La tragica presenza dei due conflitti lungo il margine euroasiatico, in Ucraina e in Medio Oriente, causati da due aggressioni, ha portato il dibattito sui limiti giuridici e morali della legittima difesa consentita all’aggredito per far fronte al violento aggressore. E si avverte, nel caso di un’aggressione scatenata da una nazione potente, o che conti su alleanze potenti, la tendenza verso una regressione dei limiti giuridici entro cui deve avvenire la legittima difesa da parte dell’aggredito, che può parare i colpi ma non contrattaccare, spegnere l’aggressione ma non sconfiggere o umiliare l’aggressore che, con tali lacci e laccioli imposti all’aggredito, beneficia di grandi vantaggi strategici.

Sembra che nel dibattito venga rimossa la considerazione che l’aggressione non è solo un problema dell’aggredito, ma dell’intera comunità internazionale, che vede la prepotenza collocarsi impunita ed impunibile al di sopra dell’ordine giuridico delle nazioni e della civile convivenza. E, diciamolo pure, la sfrenatezza dell’aggressore istintivamente suscita in molti un subliminale consenso, se non ammirazione per l’aggressione, della quale implicitamente si suppone una qualche giustificazione, mentre suscita disistima, se non dileggio, l’aggredito, meno accorsato e potente, a cui implicitamente si tende attribuire una qualche implicita colpa, anche per sollevarsi dal dovere di soccorrerlo. Di conseguenza, mentre a parole e teoricamente si condanna con orrore l’aggressore, si discetta molto sui limiti del diritto di difesa dell’aggredito, tanto da svantaggiarlo concretamente nello scontro che ingiustamente subisce, condannandolo ad essere di fatto sconfitto a causa dei lacci e laccioli che gli vengono imposti, per la speciosa ragione che, contrattaccando, diventerebbe lui stesso un aggressore.

Si pretende, pertanto, che la sua reazione sia rigorosamente solo difensiva, dovendo rendere solo inefficace l’aggressione, ma senza danneggiarlo oltre, neppure quando ciò è condizione ineludibile di una efficace difesa, che non può essere solo passiva per sventare gli attacchi, ma anche attiva per distruggere preventivamente la stessa capacità di attuarli. Si omette, così, anche la considerazione che quasi sempre è l’attacco la migliore difesa, e questa non deve essere negata all’aggredito in tutta la sua gamma strategica, ovviamente senza inutili eccessi, ma neppure legandogli le mani dietro la schiena. Soprattutto occorre considerare che impedendo all’aggredito di difendersi efficacemente per sconfiggere l’aggressore, gli si impedisce anche il suo dovere di contrastare l’aggressione in sé, come la peggiore malattia della convivenza, e, intimandogli di limitarsi nella difesa, lo si spinge verso un’implicita collusione con il suo aggressore, agevolandolo nella riuscita dell’atto illegale. Si dimentica poi che la vittoria nella difesa richiede, secondo l’antico ed efficace adagio, una misura anche eccedente di difesa: “a brigante, brigante e mezzo”, che è un monito non solo strategico, ma anche di sana ed immediata dissuasione, che spegne immediatamente i furori aggressivi. E soprattutto, si consente all’aggredito di assolvere al dovere di contrastare efficacemente l’illegalità della sopraffazione, non solo per evitare il proprio danno, ma anche per svolgere concretamente il dovere civico di deterrenza verso ogni fascinazione aggressiva.

