Tra il 2005 e il 2006, nei villaggi nebbiosi di Totnes, a sud-ovest del Regno Unito, e di Kinsale, in Irlanda, prendono vita i primi movimenti di «transizione ecologica» al suono dello slogan «pensare globalmente, agire localmente». Questi piccoli gruppi di azione, nati con l’obiettivo di preparare le comunità ad affrontare la doppia sfida del riscaldamento globale e del picco del petrolio, in verità erano già il primo risultato di un processo evolutivo che attingeva alle riflessioni emerse nel 1972 con il Rapporto Meadows. Lo studio in questione, pubblicato da Donella Meadows e realizzato grazie al MIT, offre un’analisi dei possibili rischi ecologici determinati dalla rapida crescita economica e demografica mondiale, e sottolinea la necessità di una «transizione da un modello di crescita a uno di equilibrio globale». Il suo merito è certamente stato quello di aver introdotto il concetto di limite nello sviluppo economico ed aver incentivato l’uso delle fonti energetiche rinnovabili o alternative alle risorse fossili.
Poi, sul finire degli anni ’80 il rapporto Brundtland raccomandava «la transizione verso uno sviluppo sostenibile», cioè la necessità di un cambiamento necessario nel modo di sfruttare le risorse, nel tipo di investimenti, nell’orientamento dello sviluppo tecnologico e nei cambiamenti istituzionali coerenti con i bisogni futuri oltre che con quelli contemporanei.
Negli anni a venire il concetto di sviluppo sostenibile è stato accompagnato a termini quali: l’autoproduzione, l’economia circolare, la crescita verde, quindi a quelle possibili strategie di transizione ecologica, basate soprattutto sull’etica della responsabilità, per affrontare la sfida del cambiamento climatico e il benessere dell’umanità.
Cosa succede nell’Unione europea?
In Europa il percorso da fare dovrebbe essere comune ai 27 paesi dell’UE, tuttavia ognuno di questi ha approcci diversi alle politiche ecologiche ed una politica energetica differente. Per la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il Green Deal è un mantra, oltre che una condizionalità inserita nel Recovery Fund, e l’obiettivo è quello che punta alla «neutralità climatica» (azzeramento delle emissioni di CO2) entro il 2050.
Nei Paesi Bassi, all’inizio degli anni 2000, vengono avviate le prime ricerche sull’innovazione sistemica o sociotecnica dei modelli energetici della transizione ecologica e la questione viene affrontata in termini di processo trasformativo “da un regime di equilibrio a un altro”.
In Francia, la nozione di transizione ecologica ed energetica è stata introdotta a partire dal 2012, con la creazione del Consiglio Nazionale di Transizione Ecologica, rafforzata quindi dalla legge del 2014 relativa alla transizione energetica per la crescita del verde e dalla Strategia Nazionale di Transizione Ecologica verso lo Sviluppo Sostenibile degli anni 2015-2020. Quella francese è una visione che tende a rilocalizzare l’economia, soprattutto la produzione e il consumo, per ridurre al minimo la dipendenza da combustibili fossili, per ripensare i territori, le governance, i legami sociali. Dal 2020 il ministero dell’Ambiente, poi divenuto dell’Ecologia, è stato ribattezzato Ministero della Transizione ecologica ed è guidato da Barbara Pompili. La mission del Dicastero ruota su alcuni assi portanti che comprendono: ambiente, sviluppo sostenibile, tecnologie verdi, transizione energetica, energia, clima, prevenzione dei rischi naturali e tecnologici, sicurezza industriale, dei trasporti e delle infrastrutture. Di fatto, si tratta di competenze trasversali che sottolineano l’importanza di un’economia basata sulla sostenibilità.
In Spagna, il vecchio Ministero dell’ambiente ormai si chiama Ministero per la Transizione ecologica e la Sfida demografica (Miteco). Anche in questo caso, come accade in Francia, le competenze riguardano sia le materie strettamente ambientali che economiche. Dal 2020 è guidato dalla socialista Teresa Ribera Rodriguez, che si occupa di lotta al cambiamento climatico, prevenzione delle contaminazioni, protezione del patrimonio naturale, della biodiversità, dei boschi, del mare, dell’acqua verso la transizione energetica a un modello produttivo e sociale più ecologico, attendo alle questioni demografiche e di spopolamento dei territori. Due sono i principali obiettivi assunti al momento dell’insediamento nel 2018: portare al Congresso una legge sui cambiamenti climatici ed elaborare un piano energetico fino al 2028.
