Prosegue il nostro approfondimento sulla situazione politica e sul voto del prossimo 25 settembre: vi proponiamo un’intervista a Luca Bianchi, direttore Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), a cura di Vanni Petrelli.

Sul tema abbiamo già pubblicato:
La caduta del Governo e la transizione politica – di Pier Paolo Baretta
Non sono soltanto affari nostri – di Salvatore Biondo
Bisogna puntare al pareggio, come nel 2018 – Intervista a Paolo Feltrin, di Vanni Petrelli
Tattica e strategia, i limiti dei nostri politici – di Carlo Puca
Le torride elezioni e la fatica di riformare il riformismo – di Pier Paolo Baretta
Il ruolo dei social nella sfida elettorale – di Vanni Petrelli
Il nostro voto, come? – di Mirella Ferlazzo
La visione del futuro è l’antidoto all’eterno ritorno del populismo – di Riccardo Corbucci
Il voto moderato dei cattolici. Il centro come metodo e prospettiva politica – di Francesco Occhetta, dal sito Comunità di Connessioni
Meeting di Rimini, intervento del presidente Mario Draghi – dal sito Governo.it.
Isolati mai, la via del federalismo europeo – di Pier Paolo Baretta

Tra poche settimane si vota: quanto Mezzogiorno c’è nei temi della campagna elettorale?
La campagna elettorale per le elezioni politiche che si svolgeranno tra meno di un mese è stata fin qui piuttosto avara di contenuti. Non fa eccezione il tema del Mezzogiorno, caratterizzato da una noiosa ritualità oscillante tra la retorica della nuova centralità mediterranea e il sempreverde Ponte dello Stretto. Siamo in un curioso paradosso in cui il Mezzogiorno è scomparso dal dibattito politico, se non per i citati richiami “di scuola”, proprio nella fase in cui, invece, grazie al nuovo orientamento europeo, il tema della lotta alle disuguaglianze sociali e territoriali è al centro del Piano di ripresa e resilienza italiano e comunitario.

Le anticipazioni del rapporto Svimez parlano di un allargamento del divario Nord-Sud. Nel 2021 al Sud il Pil è cresciuto del 5,9%, mentre a livello nazionale del 6,6%. Le previsioni non fanno ben sperare: nel 2022 è previsto +2,8% al Sud e +3,6% a livello nazionale, nel 2023 rispettivamente +0,9% e +1,7%. Quali sono le misure più idonee per evitare che la forbice si allarghi ulteriormente? 
Le previsioni territoriali della SVIMEZ diffuse lo scorso 3 agosto hanno evidenziato il peggioramento delle prospettive di crescita per il triennio 2022-2024. Lo “shock ucraina” ha allontanato l’economia italiana dal sentiero di una ripartenza relativamente tranquilla e coesa tra Nord e Sud. La crescita nazionale nel 2022, stimata dalla SVIMEZ al +3,4%, è stata frenata dal rallentamento dei consumi delle famiglie meno abbienti colpiti dal caro vita, concentrate in larga parte al Sud, e degli investimenti delle imprese. Si è riaperta la forbice Nord-Sud nel ritmo di crescita (+2,8% nel Mezzogiorno, +3,6% nel Centro Nord nel 2022) che prima dello shock energetico sembrava potesse rimarginarsi. Lo scenario non migliorerà nel biennio 2023-2024, quando, in un contesto di drastica riduzione del ritmo di crescita nazionale (+1,5% nel 2023; +1,8% nel 2024), il differenziale Nord-Sud dovrebbe attestarsi secondo la SVIMEZ su 0,8 punti percentuali nel 2023 e 0,6 nel 2024. In questo mutato quadro, servono da un lato interventi urgenti per ridurre l’impatto sociale dell’inflazione che un governo dimissionario ha più difficoltà a emanare, soprattutto in un clima di campagna elettorale. Inoltre, più in generale, il Sud ha bisogno di investimenti. Il primo fattore che guida le decisioni di ampliamento della capacità produttiva delle imprese è il clima di fiducia, che è crollato con la guerra. L’instabilità politica ha peggiorato la situazione. I mercati finanziari per ora aspettano alla finestra, ma se dovessero generarsi tensioni sul debito italiano, le ripercussioni sul costo del denaro sarebbero più forti per le imprese meridionali, finanziariamente più dipendenti dal sistema bancario e per le quali è già più strutturalmente complicato accedere al credito.

