Mosca o Berlino, il risultato non cambia: i progressi nel tortuoso percorso verso la stabilizzazione della Libia e la fine della guerra civile iniziata nel 2011 appaiono timidi, altalenanti e scarsi. Come se non bastasse, caratterizzati da un ruolo sempre più marginale dell’Italia che, con il passare degli anni, si è trovata nella surreale situazione di trasformarsi da principale interlocutore del grande Paese nordafricano a claudicante inseguitrice di altri attori europei e mediorientali, ben più spregiudicati e strategicamente consapevoli. Tuttavia, proprio il fallimento dei negoziati nelle conferenze di Mosca e Berlino ed il conseguente stallo nel conflitto tra i governi di Tripoli e Tobruk, regalano al nostro Paese la possibilità (teorica) di recuperare posizioni e interessi.

A Mosca, il 13 gennaio scorso, Russia e Turchia avevano provato a replicare il fruttuoso modello di Astana che, nei fatti, aveva superato le conferenze di Ginevra nello stabilizzare il teatro siriano. L’obbiettivo era quello di utilizzare un formato diplomatico ridotto per provare ad imporre il cessate il fuoco alle milizie del leader del Governo di Unità Nazionale (GUN) tripolino Fayez al-Serraj e al generalissimo dell’Esercito Nazionale Libico (ENL) Khalifa Haftar. Inoltre, il meeting avrebbe avuto l’obbiettivo di legittimare ed aumentare l’influenza diplomatica nella crisi libica di Ankara e Mosca, che già nelle settimane precedenti avevano incrementato la propria presenza militare sul terreno con l’invio, rispettivamente, di circa 1.000 e 600 soldati. In particolare, le unità stanziate da Vladimir Putin non appartengo ufficialmente e formalmente all’esercito russo, bensì si muovono sotto la bandiera della famigerata Wagner, la compagnia militare privata (o contractors) che, dal Mozambico fino alla Repubblica Centrafricana e al Sudan si è trasformata nell’ennesimo tentacolo non-convenzionale del Cremlino in Africa. Una presenza limitata nei numeri, ridotta nei costi, esigua in termini di esposizione pubblica e assolutamente nulla in quanto ad attribuzione diretta di responsabilità governativa. Di conseguenza, una presenza che tutela gli interessi di Mosca, obbliga gli attori internazionali ad attivare il redivivo telefono rosso del Cremlino ma non risponde ufficialmente e giuridicamente alla Russia. In sintesi, è come se Putin ci fosse pur senza vedersi. In una frase, la guerra ibrida elevata al rango di strumento strategico.

Tuttavia, lo sforzo politico e di immagine di Turchia e Russia si è rivelato vano, in quanto Haftar si è rifiutato di sottoscrivere il documento prodotto dall’incontro, suscitando la congiunta irritazione dello Zar e del Sultano del Terzo Millennio. Sulle ragioni del rifiuto del presunto uomo forte della Cirenaica aleggiano le cause ultime dell’instabilità libica.

In primis, l’equilibrio delle forze in conflitto e la difficoltà, sia militare che politica, di prevalere in modo netto ed incontrovertibile. Infatti, al di là delle dichiarazioni di facciata, nessuno dei due schieramenti dispone delle capacità sufficienti per assestare un colpo decisivo e vincere la guerra. Inoltre, la natura stessa della società libica, divisa in centinaia di tribù ed altrettante milizie locali, rende molto complessa la strada della negoziazione e del compromesso. Come se non bastasse, con il passare del tempo Haftar ha alzato il tiro delle sue pretese cesaristiche, suscitando la viva preoccupazione di tutte quelle parti sociali del Paese allergiche alla retorica di un potere individuale, centralizzato e concentrato nelle mani di un solo uomo. In sintesi, una metà del libici non vuole un nuovo Gheddafi, mentre l’altra lo desidera, soprattutto se espressione della propria tribù o provenienza geografica.

In secondo luogo, gli sponsor esterni di Serraj e Haftar, della Tripolitania e della Cirenica, di Tripoli e di Tobruk, non hanno anch’essi la forza necessaria per sostenere unilateralmente il proprio protetto. Così la Turchia da sola non può sbilanciare l’esito del conflitto a favore di Serraj e Russia, Emirati Arabi Uniti ed Egitto non possono, da sole, offrire lo spunto decisivo ad Haftar. Sullo sfondo, resta la Francia del doppiogiochista Macron che, come Penelope, di giorno tesse la trama del GUN internazionalmente riconosciuto e di notte la disfa in favore di Haftar.

Questa situazione frastagliata e disomogenea gioca a favore del Generale dell’ENL che, finché i suoi sponsor non avranno unità di intenti sui loro obbiettivi e sulle loro strategie, potrà permettersi di voltare le spalle ad uno di essi con la certezza di usufruire dell’ascolto e del supporto degli altri.

