Il 2024 è l’anno delle elezioni globali, con oltre 4 miliardi di persone chiamate al voto e 76 Paesi coinvolti, in cui le urne decideranno nuovi assetti locali e rinnovati rapporti internazionali: l’India con 1,5 miliardi di cittadini, l’Europa con 450 milioni; gli USA con quasi 350 milioni; l’Indonesia con 280 milioni; la Russia, con 150 milioni; il Pakistan con 130 milioni, e molti altri (vedi articolo pubblicato su ReS).

I primi risultati vengono dall’India, il Paese che si configura come la più grande democrazia del pianeta, la quinta economia mondiale che ha mostrato la più rapida crescita dalla fine della pandemia di Covid, che nel 2023 ha visto crescere il suo PIL del 7,6%. Sono stati 969 milioni le persone aventi diritto al voto, praticamente il 10% della popolazione mondiale, con una partecipazione popolare alle urne che i “campioni” della democrazia, come gli Stati Uniti, possono soltanto sognare.

Molti indiani si aspettavano una netta vittoria di Modi, il 73enne Primo Ministro in carica da oltre un decennio, dopo una campagna elettorale incentrata principalmente sul culto della sua personalità, che si è presentato agli elettori con un ambizioso programma di riforme e con la promessa di fare del Paese la terza economia mondiale entro il 2047, centenario dell’indipendenza. Invece la crescente disoccupazione, soprattutto tra i giovani, l’inflazione e l’aumento delle disuguaglianze tra le fasce più povere e i miliardari ‘super-ricchi’ assai vicini a Modi, hanno allontanato gli elettori dalla coalizione guidata dal Bharatiya Janata Party (BJP) del Primo Ministro, che dunque vince le elezioni, ma avrà bisogno degli alleati per raggiungere la maggioranza di 272 seggi necessari a governare.

Di contro, l’alleanza dei partiti di opposizione, riuniti nella piattaforma INDIA (Indian National Developmental Inclusive Alliance), supera di gran lunga le aspettative, conquistando complessivamente 234 seggi. Dopo cinque anni di assoluta marginalità, i partiti di questa coalizione rivestiranno il ruolo di opposizione parlamentare grazie a 234 seggi, ma stavolta con 107 seggi in più rispetto al 2019, mentre l’Indian National Congress, il principale partito della coalizione, manderà a New Delhi 99 deputati, quasi il doppio di 5 anni fa.

Si tratta innegabilmente di un terremoto politico, considerato che nell’ultimo decennio Modi e la coalizione BJP hanno goduto di un decisivo sostegno popolare mentre l’opposizione – in particolare il partito del Congresso – risultava debole e divisa. Oggi l’opposizione rappresenta la vera vincitrice della tornata elettorale, mentre il BJP pur riaffermandosi, fa la conta dei danni. Modi ottiene il sostegno di due partiti regionali grazie ai quali sarà nuovamente premier per un terzo mandato, ma la vittoria equivale a una “sconfitta politica e morale”, come sostengono le opposizioni, ed il suo ruolo appare molto più fragile.

Tra le maggiori sorprese che le urne hanno riservato al BJP c’è quella espressa dall’Uttar Pradesh, roccaforte del movimento che lo governa dal 2017. Con oltre 240 milioni di abitanti, l’Uttar Pradesh è lo stato più popoloso del Paese e per questo viene da sempre considerato un indicatore con un peso politico determinante per l’intera politica nazionale. Qui il partito di maggioranza – che prevedeva una vittoria schiacciante – oggi fa fatica ad assicurarsi la metà degli 80 seggi in palio. La cosa più singolare è che il BJP appare addirittura in svantaggio nel collegio elettorale di Faizabad, che ospita il Tempio di Ram ad Ayodhya che il primo Ministro Modi ha consacrato a gennaio. Il tempio, costruito sulle rovine della moschea Babri demolita da una folla nazionalista hindu nel 1992, è stato il fulcro della campagna elettorale del premier. A sbaragliare il BJP nello stato è ancora una volta la coalizione INDIA, probabilmente un acronimo molto attraente per i 900 milioni di elettori.

I commentatori politici dicono che le ragioni di una vittoria meno ampia del previsto sono da addebitare in parte ad una campagna elettorale troppo concentrata sull’identità religiosa, su polemiche relative a divisioni religiose e di casta, anziché sui risultati del governo, come il miglioramento delle infrastrutture, l’introduzione di politiche favorevoli alle imprese o il miglioramento della sua immagine internazionale. La postura del premier è stata invece soprattutto concentrata sull’identità indù e contraria all’avanzata della componente islamica – definita “infiltrata” – che oggi rappresenta circa il 20% della popolazione.

I risultati elettorali mostrano, dunque, che il BJP per governare dovrà contare anche sugli alleati minori e dare la massima priorità alle enormi sfide economiche e sociali che l’India deve affrontare, dalla creazione di milioni di posti di lavoro (si parla di oltre 50 milioni) alla riduzione delle disuguaglianze. Nicola Missaglia, Responsabile Comunicazione e India Desk ISPI, sottolinea che “continuare a condizionare e comprimere l’assetto secolare, pluralista e federale del paese non ha pagato”. Questo ci dà la misura del cambiamento.

Se fin dall’indipendenza è stata proprio questa visione a garantire la continuità democratica e la stabilità economico-politica, nonostante la povertà diffusa, le disparità socioeconomiche, nonostante la radicale diversità culturale e religiosa che la caratterizzano, oggi oltre ai presupposti democratici che fanno dell’India anche per noi un interlocutore fondamentale e privilegiato, gli indiani hanno forse compreso che in queste elezioni si giocavano soprattutto l’avvenire economico e le ambizioni globali del Paese.

Vedremo nei prossimi mesi, in esito alla più specifica valutazione del voto, quali saranno le alleanze che Modi riuscirà a mettere in campo, a quali misure darà la priorità e come reagiranno i mercati finanziari che in esito ai risultati mostrano una notevole turbolenza.

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