Sempre secondo le anticipazioni del rapporto Svimez, al Sud l’occupazione cresce ma peggiora la qualità del lavoro. Quali sono le proposte politiche in grado di assicurare una occupazione stabile, regolare?
Andrebbe definitivamente archiviata la stagione delle riforme del mercato del lavoro (spesso confuse con estensioni della flessibilità/precarietà) come unica soluzione al problema della disoccupazione. Il lavoro si crea innanzitutto intervento sulla struttura produttiva del Sud, ampliandola e ammodernandola, favorendo la diffusione di attività ad elevato valore aggiunto e a maggior domanda di lavoro qualificato, intensificando i rapporti tra imprese e mondo della ricerca. Insieme occorre poi intervenire sulla “questione salariale”. I salari reali, già ridottisi dopo la crisi del 2008, sono ulteriormente erosi dalla nuova ondata inflazionistica. Per fare questo serve un mix di interventi fiscali (riduzione del cuneo fiscale, proroga della decontribuzione Sud) e incrementi salariali per categorie specifiche a partire dagli insegnanti.

Avete diffuso un dato che fa davvero riflettere: per portare a compimento le infrastrutture sociali previste dal Pnrr, i Comuni del Mezzogiorno impiegano mediamente circa 450 giorni in più rispetto al dato nazionale (1.007 giorni). È un problema di sottodimensionamento dell’organico o di competenze? Quanto incide la burocrazia?
Nel Mezzogiorno i Comuni per realizzare le infrastrutture sociali impiegano mediamente oltre 1400 giorni (quasi 4 anni), circa 450 giorni in più della media nazionale. Se gli enti locali non dovessero invertire il trend e rendere più efficiente la macchina burocratica necessaria all’affidamento dell’appalto, all’apertura del cantiere e alla realizzazione dei lavori, avrebbero dei tempi estremamente stretti per portare a conclusione le opere nel rispetto del termine ultimo di rendicontazione fissato per il 31 agosto 2026 Per aprire i cantieri e concludere i lavori dovranno dunque essere mobilitati tutti gli strumenti di accompagnamento previsti dal PNRR che su questo fronte ha bisogno di essere rafforzato. Utili ma troppo lunghi i tempi per nuove assunzioni; devono attivarsi subito le agenzie nazionali e occorre mobilitare (come proposto dalla SVIMEZ più di un anno fa) centri di competenza territoriale utilizzando le professionalità presenti nelle Università del territorio. In ultima analisi dobbiamo prepararci all’eventualità di attivare i poteri sostitutivi dello Stato.  Non possono ancora una volta i cittadini meridionali soffrire l’assenza di infrastrutture e servizi per le carenze delle pubbliche amministrazioni nazionali e locali.

A detta di molti il 40% delle risorse del Pnrr riservate al Mezzogiorno sarebbe insufficiente e a rischio. Eppure non c’è stata una sola iniziativa comune di tutte le regioni del Sud. Insomma, siamo al solito festival delle occasioni perdute?
Speriamo di No. Ma ci sono ancora dei nodi irrisolti nell’attuazione del PNRR che vanno affrontati per evitare che il PNRR fallisca nell’obiettivo di ridurre i divari territoriali. I nodi verranno al pettine con l’insediamento del nuovo esecutivo. Molto dipenderà dalle scelte politiche che verranno fatte, dalle misure correttive che si riterrà di apportare, ad esempio, alle procedure di assegnazione delle risorse che restano da allocare agli enti territoriali per correggere le distorsioni del sistema dei bandi, o da eventuali cambi ai vertici della governance del Piano. Innanzitutto, va ricordato che la quota Sud del 40% non è un risultato acquisito dal governo uscente, ma un impegno sugli stanziamenti che dovrà essere verificato dopo la realizzazione degli interventi. In tema di diritti di cittadinanza, il sistema dei bandi per il finanziamento degli investimenti in infrastrutture sociali che vedono i Comuni come soggetti attuatori si è rivelato inefficace, riflettendo la geografia delle capacità progettuali degli enti locali, maggiori al Nord, piuttosto che quella degli effettivi fabbisogni di investimento dei residenti, più elevati al Sud. Come si pensa di correggere questa distorsione per le risorse che restano da allocare? E per l’attuazione degli interventi, si ritiene che la governance del PNNR abbia previsto un supporto adeguato agli enti locali o servono nuovi strumenti di accompagnamento?

Il Patto per Napoli è la dimostrazione che anche al Sud c’è una classe dirigente competente e responsabile, in grado davvero di far compiere un importante salto di qualità al territorio. È una esperienza contestualizzabile in altre realtà meridionali?  
Considero questo Patto, rispetto a tutti gli altri interventi del passato, come un percorso nuovo e diverso. Perché il modello di intervento delineato insieme da Draghi e Manfredi traccia il profilo di un Mezzogiorno maturo. È un approccio serio e indispensabile: indispensabile perché, diciamolo con chiarezza, il Governo non poteva abbandonare intere aree del Paese e accettare i rischi di fallimento che gravavano su varie città metropolitane. E serio perché il rapporto tra Comune e Governo è impostato su una serie di responsabilità condivise, espresse e anche comunicate con chiarezza, nella prospettiva della ripresa. La forza innovatrice di questo accordo, consiste nel non essere un semplice Piano di risanamento. Ma un autentico Piano di rilancio. La vera sfida che adesso ha di fronte Manfredi è difatti costruire, intorno a questo percorso, una rigenerazione della città. Aprendo a una nuova stagione di cittadinanza partecipata. Per questo dico: non solo il Patto di Napoli, ma il Patto per Napoli.

