Intervista a Mauro Magatti, docente di Sociologia della Globalizzazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. 

Una crisi molto annunciata, da tutti “prevista”, che poi però ha colto osservatori e politici alla sprovvista. Sul tavolo restano tre alternative: voto subito, governo istituzionale o elettorale, governo di legislatura. Quali le conseguenze sul Paese?
La crisi era sicuramente annunciata, non solo perché Lega e 5 Stelle sono molto diversi, ma anche perché Salvini aveva completamente modificato i rapporti di forza nel giro di un anno o poco più, e si sentiva talmente potente da potere rompere lo schema e raccogliere i frutti di questo anno disastroso per i 5 Stelle. La sua decisione è stata repentina, non ben ponderata, ma chi ne è risultato sorpreso viveva sulla luna. Siamo in un momento molto delicato perché il Paese può consegnarsi mani e piedi a questa destra populista e che ha tratti molto cattivi; oppure questa crisi può spingere la parte del Paese che io penso sia la maggioranza, quella che vuole guardare avanti con fiducia e spirito di solidarietà, a riorganizzarsi e a ripartire. Siamo a un punto di svolta, speriamo che si scelga la seconda strada.

Questo anno di governo gialloverde ha esasperato i toni dello scontro politico italiano, alimentando una retorica dell’odio e di attacco verso il diverso da sé. Difficile giustificare questo mutamento antropologico con la sola reazione rabbiosa a dieci anni di crisi economica. Cosa sta succedendo?
Dopo la crisi finanziaria del 2008 è cambiato lo schema storico: non siamo più in una fase espansiva, dove tutto si scioglieva, dal punto di vista economico ma anche delle relazioni e dal punto di vista culturale. Siamo entrati in una fase dove il tema è il legame sociale, la ridefinizione dei confini, la definizione dei limiti allo stare insieme. Ci sono delle grandi potenzialità ma anche dei grandi rischi. La reazione populista, che è mondiale, fuori dall’Occidente si manifesta nella affermazione netta di modelli autocratici; la reazione populista esprime il disagio dei ceti popolari e della nuova plebe nei confronti dei processi della globalizzazione cosmopolitica, che hanno avvantaggiato in Occidente solo pochi gruppi, pochi strati sociali, rendendo sempre più invivibile, soprattutto dopo il 2008, la vita quotidiana di milioni di persone. Non sappiamo ancora bene quanto questo rimbalzo sia profondo e dove possa arrivare. Certamente ciò che sta accadendo non riguarda solo la sfera economica ma investe integralmente la vita sociale, istituzionale, culturale e politica.

Su Avvenire nei giorni scorsi ha duramente criticato non solo la Lega e il Movimento 5 Stelle, ma anche il Pd. A suo avviso i partiti di sinistra dovrebbero “superare la prospettiva aperta da Blair e Clinton, senza lasciarsi prendere dalla nostalgia per la socialdemocrazia del Novecento”. Come agire concretamente?
Blair e Clinton sono stati gli interpreti di sinistra del neoliberismo nato a destra. Cioè hanno interpretato nella logica libertaria la linea di politica economica nata con Reagan e la Thatcher, in un certo senso sono stati i principali interpreti di quella stagione. Con il 2008 proprio la sinistra internazionale è in evidente difficoltà e sembra incapace di reagire. Come spesso accade è stata la destra a essere più prontamente reattiva a capire che l’epoca era cambiata, e il sovranismo che si è sviluppato in tutto il mondo, il quale inverte completamente la direzione di marcia del neoliberismo, è la risposta. Come negli anni ‘80 e ‘90 la questione era lo slegamento, così oggi il tema centrale è la rilegatura, la ridefinizione di rapporti, relazioni, alleanze, limiti, per navigare nel mare tempestoso della seconda globalizzazione. La destra lo esprime nella forma del populismo, la sinistra allo stato attuale non esprime nulla, e questo è il vero problema.

Oggi parteciperà ad una iniziativa del Meeting di Rimini sulla sfida del lavoro. Ma è possibile coniugare crescita e valori? È possibile far sorgere una “terra umana” nel mare della tecnica, per citare una metafora di Schmitt a lei molto cara?
Siamo in una fase di ristrutturazione degli assetti capitalistici, e quando dico ‘assetto capitalistico’ significa un impasto tra modalità della produzione, quindi tecnologia ed economia, assetti politici, e basi culturali e spirituali. Siamo di fronte ad un bivio: da una parte c’è un modello di capitalismo cattivo, che chiude i confini, crea contrapposizioni tra aree economiche e politiche fino allo scontro commerciale, utilizza l’odio nei confronti dello straniero a prescindere dal consenso interno, e mantenere così le diseguaglianze sociali crescenti. L’alternativa c’è, ed è quella di un capitalismo che prende atto della natura relazionale della nostra condizione, che riconosce il fatto che l’aumento della produzione, l’aumento del profitto, devono stare in rapporto con ciò che lo circonda, dunque l’ambiente, le condizioni sociali, la disuguaglianza, le persone, cioè la formazione e il welfare. È il riconoscimento di questa natura relazionale la vera alternativa che abbiamo davanti, una alternativa che in realtà apre al futuro, apre cioè alla possibilità di realizzare un nuovo equilibrio capitalistico capace di tenere insieme ciò che nell’epoca precedente invece è stato diviso. Come sempre nella storia questi passaggi sono molto delicati: la strada del futuro è tracciata, ed è quella della relazionalità di tutto ciò che sta al mondo, come Papa Francesco ha splendidamente indicato nella “Laudato si’”. Dobbiamo capire se saremo in grado di cogliere questa opportunità o se invece cederemo alla regressione della contrapposizione, dell’odio, della guerra.

1 commento

  1. Ritenere che ci possa essere un capitalismo dal volto umano e che si relazioni con la realtà attuale, dove le disuguaglianze ne sono la propria naturale conseguenza, mi crea qualche perplessità. Come può convertirsi il capitalismo ad un qualcosa di antitetico a se stesso e nel frattempo giustificarlo?

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