Il fallimento del blitz diplomatico russo-turco di Mosca ha rimesso tutto nelle mani dell’iniziativa franco-tedesca di Berlino, avvenuta ad appena una settimana di distanza, il 19 gennaio. Tuttavia, anche in questo caso, i risultati sono stati pochi e scarni. Da un lato, la conferenza ha prodotto il miglior documento congiunto dall’inizio delle ostilità, un “papiello” di oltre 50 punti focalizzato sulla necessità della ripresa del dialogo politico tra le parti, sulla riforma del settore della Difesa e della Sicurezza, sull’embargo sugli armamenti e sulla formazione di un comitato militare formato da 10 delegati (5 per parte). Tuttavia, questo documento rischia di rimanere una stupenda lettera d’intenti o una lista desideri a causa della mancanza di un meccanismo sanzionatorio in caso di violazione dei principi sottoscritti. In sintesi, ognuna delle parti può violare l’accordo di Berlino senza che incorra automaticamente in sanzioni di alcun tipo. Queste ultime saranno presumibilmente affidate alla volontà dei singoli membri della Comunità Internazionale.

Appare evidente come la conferenza di Berlino abbia favorito Haftar e il governo di Tobruk che, oltre ad aver rosicchiato un’altra fetta di legittimità politica internazionale, vedono premiata la loro strategia di alzare il tiro in prossimità degli eventi diplomatici libici. Basti ricordare alla conferenza libica promossa dalle Nazioni Unite nell’aprile del 2019 e naufragata a causa dell’offensiva di Haftar su Tripoli. Anche nel caso di Berlino, oltre alle schermaglie militari, il generalissimo ha ben pensato di chiudere i pozzi petroliferi sotto il suo controllo, aggiungendo al grilletto del fucile il ben più affilato strumento di ricatto della valvola dell’oro nero.

In questo senso, l’assenza del meccanismo sanzionatorio e di esplicite e dirette condanne a quelle parti in conflitto responsabili di violazioni somiglia ad un preoccupante semaforo verde per il proseguo delle operazioni militari. La Francia, principale artefice del veto contro le sanzioni e ormai abituata a proteggere Haftar rifiutando reprimende pubbliche ai suoi danni, è da considerarsi tra i responsabili diretti dell’atrofia del processo negoziale.

Dopo Berlino, il futuro della transizione libica appare sempre più incerto. Lo scenario più plausibile resta il proseguo dell’attuale situazione, incentrata sul proseguo delle ostilità in forme controllate e circoscritte. Una lenta guerra di logoramento che, ancora una volta, sembra tutelare il disegno di Haftar, dandogli la possibilità di aumentare la profondità militare della sua azione e di proseguire le complicate trattative con le milizie tripolitane e del Fezzan a lui avverse. Forte del supporto aereo emiratino e di quello politico-militare di Egitto, Francia e Russia, il generale appare sempre meno incline al compromesso. Di contro, Serraj può affidarsi più alla Turchia che ai proclami delle Nazioni Unite che, pur riconoscendo il suo governo, senza la promozione di una missione internazionale lo abbandonano inevitabilmente al suo destino. Anche in questo caso, occorre valutare quanto Ankara sia disposta a rischiare nel ginepraio libico, a cominciare dall’invio di assetti militari in grado di contrastare l’aviazione cirenaico-emiratina e privare Haftar del vantaggio della superiorità area.

La Conferenza di Berlino ha ulteriormente confermato quanto la guerra civile libica sia diventata una crisi regionale, dove non si confrontano soltanto i gruppi nazionali ma dove gli attori internazionali giocano la propria partita per la supremazia ed il controllo di risorse energetiche, minerarie, logistiche e finanziarie. Se la Turchia sogna di riportare Tripoli alla Sublime Porta, sanando il maltorto della guerra italo-turca del 1911-1912, la Francia vuole sostituirsi all’Italia come principale partner strategico del futuro governo libico, realizzando così gli obbiettivi alla base del repentino intervento militare del 2011 firmato Sarkozy. In tutto questo, la Russia attende sorniona, soddisfatta di aver ottenuto un posto al tavolo negoziale e lavorando sottotraccia per accaparrarsi la sua fetta di torta. Una fetta golosa in termini di forniture militari, contratti di sfruttamento energetico e minerario e, soprattutto, posizionamento strategico nel Mediterraneo. Infatti, nei sogni più proibiti del Cremlino c’è la volontà di aprire una base militare nei porti libici. In una futura Libia unita o, tanto meglio per lui, in una futura Cirenaica indipendente con un suo governo ed una sua Compagnia Petrolifera Nazionale autonoma. Tutto questo agevolato dall’assenza degli Stati Uniti che, con Trump, hanno esclusivamente bollato l’Africa come il terreno di caccia ai terroristi jihadisti di al-Qaeda e del dello Stato Islamico. Queste due organizzazioni, per inciso, attendono nell’ombra, pronte a sfruttare le opportunità che la guerra civile libica ha aperto loro in passato e che, forse, potrebbe riaprire nel prossimo futuro.

L’Italia sembra resti a guardare, inseguendo i velocisti francesi, emiratini, turchi e russi. Ad oggi, la guerra civile libica ha mostrato il conto più alto proprio al nostro Paese sia in termini di emergenza nella gestione del flusso migratorio che di rischio per la tutela dell’interesse economico nazionale. I balbettii diplomatici di Mosca e Berlino, che ci non ci hanno visto protagonisti in prima linea, potrebbero costituire il punto di svolta della nostra politica verso la Libia. Volontà politica permettendo.

*L’autore è analista del Centro Studi Internazionali

 

 

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