C’è una foto, scattata nel 2014 a Bologna, che è diventata un simbolo e che in questo periodo è stata rievocata spesso: immortala i leader della socialdemocrazia europea, tra i quali Renzi, alla giornata di chiusura della Festa dell’Unità. Era un pomeriggio di settembre particolarmente afoso, e dopo il “patto del tortellino” i cinque si presentarono sul palco con una sorta di divisa: pantaloni scuri e camicia bianca. Insieme all’allora premier italiano c’erano anche Manuel Valls (primo ministro francese), Pedro Sanchez (leader del Psoe spagnolo), il tedesco Achim Post (segretario del Pse) e il vice premier olandese, Diederik Samson. Ognuno di loro aveva ottimi motivi per essere soddisfatto. Renzi, ad esempio, pochi mesi prima aveva portato il Pd a raggiungere un traguardo clamoroso: il 40,8% di consensi alle elezioni europee.

“la sinistra europea è stata sconfitta, umiliata, ridotta ai minimi termini da una ventata di populismo che ha fatto saltare schemi e certezze. Tutti i partiti socialisti hanno conosciuto sconfitte cocenti: in Francia, Spagna, Germania, Olanda, Austria, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria. E ITALIA!

La foto ha 3 anni e mezzo di “vita”, ma politicamente sembra che il tempo passato sia un’eternità: oggi quella sinistra europea è stata sconfitta, umiliata, ridotta ai minimi termini da una ventata di populismo che ha fatto saltare schemi e certezze. Tutti i partiti socialisti hanno conosciuto sconfitte cocenti: in Francia nel 2012 i socialisti avevano oltre il 50%, oggi sono intorno al 7%, schiacciati tra l’exploit di Macron con “En marche!” e i risultati a due cifre dei lepenisti. In calo anche il Psoe in Spagna, che comunque riesce ad attestarsi intorno al 23%. Anche la Germania ha riservato dispiaceri alla sinistra, con l’Spd passato dal 25,7% del 2013 al 20% conquistato alle elezioni politiche dello scorso settembre, che rappresenta il peggior risultato di sempre dei socialdemocratici tedeschi. Ancora peggio in Olanda, dove i laburisti hanno ottenuto un misero 5,7%: nel 2012 avevano raggiunto il 28,4. Le cose non vanno meglio altrove: in Austria governa la destra, in Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria la sinistra è in caduta libera. E se anche le socialdemocrazie del nord Europa, quello del welfare e delle riforme, stanno cedendo il passo alla destra, allora vuol dire davvero che un’epoca storica è chiusa.

Cosa è accaduto? Sulle difficoltà europee (ed anche internazionali) del movimento socialista democratico sono stati scritti fiumi d’inchiostro. I più sono concordi nel ricondurre le cause del crollo del fronte progressista alla debolezza di idee e programmi sul tema dei grandi processi di globalizzazione. Le risposte sbagliate, insufficienti o assenti sulla globalizzazione, ma anche sul fenomeno dell’immigrazione, sull’aumento delle disuguaglianze, sulla minaccia degli islamisti, hanno avuto l’effetto di disorientare se non indispettire gli elettori, che hanno cercato risposte (banali, errate, ma ‘mediaticamente’ efficaci) altrove. In particolare negli Stati europei che ho citato è accaduta una cosa nuova nel panorama politico-sociale. Una novità diffusa, preoccupante, ma forse non del tutto inaspettata: il voto cosiddetto popolare, il “voto di classe”, ha premiato la destra e in generale le forze populistiche. È accaduto che per gli ‘ultimi’, ma anche per il ceto medio, la scelta del voto non è stata dettata come in passato dagli ideali, da un percorso culturale, da scelte ritenute anche eticamente giuste, ma è stato un voto dettato dalla frustrazione, dal malessere sociale, in alcuni casi dalla rabbia.

“in Italia tantissimi lavoratori iscritti al sindacato hanno votato per il Movimento 5 Stelle. È una novità assoluta, inspiegabile. gli associati al sindacato hanno libertà di voto, Ma mentre riconoscono alla propria organizzazione sindacale ruolo e forza, affiliandosi ad essa per la tutela dei propri diritti, votano una forza politica che ritiene quello stesso sindacato “da eliminare perché inutile e dannoso” (Casaleggio e Grillo).

