Lettera pubblicata sul Corriere del Mezzogiorno – Campania, sabato 10 dicembre 2022

Caro direttore,
il “modello Napoli”, ovvero la larga alleanza elettorale (composta da PD, 5 stelle, Leu, alcune liste civiche, tra cui quella del candidato Sindaco) che ha portato alla ampia vittoria della coalizione guidata da Gaetano Manfredi alle comunali di Napoli, nell’autunno scorso, è stato applaudito a più riprese da tutti i partiti nazionali che l’hanno sostenuto (e non solo loro); ma non è servito da esempio nelle recenti elezioni politiche che hanno visto il centro sinistra diviso e perdente.

Da questa costatazione parte Antonio Polito per chiedersi (Il Corriere del Mezzogiorno del 4 dicembre) se davvero il “caso Napoli” sia esportabile o non si riveli una felice, solitaria eccezione, realizzatasi anche per la autorevolezza del candidato. Nel farlo, però, non si limita al quesito, ma sviluppa alcuni concetti e offre qualche indicazione che meritano la apertura di una discussione; che, sinceramente, mi pare molto più utile per la prospettiva politica di tante sofisticate analisi autodistruttrici che stiamo leggendo in queste settimane e nelle quali sembra che l’identità dei riformisti si riveli nella selezione di materie (i diritti, l’ambiente…) o di soggetti (i poveri, gli immigrati…) e non nella capacità di rispondere, a partire proprio dalle troppe fragilità, alla intera complessità sociale e alla crescita economica, presupposti indispensabili per ridurre le disuguaglianze e ampliare diritti e la giustizia sociale.

Personalmente penso che il modello Napoli è sicuramente esportabile nelle competizioni locali, soprattutto comunali. E non sarebbe poco! A livello territoriale la natura e la immediatezza dei problemi rende più stingente il rapporto coi cittadini e, dunque, minori sono le scappatoie per chi vuole governare le città ed i Comuni. Ma, per riuscirci, conviene entrare di più nelle logiche che hanno consentito il realizzarsi della operazione Napoletana, che non si esauriscono nella larghezza del campo.

La personalità di Manfredi ha certamente fatto la differenza, ma non spiega tutto. Manfredi si è rivelato la persona giusta per incrociare una domanda di cambiamento che era matura e trasversale. Matura perché la città versava, da anni, in condizioni di abbandono; pulizia inadeguata, trasporti insufficienti, patrimonio pubblico degradato (in particolare l’edilizia popolare) e un bilancio da dissesto. Una situazione che ha innescato una domanda trasversale alla quale Manfredi ha saputo dare una risposta di riscatto e i cui risultati non si misurano nel breve. Trasversale, perché non è stata una vittoria… di parte. Non si raggiunge il 65% coi soli voti di centro sinistra. E, infatti, la forza di Manfredi e della coalizione è stata quella di aprirsi alla intera società napoletana: civile, economica, morale ed intellettuale. La distribuzione dei consensi nelle diverse municipalità lo dimostra. Non solo una ampia coalizione unita, indispensabile punto di partenza, ma anche capace di guardare oltre il proprio recinto e parlare alla intera città. Una operazione politica, quindi, che – con buona pace di Bettini, che presentando il suo libro a Napoli, ha ristretto il modello Napoli alla alleanza PD, 5 Stelle e sinistre, che pure conta e va salvaguardata – va oltre il gioco delle alleanze nazionali. Proprio la lista Manfredi e le altre civiche ne sono la prova.

Questo porta ad una seconda considerazione. Se vogliamo provare ad estendere questo approccio non solo a livello locale ma anche a livello nazionale, e tentare di superare le realistiche osservazioni di Polito sulla impossibilità di unire storie ormai così lacerate, varrebbe la pena approfittare del non breve periodo di opposizione che attende il centro sinistra per ripartire da tre angoli di visuale che chi vuole prendere la leadership politica dovrebbe intestarsi. Il primo: le città, ed in particolare le grandi città. Il buon governo che oggi coinvolge Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Bari, e tanti altri comuni medi e piccoli, può costituire un asse di riferimento che va oltre l’amministrare. Per essere chiari, non penso affatto al partito dei Sindaci (e tantomeno dei governatori), ma ad un ruolo e contributo obiettivo che può venire da queste esperienze di governo che assumono valenza generale (per fare degli esempi locali: Renzo Piano riprogetta il rione Sanità, a Scampia sorge l’Università mentre col PNRR si abbattono le Vele; Bagnoli viene recuperata alla città. Il “patto per Napoli”, che coinvolge tre città del mezzogiorno, segna una inversione di tendenza nei rapporti finanziari tra Stato centrale e territori e così via…).  

Il secondo è un nuovo coinvolgimento della società civile e delle rappresentanze sociali nella definizione di una piattaforma programmatica di medio periodo, oltre i naturali conflitti di interesse immediati. La crisi di rappresentatività dei sindacati (di entrambe le parti) e dell’associazionismo civico e professionale è palese, quanto quella della politica. Proprio per questo è necessario adoperarsi per ricostruire un tessuto economico sociale che unisca, non contrapponga, meriti e bisogni, opportunità ed efficacia, stato e mercato, impresa e lavoro, reddito e servizi, persona e comunità.

Serve, allora, il terzo passaggio.  Ovvero un nuovo respiro culturale che mobiliti energie intellettuali positive nella progettazione ideale e concreta del Paese che verrà, a partire dalla educazione, dalla scuola.

Se questo è il terreno ambizioso di ricostruzione di un progetto politico, le alleanze, come l’intendenza, seguiranno. Vasto programma si sarebbe ironicamente detto in passato; ma non vedo alternative se vogliamo tentare un rilancio futuro di una prospettiva politica riformista che sia anche vincente. In tal senso – come per il bel saluto che il Comune dà ai moltissimi turisti che affollano Napoli: “Vedi Napoli e… poi torna” – al modello politico Napoli si ritorna perché offre preziosi elementi, che vanno al di là della sua replicabilità.

Ma, aggiunge Polito, chi si carica questa croce? Esiste un cireneo nazionale, quale è Manfredi a Napoli? E risponde che per avere un Sindaco d’Italia ci vorrebbe il Presidenzialismo. Ma, poiché non sfugge, ne a lui ne a noi, la differenza sostanziale tra il presidenzialismo dei governatori (eletti a turno unico, vince chi ha un voto in più, indipendentemente dalla frantumazione elettorale) e quello dei Sindaci (doppio turno e ballottaggio), opta, giustamente, per il secondo. Aggiungo che in Italia sarebbe possibile realizzarlo anche temperando i poteri del premier, mantenendo il ruolo del Capo dello Stato così come ora disegnato.

Quindi, coalizioni le più ampie possibili? Sì. Ma identificate in un progetto riformista, oltre le rigidità degli schieramenti. Partendo dalle città, dai territori, dalla complessità sociale e culturale e con un sistema elettorale che favorisca la unificazione. Ce n’è abbastanza per attrezzarsi ad attraversare il deserto, anche oltre i congressi di partito.

*L’autore è assessore al Bilancio del Comune di Napoli e presidente di Res

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