Un mix negativo composto da bassa natalità, emigrazione di giovani e invecchiamento della popolazione potrebbe provocare nei prossimi 50 anni per il Sud la perdita di 5 milioni di persone e, conseguentemente, del 40% del Pil. È uno dei dati più significativi (e preoccupanti) emersi dal Rapporto annuale Svimez, presentato questa mattina a Montecitorio. A fuggire dalle loro città sarebbero prevalentemente giovani laureati o comunque istruiti, la cui partenza contribuirebbe alla desertificazione del Mezzogiorno, sempre più lontano dal Centro-Nord. Per la Svimez “il reddito di cittadinanza non sarebbe in grado di risollevare le sorti del Sud. Servirebbero invece tanti posti di lavoro, almeno tre milioni. Solo un incremento del tasso d’occupazione, soprattutto femminile, può spezzare questo circolo vizioso”.

Come sempre il Rapporto offre dati utili a fotografare la situazione del Meridione. Dall’analisi della Svimez emerge un quadro desolante a partire dal Pil: nel 2018 al Sud è cresciuto di +0,6%, rispetto a +1% del 2017. Ristagnano soprattutto i consumi (+0,2%), ancora al di sotto di 9 punti percentuali rispetto al Centro-Nord, dove crescono del +0,7%, recuperando e superando i livelli pre crisi. Debole il contributo dei consumi privati delle famiglie, con quelli alimentari che calano del -0,5%, in conseguenza alla caduta dei redditi e dell’occupazione. Ma soprattutto la spesa per consumi finali della PA ha segnato -0,6% nel 2018. Gli investimenti restano la componente più dinamica della domanda interna (+3,1% nel 2018 nel Mezzogiorno, a fronte di +3,5% del Centro-Nord). In particolare, crescono gli investimenti in costruzioni (+5,3%), mentre si sono fermati quelli in macchinari e attrezzature (+0,1% contro +4,8% del Centro-Nord). Alla ripresa degli investimenti privati fa da contraltare il crollo degli investimenti pubblici: nel 2018, stima la Svimez, la spesa in conto capitale è scesa al Sud da 10,4 a 10,3 miliardi, nello stesso periodo al Centro-Nord è salita da 22,2 a 24,3 miliardi. La forbice, dunque, continua ad allargarsi.

Il futuro è tutt’altro che roseo: la Svimez stima il Pil italiano a +0,9% nel 2018, + 0,2% nel 2019 e +0,6% nel 2020. In particolare, il Centro-Nord sarebbe al +0,9% nel 2018, al +0,3% nel 2019, al +0,7% nel 2020. Va peggio al Sud: nel 2018 l’aumento sarebbe del +0,6%, calerebbe a -0,2% nel 2019 e risalirebbe leggermente a +0,2% nel 2020. A pagarne la spesa sarebbe l’occupazione, che segnerebbe +0,9% quest’anno, +0,07% il prossimo e +0,30 nel 2020. Al Centro-Nord sarebbe +0,9% nel 2018, +0,13% nel 2019, +0,35% nel 2020. Al Sud +0,7% quest’anno, scenderebbe a -0,14 il prossimo per risalire a +0,14% nel 2020. Nel Sud la situazione non è omogenea: Abruzzo, Puglia e Sardegna nel 2018 sono cresciute tra l’1,2% e l’,1,7%, mentre nel Molise e in Basilicata il Pil è cresciuto del +1%, in Sicilia ha segnato +0,5%, in Campania è stato a crescita zero e in Calabria ha fatto registrare una flessione del -0,3%.

Dai dati della Svimez emerge anche l’allargamento del gap occupazionale tra Sud e Centro-Nord: nell’ultimo decennio è aumentato dal 19,6% al 21,6%. I posti di lavoro da creare per raggiungere i livelli del Centro-Nord sono circa 3 milioni. La crescita dell’occupazione nel primo semestre del 2019 riguarda solo il Centro-Nord (+137.000), cui si contrappone il calo nel Mezzogiorno (-27.000). Al Sud aumenta la precarietà che si riduce nel Centro-Nord, riprende a crescere il part-time (+1,2%), in particolare quello involontario che nel Mezzogiorno si riavvicina all’80% a fronte del 58% nel Centro-Nord.

Uno dei rischi maggiori per il Sud è la riduzione drastica della popolazione: dall’inizio del secolo a oggi la popolazione meridionale è cresciuta di soli 81 mila abitanti, a fronte di circa 3.300.000 al Centro-Nord. Nello stesso periodo la popolazione autoctona del Sud è diminuita di 642.000 unità, mentre al Nord è cresciuta di 85.000. Nel corso dei prossimi 50 anni il Sud perderà 5 milioni di residenti. Uno squilibrio che è accentuato dalla presenza degli stranieri: nel 2018 nel Centro-Nord sono 4,4 milioni, quasi l’11% della popolazione, e solo il 4,4% di quella meridionale. Nel 2018 si è raggiunto un nuovo minimo storico delle nascite, poco più di 439 mila, oltre 18 mila in meno rispetto al 2017. Nel Sud sono nati l’anno scorso quasi 157 mila bambini, circa 6 mila in meno del 2017. La novità è che il contributo garantito dalle donne straniere non è più sufficiente a compensare la bassa propensione delle italiane a fare figli. Il peso demografico del Sud continua a diminuire e ora è pari al 34,1%. In tutti gli scenari previsti, il Pil italiano, ipotizzando una invarianza del tasso di produttività, diminuirebbe nei prossimi 47 anni a livello nazionale da un minimo del 13% ad un massimo del 44,8%, cali di intensità differenti interesserebbero il Nord e il Sud del Paese: si ridurrebbero così le risorse per finanziare una spesa pubblica in aumento per il maggior numero di pensioni e per l’assistenza sociale e sanitaria.