Quanto sarà importante, con il nuovo Governo, avere un ministro per il Sud? Sarà importante avere una visione del Sud, più che un Ministro. Capire come il capitale (umano, culturale, ambientale) inespresso del Mezzogiorno possa essere liberato e così contribuire alla crescita del Paese. Il nuovo governo avrà il compito difficilissimo di affrontare congiuntamente due questioni: la difficile gestione della congiuntura corrente creata dalla crisi energetica e dare continuità all’attuazione del PNRR. Sul primo fronte, la prossima legge di bilancio sarà la più complessa e delicata da decenni, per l’inflazione galoppante, le emergenze per famiglie e imprese, e i mercati finanziari pronti a giudicare le nostre mosse di bilancio. Per il PNRR, quale che sia il “tagliando” che subirà, l’auspicio è che vada nella direzione di rafforzarne le finalità di coesione territoriale. Vanno in particolare sanate le due “grandi” divergenze tra Nord e Sud del Paese: quella nell’accesso ai diritti di cittadinanza (a partire da scuola, sanità e assistenza sociale), sempre più difficile per i cittadini meridionali, e quello tra strutture produttive sempre più distanti per consistenze numerica e qualità delle produzioni e di offerta di servizi. Temi che non dipenderanno dalla presenza o dalla qualità del prossimo Ministro per il Sud ma da scelte strategiche che riguardano l’intero esecutivo.

Avete puntato l’indice contro la carenza di mense e palestre negli istituti scolastici meridionali e contro l’orario ridotto rispetto al nord. Ritiene che la scuola sia davvero la priorità delle priorità per ridurre gli svantaggi con il resto dell’Italia?
Ne sono profondamente convinto. Il vero Ministero per il Sud dovrebbe essere quello dell’istruzione. La scuola ha visto indebolirsi, soprattutto dopo la lunga e pesante crisi in atto dal 2008, la sua capacità di fare equità, di ridurre i divari nelle opportunità dei ragazzi che vengono da famiglie meno abbienti e meno scolarizzate. L’impoverimento delle famiglie in conseguenza della crisi e la riduzione dei fondi per effetto delle politiche di risanamento pubblico hanno allontanato il nostro Paese dai livelli europei e ha fatto crescere nelle aree più deboli (non solo nel Mezzogiorno ma anche nelle grandi periferie urbane del Nord) il tasso di abbandono scolastico. Il fatto più drammatico è che la scuola non sembra più in grado di colmare pienamente le lacune di chi proviene da situazioni più svantaggiate. Il tema della riduzione degli squilibri in termini di formazione professionale, in termini di istruzione, di qualità dei servizi essenziali, può essere la chiave per ricostruire, sui territori e a livello nazionale, un consenso intorno alla missione meridionalista della riduzione dei divari nelle opportunità tra i cittadini delle diverse aree del Paese.

Aumentano bollette e prezzi, a causa dell’inflazione galoppante. E il lavoro al Sud è sempre più precario, come certifica il Rapporto Svimez. A tutto questo si somma l’incertezza politica del momento: insomma, il Sud è davvero una polveriera, ritiene ci sia il rischio di tensioni sociali?
E’ soprattutto la dinamica inflazionistica che preoccupa sia per i suoi effetti economici sia soprattutto per i possibili impatti sociali.  La spirale inflazionistica che riguarda soprattutto beni alimentari e costi dell’energia impatta sulle famiglie meno abbienti, concentrate nelle regioni meridionali, e di conseguenza i consumi.  Questo erode il reddito disponibile delle famiglie più fragili, più diffuse nelle regioni del Sud ma anche nelle periferie urbane del Nord, con il rischio di un ulteriore scivolamento  vero la povertà.  Ricordo che in base a stime SVIMEZ nelle regioni del Sud i working poors, cioè lavoratori poveri (con un reddito inferiore al 60% della media) rappresentano circa il 20% dei dipendenti contro l’8% della media nazionale. Senza ulteriori interventi urgenti volti a mitigare l’impatto dell’incremento dei prezzi sul potere d’acquisto delle famiglie meno abbienti potrebbero determinarsi effetti sociali preoccupanti.

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