Il testo è il contributo alla celebrazione del centesimo anniversario dell’assassinio di
Giacomo Matteotti – Roma, 10 giugno 2024, Lungotevere Arnaldo da Brescia

Carlo Rosselli ricordava che ‘Matteotti non voleva e non cercava la morte’ e noi
dovremmo onorare questa memoria sottolineando la vita di Matteotti, la cultura,
gli affetti, la tenacia, la costanza e l’ottimismo contagioso che hanno
caratterizzato la sua lotta. Ci si sofferma e si indulge, in molte sedi e spesso, sulle modalità dell’assassinio anziché sulla premeditazione del delitto. Questa, più che al suo comportamento di denuncia puntigliosa e documentata delle violenze e dei reati degli squadristi fascisti, delle connivenze di organi dello Stato, era legata al timore che le sue affermazioni e le sue rivelazioni potessero sì aver presa sull’opinione pubblica di allora ma, soprattutto, che smascherassero gli intrighi che il Governo Mussolini si apprestava ad imbastire contravvenendo a trattati internazionali e lucrando su concussioni e corruzioni.

È dimostrato che quel 10 giugno fosse una data limite per fermare le denunce di
Matteotti. Gli era stato concesso, affinché espatriasse, il passaporto per partecipare a un congresso socialista a Vienna, ma Matteotti non partì per prepararsi e affrontare il Governo alla Camera l’11 giugno sulle concessioni lucrose e irregolari dei giacimenti petroliferi in Emilia Romagna e in Sicilia. Quindi Matteotti doveva stare lontano dalla Camera e, appunto, il dieci giugno fu rapito e poi assassinato. Perché tanto valore si dava all’azione di Matteotti? Perché Matteotti aveva capito il fascismo fin dai primi anni della milizia socialista, fin da quando, per la sua contrarietà all’inutile strage della Prima guerra mondiale fu allontanato dalla famiglia e confinato in Sicilia da dove fu fatto tornare solo dopo molti mesi che la guerra era finita.

Gli argomenti di Matteotti erano incisivi e persuasivi. Erano basati su una cultura che rifuggiva da retoriche enunciazioni bensì spiegava come decisioni politiche e comportamenti violenti danneggiassero proprio la parte più povera ma anche quella più laboriosa della società di allora. Ecco quindi, anche all’interno del partito socialista, la sua lotta contro i massimalismi e contro le sirene mitologiche della dittatura del proletariato che voleva essere automaticamente ripetuta in Italia senza capirne il contesto diverso, culturale, economico, sociale e politico. Ecco la sua avversione alla dittatura che veniva come primo punto indicata da massimalisti e comunisti e l’indicazione di un socialismo che poi Rosselli definì un socialismo liberale.

Questi argomenti erano ben comprensibili dall’elettorato – che, nonostante i
brogli, lo premiava -, dalle masse contadine che lo seguivano nei territori e nei
paesi dove viveva e dove aveva vissuto, dove aveva dimostrato la possibilità di
emancipazione e soprattutto di riscatto dalla miseria e dalla servitù. Era seguito all’estero e non solo dai movimenti socialisti e laburisti ma da una opinione ben più ampia che guardava l’Italia forse più per quel che avrebbe potuto essere che per quello che era.

L’umanità di Matteotti, che contagiava opinioni e masse, non era fondata solo sui
suoi sentimenti, che gli provenivano da una tragica storia familiare e che si
possono riscontrare con i rapporti affettuosi che aveva con la moglie Velia e con
i figli. Gli venivano da un forte preparazione che aveva conseguito negli studi.
Sarebbe stato un accademico importante dal momento che era stato chiamato
per svolgere l’insegnamento, ma lui aveva preferito l’impegno politico perché non
avrebbe potuto lasciare la sua gente. Aveva studiato diritto penale e sapeva
come il rigore delle norme doveva tener conto delle personalità dei rei e degli
eventuali condannati.

Un principio che ancora risuona – anche se non attuato – nella nostra Costituzione all’articolo 27: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, da cui si evince non solo il senso di pietas ma il senso di giustizia che deve essere inclusivo di tutti e faceva propendere Matteotti alla stipulazione di patti, a tentativi di collaborazione con chi rifiutava la violenza, il massimalismo o propendeva verso l’avvento di dittature esiziali, di qualunque
colore fossero. Da qui veniva anche l’invito a comportamenti prudenti, non
remissivi, che furono ignominiosamente contrastati con vigliaccheria da chi poi,
con omissioni o con politiche storicamente definite errate, non seppe
immediatamente vedere la continuità pericolosa del fascismo oltre la sua
affermazione.

Vi era un significato più sottile che sosteneva le idee e le azioni di Matteotti.
Era un pragmatismo dovuto alla sua capacità innata, sostenuta anche dalla
cultura familiare e dagli studi e dalle conoscenze delle teorie economiche e
giuridiche internazionali da cui aveva attinto, che aveva studiato e che aveva
frequentato. Un pragmatismo che in politica si traduceva in riformismo che non è
l’assecondare degli eventi e la transazione con le prepotenze altrui ma era il
modo di affrontare gradualmente i percorsi necessari per affermare gli obiettivi di
giustizia economica e sociale.

Questo è quindi l’insegnamento di Matteotti. Vedere e comprendere la realtà;
documentarsi e studiare le ragioni della sua insorgenza e cercare di capire come
affrontarla e se possibile modificarla per arrivare a soluzioni condivise ed eque;
capire i sacrifici e i costi di ogni azione politica e far sì che non insorgano squilibri
incoerenti tra gli obiettivi da raggiungere e i mezzi e le azioni per perseguirli.
Tutto questo si può chiamare Socialismo. Se i tempi non lo consentono è
comunque un principio per non soccombere con massimalismi avvincenti, con
contrasti ideologici e astratti a chi, con visioni del mondo autarchiche, può
sottrarre il nostro paese da una cultura occidentale ed europea che ha segnato
nei secoli ma segna ancora i principi della libertà della democrazia.

(l’autore è vicepresidente del Circolo Fratelli Rosselli)

 

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