La pandemia in cui siamo ancora immersi sta riplasmando il rapporto tra pubblico e privato con effetti a lungo termine difficili da decifrare: arduo è prevedere se, quando ci saremo lasciati alle spalle il pericolo del contagio e le conseguenti restrizioni dei comportamenti, l’equilibrio tra individuo e società ne uscirà alterato in modo irreversibile. Il settore pubblico è entrato in modo pervasivo nelle zone più recondite delle nostre vite, regolando persino i gesti più intimi e comprimendo la libertà di movimento, di relazione e d’impresa. Ci ha dunque tolto libertà? Il green pass obbligatorio e le altre limitazioni ancora in vigore stanno comprimendo il nostro spazio vitale? C’è chi lo pensa, appiattendo in tal modo l’idea di libertà su un concetto grezzo e puramente negativo, intendendola cioè soltanto come una continua “liberazione da-“, che non tollera vincoli di sorta imposti dall’esterno. A tale posizione si contrappone, spesso con sacrosanta veemenza, chi giustamente si appella a un principio cardine della modernità: “la mia libertà finisce dove comincia la tua”. Una considerazione di buon senso e tuttavia anch’essa criticabile: rischia infatti di confermare una visione negativa della libertà intesa come sviluppo verso l’esterno di un potenziale interiore di ciascuno, a cui è giusto porre un argine (ecco la differenza con i libertari senza se e senza ma) che consisterebbe appunto nel diritto degli altri cittadini a fare altrettanto. Più complesso ma più efficace sarebbe riuscire a far propria una concezione “relazionale” della libertà, del tipo: “la mia libertà non finisce ma, al contrario, comincia dove comincia anche la tua”.
Quel che è certo, comunque vada a finire il dibattito sulla libertà ai tempi del Covid, è che lo Stato ha fatto con prepotenza il suo ritorno nell’economia capitalistica in una proporzione che nessun economista, politico o scienziato della politica avrebbe mai potuto prevedere fino a poco più di un anno fa. Il 13 agosto scorso la Commissione Europea ha versato la prima tranche dei 191,5 miliardi del Next Generation EU previsti per finanziare il nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Si tratta di 24,9 miliardi, dei quali 8,9 di aiuti a fondo perduto e quasi 16 di prestiti che andranno a sostenere i 106 progetti indicati come il motore della fase 1. C’era un’attesa quasi messianica di questi soldi, che certificano tra l’altro un livello d’integrazione tra i paesi membri dell’UE impensabile prima della pandemia: persino la condivisione del debito (anche se per ora legato solo all’emergenza Covid) non è più un tabù per i “frugali” del nord Europa, persuasi (o costretti) dal cambio di rotta della Germania. Ora si passa ai progetti da rendicontare, per un tempo così lungo (fino al 2026) che sembra quasi incompatibile con il “cortotermismo” che affligge la politica contemporanea schiava del consenso e della sua estrema volatilità. Non è certo un caso che, nel nostro paese, questa fase nuova caratterizzata da una presenza inaudita del settore pubblico nell’economia coincida con un commissariamento de facto dei partiti e con il congelamento delle loro tradizionali incompatibilità nel nome di un sostegno traversale al governo Draghi. La questione è aperta: questa vicenda italiana significa dunque che un protagonismo del settore pubblico in simili proporzioni è, a sua volta, strutturalmente incompatibile con la normale dialettica politica tra partiti che si contendono il potere proponendo idee opposte e progetti alternativi? Lo vedremo. Indubbio è che il “ritorno dello Stato” rimarrà come uno dei lasciti principali del Covid 19, sul quale si sta concentrando da qualche tempo l’attenzione degli economisti di tutto il mondo.
Non a caso proprio a questo “ritorno” è stata dedicata, nel mese di giugno a Trento, la XVI edizione del Festival Economia. “Quando finalmente usciremo dall’emergenza sanitaria – dice il direttore scientifico del festival Tito Boeri – ci ritroveremo con uno Stato ipertrofico che ha invaso campi in passato riservati esclusivamente all’iniziativa privata”. Che fare dunque? “La fine della pandemia – dice ancora Boeri – può essere l’occasione per ridisegnare i confini dello Stato, rafforzare la sua presenza dove ce n’è maggiore necessità progettandone la ritirata altrove. Cosa deve fare il settore pubblico per i propri cittadini e cosa invece deve limitarsi unicamente a regolare e lasciare all’iniziativa privata? E come trattare il privato che non si limita a perseguire i propri interessi individuali o di impresa, ma che si organizza in comunità, in associazioni del Terzo settore, capaci di occuparsi del bene comune al pari, se non meglio, del settore pubblico?”.
