*L’autore è presidente di Fondaco Europa
Le cronache di queste ore ci consegnano il precipitare della terra afgana nel vortice di una cruenta guerra civile.
A far da cornice a tutto ciò l’imbarazzo della posizione americana, il riposizionamento di tutti i principali attori in scena e nel retroscena, il crollo di fragili strutture statuali, il corollario delle atrocità perpetrate nei confronti della popolazione civile, costretta, nel migliore dei casi, a subire esodi massicci.
Tutto perfettamente prevedibile: autorevoli osservatori e parti degli apparati americani, e non solo, avevano messo in guardia sulla inaffidabilità dei talebani a rispettare gli accordi di pace, siglati a Doha nel febbraio 2020 tra i loro vertici e gli Stati Uniti.
Gli Usa da tempo avevano espresso la volontà di ritirare le loro truppe dal territorio afgano. Già l’aveva annunciato Obama, poi ancora Trump. È toccato all’amministrazione Biden mettere in pratica il ritiro e subito il conflitto interno afgano si è riacceso violentemente.
Una serie di attentati aveva preannunciato quello che si sta verificando oggi. Poi via via la pressione militare talebana si è intensificata, le città e le province conquistate dai fondamentalisti sono diventate sempre più numerose e di ora in ora la loro avanzata sembra travolgere le resistenze governative fino a scorgere la riconquista e il controllo di gran parte del paese.
Sono molti gli interrogativi che si aprono in occidente di fronte al precipitare di questa situazione. Essi vanno però preceduti da una considerazione relativa al bilancio e alla pesante contabilità di questo ventennio di guerra e occupazione dell’Afghanistan da parte statunitense e dei suoi alleati, tra cui l’Italia: le decine di migliaia di morti tra soldati e civili, le migliaia di miliardi di dollari spesi (secondo stime del New York Times solo gli Stati Uniti ne hanno spesi oltre duemila miliardi) non sono stati sufficienti a costruire una entità statuale degna di questo nome.
Un mix micidiale fatto di corruzione, di interessi potenti relativi alla ricchezza di materie prime presenti nel sottosuolo, oltre al fiume di oppiacei che fa dell’Afghanistan il maggior produttore al mondo, sembra avere il sopravvento sulle tante iniziative utili che pure si sono sviluppate in questi anni a favore delle popolazioni locali, soprattutto nei settori della sanità, dell’istruzione, della piccola imprenditoria, dei diritti delle donne e dei minori.
In un quadro che si fa via via più complicato, analizzeremo per brevità la posizione di alcuni attori protagonisti nella regione.
Innanzitutto le scelte americane: gli Stati Uniti confermeranno il processo di disimpegno (pressoché compiuto) dall’area?
La risposta a questo interrogativo sembra propendere per la conferma, con la partenza a breve degli ultimi contingenti militari. Qualche incertezza riguarda la permanenza o meno di una parte delle migliaia di contractors, alias mercenari, soprattutto americani.
Gli Usa sentono ormai come loro obiettivo principale il contenimento della Cina e non disdegnerebbero affatto che qualcun altro (in primis proprio la Cina) si impantanasse nelle sabbie mobili afgane, fatali nel passato a grandi attori quali l’impero zarista, quello britannico e l’Unione Sovietica (di qui la definizione di quel paese come “Tomba degli Imperi”).
Ma l’uscita di scena non è una comoda passeggiata. A complicare non poco la questione per la super potenza Usa sono gli equilibri da ricostruire nella regione con gli attori principali.
Gli americani non possono permettersi di trascurare il Pakistan, ormai ex alleato, ma potenza nucleare, quinto paese più popolato al mondo, secondo paese più popolato da musulmani, un vicino dell’Afghanistan molto ingombrante, che per gli Stati Uniti non può entrare troppo nella sfera di influenza della Cina. Purtroppo però il Pakistan è acerrimo nemico dell’India e vede come fumo negli occhi il recente avvicinamento tra quest’ultima e gli Stati Uniti, in funzione anti cinese. Toccherà agli Usa destreggiarsi a dovere.
Anche per la Cina, del resto, le cose non si presentano semplici. Finora nascostamente grata agli americani che hanno mantenuto una qualche stabilità dell’area, recentemente comincia ad avvertirne con preoccupazione la destabilizzazione, teme di essere coinvolta nel buco nero afgano, ma al tempo stesso è costretta ad occuparsene per almeno due ragioni.
La prima geografica. La Cina confina per poche decine di chilometri con l’Afghanistan, ma sono confini cruciali, vicino ai quali si svolge un’altra complicata partita interna: quella del “controllo”, meglio sarebbe dire repressione, degli Uiguri, etnia turcofona di religione islamica che vive nella regione dello Xinjiang. Pechino teme che infiltrazioni terroristiche attraverso quel lembo di terra di confine possano estendersi a quella regione e non a caso ha irrobustito la presenza militare proprio in quella zona.
