe così sospinta verso ulteriori aggressioni a stravolgimento del diritto internazionale. Ed anche un accordo di pace, che desse un premio territoriale all’aggressore, costituirebbe un incentivo ad ulteriori ben remunerate aggressioni. Il buon precetto, di altissimo valore morale individuale, “redde pro malo bonum”, rendi bene per male, non deve agevolare, però, la prepotenza altrui, né deve l’irenismo indolente del mite fornire ad essa libero campo.
Una mitezza attiva, previgente, solerte e perfino forte, dovrebbe, invece, porre le condizioni perché il regno dell’uomo sia totalmente fondato sul rispetto reciproco, o per idealità, o per pragmatica convenzione, o altrimenti per inevitabile deterrenza. In questo senso avrebbe ragione il monito romano: ‘si vis pacem para bellum’, nel senso di rendersi forte per la guerra, non per scatenarla, ma per scoraggiarla, con l’organizzazione di una forza tranquilla, ma efficacemente dissuasiva. In tal senso la mitezza, non più ingenua, ma determinata ed organizzata, terreno di coltura della ragionevolezza e tuttavia consapevole delle passioni umane, svolgerebbe un benefico ruolo di prevenzione della sopraffazione e diventerebbe, con gioiosa smentita di Bobbio, la più politica tra le virtù.
Le armi, non per iniziativa d’uso proprio, ma per deterrenza all’uso altrui, possono certamente convivere con la pace e rafforzarla. Sarebbe meglio, tuttavia, e praticamente necessario, che si costituisse allo scopo una ONU, che con fermezza mettesse fuori legge le armi in tutto il mondo, avendo soltanto essa stessa un forte ed esclusivo esercito di intervento, per annientare ogni tentativo di armarsi da parte di singole nazioni. Sembra un’utopia ma è l’unica via d’uscita per garantire il sommo bene della pace planetaria, con il suo enorme vantaggio esistenziale ed anche economico: il sogno di Isaia di trasformare le armi in vomeri, diremmo oggi, in riferimento all’Ucraina, le armi in pane.
Infine, se il valore ideale e relazionale della mitezza può essere assunto come base di una razionalità giuridica, nel senso di pene miti, diritto mite, società mite, la violenza e la sopraffazione non potranno mai costituire una base o criterio utilizzabile di convivenza alcuna. Thomas Hobbes ha immaginato che servisse un patto tra galantuomini (pacta sunt servanda) per costruire uno Stato, e cioè occorreva comunque un’uscita dalla primitiva ferinità umana dell’’homo homini lupus’ per costituire un ordine giuridico: nessuno stato, nessun consorzio umano, ma neppure umano commercio, potrebbe reggersi sulla sopraffazione fisica, e neppure su quella comunicativa che ricorre alla violenza cognitiva della menzogna. Ma nessun consorzio umano può fondarsi sulla menzogna, come sulla violenza.
Tocca, dunque, ai miti farsi forti, di una forza razionale, tranquilla ma imbattibile, per poter costituire a livello planetario una mitezza governante, consapevole e strutturata, che abbia, come la dea della Giustizia, in una mano la bilancia dell’universale razionalità giuridica e nell’altra la spada della deterrenza, che non consentono nessuna sopraffazione o aggressione fisica, e possono stroncarla prevenendola. Così gli uomini miti possederanno e reggeranno davvero la terra, smentendo Hegel e realizzando attivamente le beatitudini evangeliche, con lieta adesione del disarmante papa Francesco.