Come noto ai più, la questione israelo-palestinese è assai complessa e di difficilissima soluzione.
Dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, tanti hanno provato ad indicare possibili soluzioni pacifiche (le Nazioni Unite, gli USA, l’Europa, il Vaticano, qualche Paese arabo), ma nessuna iniziativa ha prodotto risultati duraturi. Il motivo di questa situazione è forse da ricercare non soltanto nella presunta inconciliabilità degli interessi in campo, ambedue legittimi, ma anche nella presenza di “altri” interessi strategici di molteplici attori internazionali.
La gravissima e sanguinosa crisi di questi ultimi giorni è anch’essa figlia delle tensioni, dei rivolgimenti, dei posizionamenti, degli interessi che le potenze globali e regionali continuano, con vicende alterne, a giocare nel Mediterraneo. Ciò, tuttavia, non può significare mettere in secondo piano le grandissime responsabilità delle autorità israeliane e della dirigenza palestinese. Proverò ad analizzarle.
Israele ha conquistato nel tempo, quella legittimità internazionale che era mancata al momento della sua nascita come Stato.
Tuttavia Israele non ha mai pensato di poter convivere pacificamente con i suoi vicini arabi ed è per questo che, oltre ad aver sviluppato al massimo le sue capacita militari, di intelligence e tecnologiche, ha anche elaborato una teoria “suprematista”, diremmo oggi, del suo sistema politico rispetto a quelli dei vicini arabi.
Il sistema democratico israeliano è di stampo occidentale, il voto è universale, ci sono partiti politici di diverso orientamento, c’è libertà di stampa, il potere giudiziario è separato da quello politico, i suoi cittadini godono delle libertà e dei diritti riconosciuti in tutti gli stati democratici occidentali. Per questi motivi, i Paesi occidentali (USA ed Europa per prime) sono sempre stati schierati a fianco di Israele.
Tuttavia questo sistema è stato minato, fin dalla nascita, dalla “sindrome dell’accerchiamento”, corrompendo dall’interno la democrazia israeliana.
Israele non soltanto ignora le risoluzioni dell’ONU sulla questione palestinese e non rispetta gli impegni che aveva assunto con gli accordi di Oslo (a partire dal fermo di nuovi insediamenti nei Territori palestinesi) ma non rispetta neanche i diritti di una larga minoranza di suoi cittadini. Infatti i cittadini israeliani di origine araba sono, a tutti gli effetti, considerati dei cittadini di serie B: sono soggetti a continui ed immotivati controlli, la loro libertà di movimento nel Paese è fortemente limitata, godono di diritti sociali ed economici più ridotti rispetto ai cittadini di origine ebraica. In questi giorni questa realtà sta esplodendo come dimostrano gli scontri e le ribellioni che stanno avvenendo in alcune città israeliane. La parte più retriva, integralista e tradizionalista del popolo israeliano, aspira ad un vero e proprio regime di “apartheid” verso gli arabi israeliani e ha trovato, specie nei governi di Netanyahu, la concreta realizzazione di questa politica.
L’espansione degli insediamenti ebraici in città e territori da sempre occupati dalla popolazione araba, non sono soltanto una politica violenta perseguita nei Territori palestinesi in palese violazione degli accordi di Oslo, ma praticata anche in terra di Israele a danno di una parte dei loro cittadini. Siamo di fronte ad una pulizia etnica indotta, tesa ad allontanare la popolazione di origine araba dal territorio israeliano? Siamo vicini ad una guerra civile? La vicenda che ha dato inizio alla crisi in corso, il tentativo di espropriare delle loro case cittadini arabi che da generazioni vivono a Gerusalemme, dà una drammatica risposta positiva agli interrogativi sopra esposti.
Bisogna augurarsi che le forze sinceramente democratiche presenti in Israele, ritrovino la capacità di proporre una prospettiva di pace e di convivenza con i palestinesi, salvando la democrazia israeliana e facendo riemergere una reale volontà negoziale come fu quella di Isaac Rabin e di Simon Peres.
Passando poi a quello che fa Israele nei territori formalmente sotto il controllo palestinese, forse è necessario chiarire come stanno effettivamente le cose. La Cisgiordania (o West Bank) è un territorio formalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese ma di fatto occupata militarmente dall’esercito israeliano. Se si esclude il centro cittadino delle principali città palestinesi (Ramallah, Hebron, Nablus, Betlemme – le cosiddette zone A), tutto il resto del territorio palestinese è sotto il ferreo controllo delle forze israeliane. I posti di blocco, i check point, si susseguono rendendo difficilissimo qualsiasi spostamento dei palestinesi anche dentro i confini del territorio loro assegnato. L’erogazione delle forniture di acqua e di energia elettrica è totalmente controllata da Israele.
Gaza, invece, è una striscia di territorio palestinese circondata dalle forze israeliane ma all’interno controllata da Hamas, formazione politico militare sostenuta dal regime iraniano e fortemente contraria all’attuale maggioranza dell’ANP rappresentata da Al Fatah, il movimento del defunto presidente Arafat ed oggi guidato da Abu Mazen.