La seconda perché la Cina intende preservare e sviluppare la propria sfera di influenza geopolitica e i propri interessi economici nell’area dell’Asia centro-meridionale, in primis i rapporti col Pakistan, per difendere quel fondamentale tratto della Via della Seta che termina nell’Oceano Indiano, nel porto di Gwadar: punto di importanza strategica, sbocco del corridoio sino-pachistano capace di ridurre gli effetti dell’accerchiamento marittimo americano al largo delle proprie coste.
A meno che i recenti contatti con i talebani non prefigurino una manovra ancora più subdola e ardita tesa ad affiliare loro e, con loro, tutti i movimenti estremisti islamici, ponendo a quel punto seri problemi a tutto l’Occidente. Non sarebbe semplice per la Cina riuscire in questa impresa, ma conviene agli Stati Uniti e ai loro alleati stare in guardia.
Quindi la Russia. Come altri soggetti anche la Russia si muove su due fronti. Con molta circospezione fa attenzione a non farsi coinvolgere direttamente in operazioni militari (il ricordo della disfatta militare sovietica in Afghanistan è ancora molto presente), al massimo si limita a dimostrare che intende difendere i paesi limitrofi facenti parte della propria sfera di influenza. Dall’altro lato tenta di approfittare dello spazio creato dal disimpegno americano e degli alleati per accaparrarsi qualche vantaggio economico e geopolitico. Anch’essa ha aumentato la propria presenza militare ai confini dell’area, preoccupata che da esodi massicci dal territorio afgano possano derivare infiltrazioni terroristiche che si saldino con frange interne di simile matrice.
Con statura minore ma con peso comunque significativo, a complicare ulteriormente la scena, vi è la presenza attiva di altri due soggetti: Turchia e Iran.
La Turchia di Erdogan, smaniosa di recuperare il ruolo che fu dell’Impero Ottomano, si muove con disinvoltura nello scacchiere, si è proposta per difendere l’aeroporto internazionale di Kabul o per ospitare ad Ankara una conferenza di pacificazione afgana. Inoltre, e questo complica la vita a Russia e Cina, tende ad esercitare un ruolo di primo piano nei rapporti con paesi dell’area al confine con l’Afghanistan quali il Turkmenistan, l’Uzbekistan e il Tagikistan.
L’Iran dal canto suo segue con attenzione e preoccupazione lo svolgimento delle vicende afgane, flussi di profughi hanno iniziato a premere sulla frontiera, nel passato recente ha mantenuto una posizione “equilibrata” tra il governo afgano e i talebani, pronto a sfruttare in futuro a proprio vantaggio quello che succederà.
Molte cose ancora ci sarebbero da dire riguardanti altri attori presenti su questo scacchiere, primi tra tutti i già citati Pakistan e India, nemici di lunga data, ma interessati entrambi ad esercitare un ruolo prevalente nel territorio afgano, limitiamoci però a qualche considerazione conclusiva.
Quello che sta avvenendo in Afghanistan dimostra che si possono fare guerre con apparati militari sofisticatissimi, talvolta anche vincerle, poi si possono occupare a lungo i territori “conquistati”, ma è molto più difficile ricostituire apparati statali che, dopo il ritiro degli occupanti, possano garantire una convivenza civile alle popolazioni autoctone.
E’ quello che amaramente constatiamo oggi in quel paese.
Gli sforzi della comunità internazionale ora dovranno necessariamente concentrarsi nel difendere il più possibile la popolazione civile e quel poco (o forse tanto) che in questi anni si era fatto affinché i diritti dei più deboli fossero tutelati. Con orrore ricordiamo l’attentato che nel maggio scorso a Kabul uccise 25 studenti e studentesse, pronti a sostenere l’esame di ammissione all’Università, e ancora le tante donne impegnate in lavori fondamentali per la difesa dei diritti loro e dei più deboli, recentemente barbaramente assassinate, e che svolgevano la professione di giornalista, medico, giudice.
Da ultimo notiamo ancora una volta l’assenza dell’Europa, culla dei diritti e incapace di difenderli. Gravissimo vuoto nel panorama internazionale, essa testimonia come il non essere soggetto geopolitico, con una propria forza militare e quindi una politica estera degna di questo nome, la renda totalmente esclusa da qualsiasi partita nel mondo e purtroppo solo assoggettata alle (auguriamoci non vittima delle…) dinamiche scaturite da decisioni assunte altrove.
Tornando agli interrogativi, uno su tutti prevale sugli altri: quali effetti e quali riflessi geopolitici provocherà lo sconvolgimento afgano?
Il cupo presagio che questa terra torni ad essere il regno della barbarie e il ricettacolo di formazioni terroristiche pronte a spargere sangue innocente in giro per il mondo è tutt’altro che un’ipotesi trascurabile. Tutto questo può saldarsi ad una cinica difesa di interessi particolari da parte delle varie potenze, planetarie e regionali, in assenza di una urgente, forte e decisa iniziativa internazionale, in primis occidentale, che riporti al tavolo i protagonisti al fine di raggiungere accordi di pace duratura.
bravo Arcangelo Boldrin!
anch’io la penso come te partendo che, purtroppo. nessun grande paese voglia pagare in milioni e vite umane per un Paese che, dopo anni, si ritrova ad una nuova invasione dell’esercito talebano foraggiato da chi???