Un aggredito ben munito e con tonica reazione sconfigge l’aggressore presente e scoraggia quello futuro, rinsaldando l’ordine giuridico e morale della convivenza. Abele, se si fosse procurato un robusto bastone, avrebbe piegato a miti consigli il fratello Caino, dissuadendolo dal delitto e salvando l’umanità dalla traccia genetica del fratricidio. L’aggredito, dunque, senza lacci e laccioli, deve apparire ed essere potente nel difendersi, per se stesso, ma soprattutto per solidarietà verso l’ordine internazionale e per esercitare una sufficiente deterrenza verso gli aggressori futuri. E’ un grave errore fare apparire più impellente imbrigliare la difesa, isolarla dal contesto di solidarietà, che sconfiggere l’aggressione, facendola beneficiare di considerazioni e blandizie assolutorie. Ed occorre che l’aggredito abbia la certezza, o con le sue forze o con gli aiuti internazionali, che egli sarà vincente, e la prepotenza dell’aggressore avrà la sua severa punizione. Se tale evidente funzione dissuasiva svolta dall’aggredito, che efficacemente si difende, rende la sua azione non solo un diritto individuale, ma anche un dovere sociale verso la collettività internazionale, ne consegue che tutte le istituzioni e le nazioni dovrebbero sostenere tale diritto-dovere dell’aggredito di sconfiggere, anche malamente, l’aggressore, perché ciò costituisca un forte monito, a futura memoria, che ogni aggressione verrà sempre stroncata, in quanto l’aggredito, sorretto da tutte le nazioni, senza avere le mani legate, debellerà l’aggressione ed umilierà l’aggressore, verso il quale è sempre pedagogicamente opportuna anche una buona dose di gogna planetaria, per espellere ogni attrattiva e lusinga dalle future tentazioni aggressive.

La difesa dev’essere anche immediata ed efficace, per impedire le numerose vittime del ritardo nei tentennamenti, o altrimenti è meglio non difendersi affatto, arrendersi subito e completamente, e proclamare, così, che chi può rubi ed aggredisca per ingrandirsi a piacimento, perché l’aggredito preferisce vivere da schiavo, ma non rischiare. La proporzionalità e gradualità imposte alla difesa non devono richiedere ritardi all’aggredito nel commisurare la sua reazione, offrendo con ciò vantaggi iniziali all’aggressore per provocare già morti e danni devastanti, che rappresentano obiettivi intermedi pur allettanti per lui. Né la comunità internazionale può lasciare l’aggredito al suo destino, prendendo tempo per decidere il concreto intervento solidale, perché la sconfitta, anche parziale, dell’aggredito darebbe comunque soddisfazione all’aggressore, introducendo a livello collettivo internazionale il ricorso a diffuse aggressioni e prepotenze seppur parziali, comunque convenienti e remunerative. Chi giustamente opta per la pace, come bene supremo, deve, nel caso dell’aggressione, porre il dovere di essa esclusivamente nella responsabilità dell’aggressore, che ha innescato un attivo processo di violenza, non si può, e non si deve, per la pace, disarmare l’aggredito perché sarebbe una pace scellerata. La pace è tale solo se è giusta, o altrimenti è il frutto di un’oppressione, e questa pone all’oppresso, per salvare la sua dignità, il dovere di ribellarsi anche con violenza.

Le enunciazioni che alimentano il dibattito, imponendo di non soccorrere l’aggredito, di non dargli aiuti armati, per non ampliare il conflitto, di limitarne il diritto di difesa per non trasformarlo in aggressore, sembrano voler offrire un qualche vantaggio all’aggressore vero e nascondono o una complicità occulta o una fiacchezza morale, che darà prospettive premiali a presenti e future sopraffazioni, perché chi oggi evita di farsi coinvolgere prepara le premesse per esserne vittima in futuro. Solo se si mette l’aggredito in condizione, con la solidarietà internazionale, di sconfiggere subito l’aggressore, si porrà un freno alle ulteriori tentazioni di sopraffazione, rendendo con ciò un forte servizio all’umanità futura, plasmata sul pacifismo della mitezza, capace però di imporsi, organizzando ed attuando, a livello internazionale, una ferma ed efficace deterrenza, non solo con misure punitive di natura economica, ma anche (e soprattutto) con efficaci dotazioni dissuasive armate, che debellino sul nascere severamente e tempestivamente ogni aggressione. E dunque, la difesa dell’aggredito va interamente difesa e fattivamente sostenuta da tutta la comunità internazionale.

(Foto di Dmytro Tolokonov su Unsplash)

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