Le responsabilità palestinesi e di tutto il mondo arabo per questa drammatica situazione sono anch’esse enormi.
Il loro principale errore strategico è il non aver mai voluto riconoscere il diritto di esistenza dello Stato israeliano. Ponendosi l’obiettivo di cancellare Israele, ne hanno di fatto legittimato le politiche sopra descritte. L’altra grande responsabilità è stata la legittimazione e l’uso del terrorismo, soprattutto verso civili inermi dentro e fuori Israele, come strumento di lotta politica e militare. Il terrorismo non solo ha causato centinaia di morti violente in tutto il mondo, ma ha anche ridotto la solidarietà internazionale verso la causa palestinese.
Un passo avanti nel superamento di queste strategie perdenti si è fatto con gli accordi di Oslo, in cui l’Autorità Palestinese, con la forma dei “due popoli, due Stati”, ha di fatto riconosciuto lo Stato di Israele. Non altrettanto ha fatto Hamas, che, come detto, governa la Striscia di Gaza e insidia la maggioranza di Al Fatah nel governo dell’ANP.
Su questo conflitto, interno alla politica palestinese, si innescano gli interessi degli altri Paesi musulmani, divisi non soltanto lungo il tradizionale conflitto tra sciiti e sunniti, ma in lotta anche per la supremazia nei rispettivi campi, specie quello sunnita.
Mentre la guida del campo sciita è saldamente nelle mani degli ayatollah iraniani, nell’area sunnita (che rappresenta la maggioranza del mondo musulmano) è da tempo in corso una battaglia per la supremazia che vede la Turchia di Erdogan impegnata, con il sostegno del Qatar, a contrastare la tradizionale guida dell’Arabia Saudita, in alleanza con l’Egitto e gli Stati del Golfo. Di questa durissima lotta ne è testimonianza la stessa crisi libica ma, soprattutto, la drammatica e dimenticata guerra nello Yemen.
È proprio questa competizione che ha reso possibili i cosiddetti “Accordi di Abramo”, un’iniziativa diplomatica promossa dagli USA di Trump che ha portato alcuni paesi musulmani a riconoscere Israele ma escludendo totalmente da questi negoziati l’ANP e con essa i diritti dei palestinesi.
L’autorità di Abu Mazen si è fortemente indebolita, i giovani palestinesi hanno perso la speranza di una pace giusta, determinando contemporaneamente un rafforzamento di Hamas e un riavvicinamento tra l’Iran e la Turchia che stanno “usando” la causa palestinese, fortemente identitaria in tutto il mondo musulmano, per rafforzare le rispettive posizioni.
Questa è una delle novità che stanno alimentando l’attuale conflitto con la conseguenza di esaltare le strategie più estreme sia nel campo israeliano che in quello palestinese. Ancora una volta Israele sta dimostrando la sua netta superiorità militare, ma Hamas, per la prima volta, sta riuscendo, con il lancio di sciami di razzi di nuova generazione, a terrorizzare le popolazioni israeliane.
Ogni bambino palestinese ucciso, ogni cittadino israeliano colpito, ogni famiglia che si ritrova la casa distrutta dai bombardamenti o dai bulldozer, allontanano la speranza di pace e di giustizia nell’area.
È necessario che la comunità internazionale riprenda le iniziative per riportare le parti ad un tavolo negoziale. Bisogna ottenere una immediata cessazione delle operazioni militari e delle manifestazioni violente e proporre, contemporaneamente, la ripresa dell’iniziativa diplomatica che, ripartendo dalla soluzione “due popoli, due Stati” ne verifichi la praticabilità e sia capace di affrontare i nodi finora irrisolti a partire dallo status di Gerusalemme. Potrebbe essere il cosiddetto “Quartetto” formato da Nazioni Unite, Unione Europea, USA e Russia a riprendere l’iniziativa se ognuno di questi protagonisti saprà essere portatore di proposte equilibrate e che tengano conto del diritto di israeliani e palestinesi a vivere in pace e in sicurezza.
Tutti devono riconoscere l’autorità delle Nazioni Unite quali garanti di una “pace giusta” e adoperarsi perché le sue risoluzioni vengano effettivamente rispettate; l’ amministrazione Biden deve avere il coraggio di proporre l’inclusione del riconoscimento dei diritti dei palestinesi nel percorso degli accordi di Abramo; l’Unione Europea deve trovare la capacita di essere un vero protagonista sulla scena mediorientale proponendosi come garante sul campo di un nuovo accordo di pace, la Russia deve anch’essa divenire parte attiva nella stabilizzazione dell’insieme dell’area mediorientale.
Accanto a questi protagonisti, non va sottovalutato il ruolo ecumenico e pacificatore dell’azione pastorale e diplomatica che sta svolgendo il Vaticano sotto la guida di Papa Francesco e che, specie in relazione alla questione di Gerusalemme, potrà portare ad un accordo tra le tre grandi religioni monoteiste sullo “status” della Città Santa per tutti.
Non possiamo e non dobbiamo rassegnarci nel perseguire una strategia di pace tra Israele e la Palestina.