Situazione politica e voto del 25 settembre: vi proponiamo questa analisi di Carlo Puca sulla difficoltà dei nostri politici di essere all’altezza del ruolo affidato loro dagli elettori.

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“La caduta del Governo e la transizione politica”, di Pier Paolo Baretta

“Non sono soltanto affari nostri”, di Salvatore Biondo

Intervista a Paolo Feltrin: “Bisogna puntare al pareggio, come nel 2018”, a cura di Vanni Petrelli

L’Italia ha fame di buona politica, intesa non soltanto come buona amministrazione ma anche come pratica politica.
Sarà banale, ma per produrre buona politica, c’è bisogno di bravi politici. Domanda: in Italia quanti politici producono buona politica? Risposta: pochi, anzi pochissimi.
Nell’ultimo decennio tanti leader hanno spesso anteposto la tattica alla strategia e questo – di per sé – è già una manifestazione evidente di cattiva politica. La tattica, infatti, serve esclusivamente ad ammorbidire il ceto politico (a partire dalle correnti interne); la strategia disegna un’idea di Paese e quindi si rivolge al popolo-elettore nella sua interezza, lo coinvolge, lo stimola, lo rende più consapevole e partecipe.
La supremazia della tattica sulla strategia ha prodotto un risultato prevedibile: l’implosione della politica, incapace persino di dotarsi di una legge elettorale decente. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha cercato di metterci una pezza favorendo la nascita del governo Draghi, che doveva appunto essere una scelta strategica. In sintesi: utilizziamo come premier l’italiano più prestigioso che abbiamo, facciamolo lavorare, superare la crisi pandemica, mettere i conti a posto, garantire il Pnrr, stabilizzare l’Italia sul piano internazionale e poi andiamo a libere elezioni, dopo le quali la politica tradizionale potrà riprendersi il suo ruolo.
Draghi non ha potuto esaurire il suo compito, ed è inutile ora attardarsi sulle responsabilità degli uni o degli altri. Certo è che – come ha ben annotato su queste pagine Pierpaolo Baretta – “il fatto che gli eventi si siano svolti senza un luogo, una persona, un gruppo, in grado di tenere insieme la trama e di condurla verso un esito, rappresenta un serio problema anche per il futuro (…) Enrico Letta ci si è dedicato; ma, essendo uno dei corridori del Palio e non il mossiere, aveva bisogno che anche gli altri fantini condividessero che corsa fare…”.
È vero, Letta si è speso più di tutti gli altri per salvare il governo e la strategia di Mattarella. Per il resto, è prevalsa la tattica e il risultato sono le elezioni anticipate. Condivido perciò la preoccupazione di Baretta sulla transizione politica in atto: il caso-Draghi è emblematico, rappresenta un serio problema anche per il futuro perché segnala l’incapacità del ceto politico a ragionare in termini (almeno) di medio periodo. Meglio l’uovo oggi che la gallina domani.
Temo però che – purtroppo per loro – i calcoli dei tattici siano errati. In Italia è più facile vincere le elezioni che governare, approfittando del momento favorevole nei sondaggi, talvolta promettendo mirabilie irrealizzabili, altre solleticando istinti primordiali, altre ancora schierandosi contro qualcosa o qualcuno invece che a favore del Paese. Tuttavia, acquisito il risultato delle urne, arriva la realtà. E la realtà ha bisogno di strategia, non di tattica, perché sennò poi si va a sbattere pesantemente.
Arriviamo così al secondo problema dei politici. Quanti tra loro conoscono davvero la realtà? Per quanto mi riguarda, esiste una categoria di persone sicuramente più competente della materia. Parlo degli amministratori locali, governatori, sindaci, assessori, gente che sul campo c’è tutti i giorni e tocca la realtà nella sua carne viva. Per produrre buona politica è indispensabile che tali amministratori, a tutti i livelli, vengano coinvolti nel processo decisionale dei partiti nazionali, altrimenti la forbice tra il Palazzo e il Paese reale resterà sempre e per sempre troppo ampia, pena il disinteresse verso le urne di grandi fette della popolazione.
Terza questione: l’identità. Troppe volte i partiti formano una matassa indistinta. La fortuna è che alle prossime elezioni i diversi caratteri politici si potranno marcare in maniera definita. A grandi linee avremo un polo democratico-progressista guidato da Letta e una coalizione sovranista comandata da Giorgia Meloni, più un terzo polo liberale (Matteo Renzi e Carlo Calenda) e la gauche pentastellata di Beppe Grillo e Giuseppe Conte. Ogni identità risulta ben marcata e questo è un bene per la democrazia. È prevedibile che la parte del leone la faranno Letta e Meloni, a danno di tutti gli altri, alleati e non. E anche questo va bene, perché la scelta tra europeisti e protezionisti pone gli elettori davanti a una scelta di campo strategica, che rafforza la politica nel suo insieme. A patto, però, che una volta vinte le elezioni, i leader mantengano la strategia enunciata in campagna elettorale. Per dirla brutalmente con un’ipotesi di scuola: se Meloni, una volta arrivata a Palazzo Chigi, si mettesse a prendere ordini da Bruxelles, avrebbe tradito il mandato elettorale e perderebbe tutta la sua credibilità verso quelli che l’hanno votata. Ma potrà mai permettersi di governare a dispetto della Ue? Ai posteri l’ardua sentenza…

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