Tra i paesi che fanno parte dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), la Svezia risulta leader nella transizione energetica grazie a politiche di mercato che si concentrano sull’efficienza energetica e sulle energie rinnovabili, oltre che sulla tassazione delle emissioni di CO2, che sembra aver contribuito a guidare la decarbonizzazione in diversi settori. Nel 2020 la Svezia ha avuto un bilancio “verde” stimato in 65 punti percentuali di differenza tra la produzione di energia elettrica derivante da risorse rinnovabili (67,6%) e quella proveniente da combustibili fossili (2,2%), assicurandosi dunque il primato europeo e facendo meglio anche dell’Austria, che si “ferma” a 58,5 di delta tra le due categorie esaminate (rispettivamente 79,3% e 20,7%). Gli obiettivi ambiziosi che si è data la Svezia puntano a zero emissioni nette entro il 2045 e ad una produzione di elettricità rinnovabile al 100% entro il 2040, obiettivi su cui l’IEA chiede di valutare attentamente la effettiva raggiungibilità nonché le implicazioni per la stabilità della rete e la sicurezza dell’approvvigionamento.
La Danimarca, terza per la differenza in punti percentuali (56,4), è forse l’esempio più lampante di come sia possibile compiere una transizione significativa anche nell’arco di soli venti anni, considerando che all’inizio del millennio il valore era pari a -69,1 per via di un impatto dei combustibili fossili responsabile dell’84,5% percento della produzione elettrica, ridotto invece a poco più del 20% nello scorso anno.
Al contrario, Paesi come Malta – caratterizzata dalla peggior differenza in termini percentuali pari a -79,8 – a cui poi fanno seguito Cipro (-77,6) e Polonia (-66,2), sono gli unici tre casi con disavanzo superiore ai cinquanta punti percentuali.
La situazione italiana
Ma veniamo all’Italia, che in questo contesto si colloca circa a metà di una ipotetica classifica dei Paesi UE, a fronte del 56,8% di energia elettrica prodotta da combustili fossili e del 43,2% derivante da risorse rinnovabili. Di contro, per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 fissati dalla Commissione Europea al 2030, bisognerà portare il 70% circa di fonti rinnovabili sulla rete elettrica, mentre l’attuale Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) prevede solo il 55%.
A conti fatti, la transizione va letta ed interpretata come una riconfigurazione e trasformazione culturale a tutti i livelli ed in tutti i settori, che coinvolge le fonti energetiche, l’agricoltura e l’economia circolare, la mobilità, la tutela dell’ambiente, della biodiversità e dell’intero ecosistema. In questa direzione, sembra dirigersi l’attuale Governo Draghi con l’istituzione sinergica di due nuovi Dicasteri, strettamente interconnessi: il Ministero per la Transizione ecologica (terreno fertile per le politiche ambientali, energetiche, della mobilità sostenibile) e il Ministero della transizione digitale (per lo sviluppo innovativo e sostenibile della digitalizzazione al servizio dell’umanità, dell’ambiente e dell’economia).
Vieppiù, il parlamento italiano sta discutendo sull’inserimento del concetto di sviluppo sostenibile all’interno della Costituzione, a seguito di alcune proposte di legge di riforma costituzionale, depositate in Senato tra il 2018 e il 2019, e che puntano tutte a modificare uno o più articoli della costituzione. In particolare, quella presentata dai senatori Collina, Marcucci, Ferrari e Ferrazzi nel 2018 chiede la modifica degli articoli 2 e 9 che riguardano i principi fondamentali, e l’articolo 41, compreso nella parte che regola i rapporti economici, che nella nuova versione diventerebbero:
- Articolo 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale anche nei confronti delle generazioni future.
- Articolo 9: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Riconosce e garantisce la tutela dell’ambiente come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Promuove le condizioni per uno sviluppo sostenibile.
- Articolo 41: L’iniziativa economica privata è libera. Essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e di sviluppo sostenibile.
Va ricordato che la Costituzione menziona già “la tutela dell’ambiente” oltre che “dell’ecosistema” come materia di esclusiva competenza dello Stato (art. 117, c.2, lettera s), pur se all’art. 9 i Costituenti utilizzarono la parola “paesaggio”, con un’accezione evidentemente più estetica che legata al rapporto tra individuo e natura. Sappiamo che le parole si muovono ed evolvono, ed infatti negli anni 70, quando i problemi di inquinamento sono entrati a pieno titolo nelle agende politiche e l’ambientalismo è divenuto parte della coscienza collettiva, il “paesaggio” è divenuto “forma del Paese” ed in quanto tale “forma sensibile dell’ambiente” e del territorio da tutelare. Oggi non è in pericolo soltanto il patrimonio naturale, bensì c’è un rischio più esteso, più complessivo che si proietta sul futuro, in quanto la tecnologia consente di fare scelte che potranno condizionare in modo irreversibile le generazioni future. Poiché oggi – per citare Michele Ainis – l’egoismo dei diritti sta offuscando la cultura dei doveri, sembra che la soluzione possibile sia una ulteriore garanzia costituzionale a tutela dei diritti delle generazioni future. L’hanno fatto altri Paesi, come il Brasile, eppure l’Amazzonia brucia.