L’entità del voto per la destra e per i populisti (li definisco così per semplificare) non lascia spazio a dubbi: operai, casalinghe, insegnanti, dipendenti pubblici, ma anche gli studenti hanno preferito le proposte sulla flat tax alla sinistra del welfare universalistico e dei diritti sociali, hanno scelto “i muri anziché i ponti”. Il risultato, comunque la si pensi, è sorprendente e lascia basiti: la valanga di voti che ha premiato queste forze ci spiega che, ad esempio, in Italia tantissimi lavoratori iscritti al sindacato hanno votato per il Movimento 5 Stelle. È una novità assoluta, inspiegabile. Intendiamoci, gli associati al sindacato hanno libertà di voto. Ma accade questo: mentre riconoscono alla propria organizzazione sindacale ruolo e forza, affiliandosi ad essa per la tutela dei propri diritti, affidandosi al sindacato per sentirsi rappresentati al meglio, al contempo nel segreto delle urne scelgono una forza politica che ritiene quello stesso sindacato “da eliminare perché inutile e dannoso” (Casaleggio e Grillo). Un altro esempio: il 4 marzo numerosi cattolici praticanti hanno votato per la Lega di Salvini. Potrebbe essere accaduto che in quella stessa domenica si siano divisi tra una preghiera in chiesa, una riflessione sui valori della fratellanza e della solidarietà, e poi abbiano fatto la ‘croce’ sul simbolo della Lega, spesso protagonista di inaccettabili uscite condite da intolleranza, egoismo, chiusura.

Anche il voto al sud è emblematico di quanto sia accaduto: si è infatti trattato di un voto di protesta contro la povertà, la disoccupazione, la scarsa crescita, il dramma di veder partire verso lidi più felici centinaia di migliaia di giovani speranzosi. Una doppia beffa: gli stessi giovani, opportunamente valorizzati altrove, daranno il definitivo colpo di grazia alla speranza di rinascita del sud, surclassato da chi utilizza i cervelli meridionali in fuga. Un circolo vizioso che fa rabbia e che potrebbe aver influito non poco sulle scelte degli elettori del sud. Al nord, invece, l’economia regge, anzi dimostra segnali positivi. Ma l’elettore delle regioni settentrionali ha preferito affidarsi alle ruspe di Salvini, alle promesse di forze populistiche. La rabbia ed il risentimento, dettati dal senso di umiliazione, dall’estromissione, dalla marginalizzazione, sono stati canalizzati in chi si fa portavoce. Ed è una rabbia che spesso si trasforma in odio, sia verso chi rappresenta l’establishment che nei confronti di chi sta ai margini, di chi è portatore di istanze culturali diverse.

“Il fenomeno che è in atto, per il quale il popolo premia il candidato che promette di più, è un meccanismo perverso perché suggerisce a tutti (populisti e non) di alzare la posta, di “offrire di più”, perché il consenso è direttamente proporzionale alla proposta che si formula, che si urla.

Perché è avvenuto questo? Il pensiero torna al referendum del 4 dicembre 2016: la gente ha preferito votare No affidandosi alla rabbia che cresce dal basso, al disagio. Non ha ragionato sui contenuti, non ha analizzato lucidamente il quesito referendario, non è riuscita a votare Sì in modo ragionato e a prescindere dalle posizioni e dagli schieramenti in campo. Insomma la destra, in Italia come in Europa, ha saputo adattarsi meglio, ha dimostrato maggiore flessibilità, ha ascoltato il disagio, l’ha esasperato e cavalcato. Ha fatto promesse irrealizzabili, e l’ha fatto in perfetta malafede. Si promette sapendo benissimo che un minuto dopo aver conquistato il potere si tradisce il “patto” con gli elettori. Il fenomeno che è in atto, per il quale il popolo premia il candidato che promette di più, è un meccanismo perverso perché suggerisce a tutti (populisti e non) di alzare la posta, di “offrire di più”, perché il consenso è direttamente proporzionale alla proposta che si formula, che si urla. Che poi sia palesemente irrealizzabile poco importa.

