Le cifre sono ormai note. Un miliardo e 300 milioni di fondi pubblici per salvare Banca Carige. Tanto stanzia per il 2019 il comma 1, dell’articolo 22 del decreto legge 1/2018, approvato lo scorso 7 gennaio dalla riunione-lampo del Consiglio dei Ministri e già firmato dal presidente Mattarella. Fondi, messi a disposizione del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che serviranno a garantire (fino a un massimo di 3 miliardi) le nuove obbligazioni, emesse dalla banca ligure nelle prossime settimane, e a sottoscrivere fino a 1 miliardo di nuove azioni, in caso di ricapitalizzazione precauzionale.

Un intervento che ricalca, nelle parole e nella sostanza, quanto previsto dal decreto varato nel 2016 dal governo Gentiloni per salvare Mps.

 

“Missione fallita dal momento che, come dimostra il fact-checking di Riccardo Saporiti su Wired, solo due dei dieci punti di Di Maio sono parzialmente veri, mentre gli altri otto sono falsi o rinviano a eventi futuri dei quali lo stesso governo non può definire l’esatta evoluzione, poiché dipendono o da scelte del mercato o dalle trattative con Bruxelles.

 

Vengono così smentiti due (punto 1 e punto 7) degli ormai famosi dieci punti con i quali, sul Blog delle Stelle, il vicepremier Luigi Di Maio cercava di spiegare in che modo i provvedimenti del governo Conte fossero diversi da quelli dei suoi predecessori. Missione fallita dal momento che, come dimostra il fact-checking di Riccardo Saporiti su Wired, solo due dei dieci punti di Di Maio sono parzialmente veri, mentre gli altri otto sono falsi o rinviano a eventi futuri dei quali lo stesso governo non può definire l’esatta evoluzione, poiché dipendono o da scelte del mercato o dalle trattative con Bruxelles.

 

La crisi di Carige

Il 2 gennaio 2019 è la data simbolo della “nuova” crisi di Carige: sospensione del titolo in borsa e commissariamento da parte della Bce, con l’ingresso della banca in amministrazione straordinaria. La crisi viene, tuttavia, da lontano.

È il 2014 quando l’istituzione di credito ligure non supera gli stress test della Banca centrale europea ed è costretto a ricorrere al mercato. Servono 850 milioni di euro per coprire gli 814 milioni di buco patrimoniale evidenziati dalla vigilanza. Inizia, così, l’era Malacalza, il nuovo socio forte della banca che a maggio 2015 acquisisce dalla Fondazione Carige il 10,5% delle quote azionarie, fino ad arrivare al 27,5% dopo gli aumenti di capitale degli ultimi anni. È di febbraio 2018, invece, l’ingresso con il 5,4% di Mincione, non sufficiente a stemperare le difficoltà finanziarie e patrimoniali della banca, acuite anche dallo scontro tra i vertici aziendali e il socio di maggioranza relativa.

È storia degli ultimi giorni – 22 dicembre 2018 – il rifiuto di Malacalza di contribuire al nuovo aumento di capitale, necessario a compensare la svalutazione di 250 milioni di euro di crediti in sofferenza e l’intervento per 320 milioni del Fondo di garanzia interbancario. La decisione della Bce è stata conseguenza di questo stallo e il decreto del governo è un intervento tempestivo per evitare che la situazione potesse degenerare, come avvenuto in passato per Etruria e le altre tre banche poste in liquidazione coatta amministrativa.

 

I due decreti a confronto

Sono proprio i tempi di intervento a segnare la distanza tra il decreto salva banche del governo Gentiloni e quello salva Carige del governo Conte. La comparazione effettuata tra i due testi da diversi organi di stampa evidenzia come i decreti siano quasi sovrapponibili, a marcare la differenza tra il primo e il secondo è il terreno di applicabilità: il testo elaborato nel 2016 per salvare Mps e le banche venete è un testo-quadro, che si rivolgeva alle crisi dell’intero sistema bancario; mentre il decreto approvato a inizio gennaio è tagliato sulla situazione di banca Carige.

“Identici sono, soprattutto, i passaggi che prevedono la “condivisione degli oneri” da parte degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati in caso di intervento dello Stato (il cosiddetto burden sharing)

Identici sono, soprattutto, i passaggi che prevedono la “condivisione degli oneri” da parte degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati in caso di intervento dello Stato (il cosiddetto burden sharing), proprio perché non muta il quadro di riferimento normativo europeo. Ed è proprio questa circostanza a smentire nuovamente il vice-premier Di Maio, quando afferma che “Non sarà come Etruria perché salviamo tutti gli obbligazionisti e correntisti”.

 

Modello Mps o banche venete?

Secondo gli analisti economici e gli stessi commissari di Carige non sarà necessario l’ingresso dello Stato tra gli azionisti della banca, poiché la predisposizione del piano industriale e la collocazione sul mercato dei crediti deteriorati dovrebbero portare all’individuazione di uno o più investitori privati.

“È, quindi, prematuro parlare di nazionalizzazione. Manca il piano industriale, manca il partner privato, manca la discussione e l’eventuale avallo della Commissione, senza il quale il Mef non potrà intervenire.

Eppure, nonostante queste rassicurazioni, diversi esponenti del governo – da Giorgetti a Di Maio – hanno parlato a più riprese di nazionalizzazione della banca. Un’ipotesi che avvicinerebbe il caso Carige a quello di Mps, dove lo Stato è entrato “a tempo” nell’azionariato della banca con il supporto di Generali, conditio sine qua non per ricevere il nullaosta all’intervento da parte della Commissione.

E fu proprio l’assenza di un partner privato a rendere impossibile l’applicazione del modello Mps alle banche venete. Non ci furono, dunque, due pesi e due misure, né si configura una disparità di trattamento tra Carige e le popolari venete, ma soltanto la mancanza di fiducia da parte di investitori privati che avrebbero dovuto partecipare, insieme al Mef, all’aumento di capitale di Pop Vicenza e Banca Veneto, rilevandone le azioni.

È, quindi, prematuro parlare di nazionalizzazione. Manca il piano industriale, manca il partner privato, manca la discussione e l’eventuale avallo della Commissione, senza il quale il Mef non potrà intervenire.

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