Il Mezzogiorno continua a perdere giovani fino a 14 anni (-1.046 mila) e popolazione attiva in età da lavoro da 15 a 64 anni (-5.095 mila) per il calo delle nascite e la continua perdita migratoria. Il saldo migratorio verso l’estero ha raggiunto i -50mila nel Centro-Nord e i -22 mila nel Sud. “La nuova migrazione – si legge nel comunicato della Svimez – riguarda molti laureati, e più in generale giovani, con elevati livelli di istruzione, molti dei quali non tornano più. Dall’inizio del nuovo secolo hanno lasciato il Mezzogiorno 2.015 mila residenti, la metà giovani fino a 34 anni, quasi un quinto laureati. Un’alternativa all’emigrazione è il pendolarismo di lungo periodo, che nel 2018 dal Mezzogiorno ha interessato circa 236 mila persone (10,3% del totale). Di questi 57 mila si muovono sempre all’interno del Sud, mentre 179 mila vanno verso il Centro-Nord e l’estero”.

Le regioni meridionali sono agli ultimi posti in Europa per tasso di attività e occupazione femminile: “nel 2018 il Sud – evidenzia la Svimez – ha perduto ulteriore terreno, superata perfino da Ceuta e Melilla, dalla Guyane francese e dalla Macedonia. La bassa occupazione delle donne meridionali riflette anche la carenza di domanda di lavoro e ciò spiega perché il tasso di disoccupazione femminile al Sud sia intorno al 20% su valori più che doppi rispetto al Centro-Nord. La gravissima emergenza riguarda soprattutto le giovani tra 15 e 34 anni, che si sono ridotte di oltre 769 mila unità. Aumenta significativamente per le donne il part time (+22,8%) mentre cala il lavoro a tempo pieno (-1,3%). In particolare quelle occupate con part time involontario aumentano nel decennio di quasi 1 milioni pari a +97,2%. In aumento i lavoratori poveri (working poor), soprattutto al Sud: l’incidenza della povertà assoluta nel 2018 è cresciuta al Sud all’8%: nel caso in cui il capofamiglia occupato ha un contratto di operaio la quota di nuclei in povertà assoluta è salita nel Mezzogiorno al 14,7%”.

Al Sud sono scarsi i servizi a cittadini e imprese. La spesa pro capite delle Amministrazioni pubbliche è pari nel 2017 a 11.309 nel Mezzogiorno e a 14.168 nel Centro-Nord. Un divario che è cresciuto negli anni Duemila. Lo svantaggio meridionale è molto marcato per la spesa relativa a formazione e ricerca e sviluppo e cultura. Grave il ritardo nei servizi per l’infanzia. La spesa in istruzione in Italia si riduce con una flessione del 15% a livello nazionale, di cui il 19% nel Mezzogiorno e il 13% nel Centro-Nord. Prosegue l’abbandono scolastico, nel 2018 gli early leavers meridionali erano il 18,8% a fronte dell’11,7% delle regioni del Centro-Nord. Per di più al Sud il 56% delle scuole ha bisogno di manutenzione urgente.

“Nella fase più acuta della crisi – ricorda l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno – la base industriale meridionale si è assottigliata del 6%, con picchi superiori in alcune regioni. Per gli investimenti industriali, mentre nel Sud la crescita del periodo 2015-2018 è arrivata a malapena a recuperare poco più del 20% della caduta sofferta durante la lunga crisi, le regioni centro-settentrionali hanno messo a segno un recupero pari all’85%”.

Infine le Politiche di Coesione: sono stati accumulati troppi ritardi nell’attuazione del ciclo in corso 2014-2020. La maggior parte delle risorse europee da certificare sono concentrate in Campania, Puglia e soprattutto Sicilia. I pagamenti al Sud sono stati finora pari ad appena il 19,78% del totale. La spesa monitorata del Fondo Sviluppo Coesione, dove confluiscono le risorse finanziarie aggiuntive nazionali destinate al riequilibrio economico e sociale, è pari al 30 giugno 2019 a soli 37,6 miliardi, di cui realmente
pagato soltanto 1 miliardo. “Ciò – osserva la Svimez – dimostra un’evidente incapacità delle Amministrazioni centrali, regionali e locali, a utilizzare pienamente le risorse“.

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