Sui limiti di questa situazione emergenziale, ma anche sulle straordinarie opportunità che essa offre per ripensare o almeno correggere il nostro modello di sviluppo, dal 3 al 6 giugno si sono concentrati (presenti fisicamente a Trento o in collegamento virtuale) alcuni tra i più autorevoli economisti a livello mondiale. Dal turco naturalizzato statunitense Daron Acemoglu (nella top ten dei più citati al mondo dalla letteratura scientifica), che si è chiesto se il ritorno “del Leviatano” possa ancora agire da propulsore del progresso sociale, all’ex capo economista del FMI Olivier Blanchard, che si è concentrato sulla futura architettura fiscale europea dopo la sospensione del Patto di Stabilità e Crescita: l’alto livello del debito pubblico accumulato durante la pandemia, secondo Blanchard e altri relatori del Festival, renderà semplicemente impossibile, a fine pandemia, ritornare alle vecchie regole. Dunque, il nodo per l’economista francese è capire se e come riusciremo a passare da regole rigide a standard qualitativi di sostenibilità del debito.
Questa crisi, ha poi sostenuto nel suo intervento l’economista dell’University College of London Mariana Mazzucato, non va sprecata: non dobbiamo solo pensare come tornare alla normalità pre-Covid. “Da tempo politici, dirigenti di imprese ed esperti – questa la tesi che Mazzucato sostiene sin dall’inizio della pandemia – si lasciano guidare da un’ideologia che si concentra ossessivamente su misure statiche di efficienza per giustificare i tagli alla spesa, le privatizzazioni e le esternalizzazioni” Per questo molti governi si sono ritrovati a combattere a mani nude contro lo tsunami sanitario che le ha travolte. “Ed è proprio questa – ha affermato l’economista italiana naturalizzata statunitense – la grande lezione del Covid-19: la capacità di uno stato di gestire una crisi di grande portata dipende da quanto ha investito nella capacità di governare, fare e gestire, cioè di dare forma a mercati che producano una crescita sostenibile e inclusiva, finalizzata all’interesse pubblico”.
L’obiettivo principale che abbiamo oggi di fronte, è la tesi proposta al pubblico del Festival dallo storico dell’economia Gianni Toniolo, è riprendere in mano “la più grande innovazione sociale del ventesimo secolo”, e cioè il Welfare State, aspirando a quello stato sociale universalistico disegnato per la prima volta nel glorioso “rapporto Beveridge”, concepito nel 1942 in una Londa devastata dalle bombe tedesche nella quale c’era chi, come il grande economista britannico, riusciva già a pensare alla ricostruzione post-bellica. “La spesa sociale – ha sostenuto Toniolo nella sua lectio trentina – si è consolidata tra il 1945 e il 1980, con una struttura demografica relativamente giovane, un’economia centrata sulla grande fabbrica manifatturiera, l’impiego stabile, spesso tenuto per tutta la vita lavorativa, una tecnologia che non richiedeva una grande diffusione dell’istruzione terziaria, un sindacato forte, tendenzialmente unitario”. Oggi però, ha ribadito il docente della Luiss, la situazione è molto diversa: la spesa deve rispondere alle esigenze di una società e di un’economia assai più complessa. “Le tecniche digitali richiedono al lavoratore una formazione molto maggiore, l’apertura internazionale e le nuove catene del valore creano opportunità che il welfare deve aiutare a cogliere e rischi che deve attenuare”. Non è dunque solo una questione di quantità di denaro speso nel welfare. Contano i criteri di spesa e la logica di fondo che, per Toniolo, non può che ispirarsi proprio al modello universalistico tipico delle società scandinave, basato su benefici estesi a tutti i cittadini e non, come accade per lo più nei sistemi dell’Europa continentale, sul lavoro e sulla divisione tra interessi di molteplici categorie sociali. Il caso italiano è emblematico in tal senso: “benché la quota del Pil italiano assorbita dalla spesa sociale sia tra le più elevate in Europa –sostiene infatti Toniolo – il nostro sistema di welfare non è stato in grado di impedire un aumento della povertà assoluta che non ha uguali tra i grandi paesi europei. Lo stato sociale italiano non favorisce, mitigandola, l’assunzione dei rischi necessaria a sfruttare al meglio le opportunità dell’economia contemporanea”. La lezione di Toniolo, tra le più incisive tra quelle che ho avuto la fortuna di ascoltare nei giorni trentini, è chiara: dobbiamo investire più denaro pubblico nell’istruzione. Non è accettabile che la seconda potenza manifatturiera europea, paese fondatore dell’UE, abbia una popolazione tra le meno istruite in occidente, con una percentuale di giovani laureati lontanissima dalla media continentale. Questa è la chiave di volta per un ritorno dello stato che non ci induca a voltare le spalle al futuro bensì, al contrario, ci spinga ad affrontarlo a viso aperto e senza paura.