In questo, ahimè, ha giocato un ruolo fondamentale anche l’immediatezza della comunicazione. Grazie anche al ruolo della rete, della comunicazione, la destra in tutta Europa sta letteralmente fagocitando il voto socialdemocratico. E dove centrodestra e centrosinistra sono costretti ad unirsi, unica condizione per governare, questa convivenza forzata e innaturale finisce per danneggiare soprattutto i partiti di centrosinistra, allontanandone irrimediabilmente gli elettori, delusi e ancor più confusi. Certo, suona un po’ strano affibbiare a forze che oramai superano il 50% in molti Stati la nomea di populismo o antisistema. Non si fa un regalo a milioni di elettori. Ma io non mi sento di dare fiducia e stima a chi, per dirla con una espressione usata molto dagli esponenti democratici italiani a proposito degli avversari, cambia idea a seconda del contesto: a Londra dice “viva la City”, a Strasburgo “viva il Parlamento europeo” e a Pomigliano D’Arco “usciamo dall’Euro”! Che credibilità può mai avere un politico che si lascia condizionare in questo modo dal luogo in cui si trova? Meglio, che adatta il proprio messaggio al contesto, infischiandosene di coerenza, correttezza, rispetto degli elettori?

“Che futuro c’è per un’Europa del genere? Che prospettiva hanno le forze socialiste? La risposta è (forse) custodita in una piccola isola italiana: Ventotene. È dagli ideali e dai principi elaborati sull’isola tirrenica 77 anni fa che si può ripartire per un’Europa contraddistinta dalla libertà, dall’unità, dalla pace.

Fin qui i “meriti” degli avversari. La sinistra, dal canto suo, non ha saputo trovare formule efficaci, mentre la destra e il M5S hanno lavorato su pochi slogan ma di grande impatto mediatico, dati in pasto ai social che ne hanno decuplicato la diffusione. Mi ha fatto sorridere (e riflettere) una intervista di Occhetto (chi si rivede!) al Corriere della Sera. Ha dichiarato che quando si trovò di fronte a Berlusconi in campagna elettorale, era il 1994, di fronte alla sua promessa di un milione di posti di lavoro aveva due opzioni: seguirlo e prometterne un milione e mezzo o tacere, perdere ma restare seri. Sappiamo tutti come è andata a finire: è rimasto serio, per fortuna. Ma ha perso, ovviamente.

Che futuro c’è per un’Europa del genere? Che prospettiva hanno le forze socialiste? La risposta è (forse) custodita in una piccola isola italiana: Ventotene. È dagli ideali e dai principi elaborati sull’isola tirrenica 77 anni fa che si può ripartire per un’Europa contraddistinta dalla libertà, dall’unità, dalla pace. L’appuntamento delle elezioni europee del maggio 2019 è fondamentale: le forze socialdemocratiche europee non potranno commettere l’errore di farsi trovare impreparate, sarebbe il “de profundis”. L’appuntamento elettorale europeo deve essere l’occasione per riorganizzarsi, per riformulare strategie e programmi, per costruire nuove alleanze. E il Pd è uno dei principali federatori. Senza Europa, o con un’Europa debole, non c’è futuro di fronte alla potenza della Cina, dell’India, degli Stati Uniti. Senza unità politica europea il sogno di Ventotene è irrealizzabile.

Ma è anche vero che serve un nuovo rapporto tra le istituzioni europee ed i cittadini, che devono sentirle vicine e rappresentative, devono poter decidere, non possono solo subire le decisioni, spesso drastiche, senza avere alcuna voce in capitolo. Non è un caso che nonostante la maggior parte degli elettori si definisca europeo, poi abbia scelto forze anti-europeiste (seppur con sfumature diverse). Ma la speranza c’è. In Italia come in Germania oggi la sinistra resta alla guida di importanti città e istituzioni. Bisogna ripartire da qui, dal (buon) governo, dimostrando che il pragmatismo, i piedi ben saldi per terra, le idee progressiste valgono più di mille promesse, delle urla, della rabbia.

Non lasciamoci sopraffare dalla rassegnazione, non lasciamo che il voto “di pancia” possa rendere peggiore il nostro futuro e quello dei nostri figli. L’alternativa al populismo c’è ed è attesa da milioni di elettori europei che hanno “tradito” la sinistra o preferiscono disertare le urne. Consultiamoli, coinvolgiamoli, ascoltiamoli, rispettiamoli, diamo loro risposte… nulla è perduto!

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