Pubblichiamo l’intervento di Giorgio Panizzi (vice presidente del Circolo Fratelli Rosselli), in occasione del 97esimo anniversario dell’omicidio di Giacomo Matteotti, assassinato da una squadra fascista il 10 giugno del 1924.
(Roma, Lungotevere Arnaldo da Brescia -10 giugno 2021)

Giacomo Matteotti doveva essere una persona simpatica. Quando l’hanno ammazzato aveva 39 anni, un ragazzo. Lasciava la moglie, Velia Titta, più giovane di lui di cinque anni, e tre bambini piccoli: Giancarlo di sei anni, Matteo di tre e Isabella di due. Aveva la sua vita che gli consentiva di viaggiare non solo per studio. Aveva conosciuto Velia, sorella del baritono Titta Ruffo, in vacanza all’Abetone. Del suo rapporto con Velia ci ha dato una interessante descrizione Alberto Aghemo, consultando le ‘carte di Matteotti’. Ne traspare un rapporto affettivo rilevante. Dalle carte appaiono anche i vezzeggiativi con cui chiamava i figli. La corrispondenza con Velia a noi pervenuta ci restituisce un Matteotti passionale, amante della vita, dell’arte, della musica, viaggiatore sempre curioso. Se poi consideriamo gli incontri frequenti di Matteotti, in tutte le sedi possibili, con contadini e braccianti e con agrari che capivano i pericoli di una guerra e poi del fascismo, si deve dedurre che esercitasse un fascino e un carisma non solo per la sua competenza ed erudizione ma nel saper trattare con i suoi potenziali elettori, a prescindere dal loro status sociale ed economico. Però noi lo celebriamo nell’anniversario della Sua morte. Il ricordo che ne facciamo e la data che celebriamo si riferiscono a un aspetto qualificante della personalità e della cultura di Matteotti. Nella storia il 10 giugno del 1924 segna il carattere empio del fascismo che verrà sancito da Mussolini nel suo discorso alla Camera il 3 gennaio successivo, quando si arroga la responsabilità morale e politica dell’assassinio di Giacomo Matteotti. L’avversione di Mussolini e dei fascisti contro Matteotti non era solo per la sua veemente azione in Parlamento, nei consigli comunali, nelle manifestazioni per la libertà e per il lavoro, nella presenza costante in tutte le manifestazioni antifasciste, che gli costarono anche percosse e torture da cui difficilmente si poteva uscire vivi.

Matteotti era temuto dai fascisti perché aveva compreso il fascismo.
Ne aveva riconosciute le origini nello scontento e nelle richieste sociali
ma ne aveva contestato il rimedio basato sulla violenza, sulla corruzione, sulle forme autoritarie e prepotenti e sulle alleanze con gli agrari che sfruttavano il lavoro e umiliavano i lavoratori, non solo nei rapporti sindacali ma soprattutto per le condizioni di vita in cui volevano costringerli. La comprensione dell’avversario, per poterne contestare e se possibile sconfiggere le sue prevaricazioni, non deriva – e non derivava per Matteotti – da una geniale e contingente osservazione ma da una
comprensione della società e dei momenti che la caratterizzano e, soprattutto, dalle indicazioni per trovare soluzioni ai problemi che ne minano il vivere pacifico e la capacità di progresso. Viene qui in evidenza una caratteristica di Matteotti che ci perviene come monito e come esempio da seguire: la responsabilità del sapere. Matteotti studiava, viaggiava, imparava le lingue e la sua vita si sarebbe svolta nelle aule accademiche e negli studi, in particolare sul diritto penale. Però la conduzione dell’azienda agricola familiare lo metteva a diretto contatto con le esigenze dei lavoratori e con la necessità di un governo delle istituzioni che consentisse crescita e sviluppo economico, lavoro e condizioni di benessere per tutti. Il contesto sociale dell’epoca portava a rivendicare uguaglianza e giustizia e nella sua famiglia erano espresse ed evidenziate le propensioni verso il socialismo.

La sua condizione umana e i suoi studi lo avevano portato all’impegno politico. La costatazione delle condizioni avverse della realtà lo spinsero a ricercare soluzioni per la ricerca dell’eguaglianza e del benessere e la difesa della libertà con un impegno graduale, pragmatico, riformista. Queste soluzioni non potevano prescindere dalla ricerca di una garanzia di un lavoro dignitoso per tutti e dalla rappresentanza di tutti i lavoratori, di tutti i cittadini nelle istituzioni. Quindi le sue conoscenze, il suo sapere dovevano spingere alla assunzione di responsabilità civiche. Non si deve dimenticare che sin dalla fondazione del Partito Socialista, Anna Kuliscioff aveva indicato che il lavoro e la rappresentanza ne fossero i pilastri. E Matteotti istintivamente inizia a rappresentare quelle esigenze, come le leggi elettorali del tempo permettevano. Inizia la sua opera di persuasione per ottenere riconoscimenti e diritti ai lavoratori del suo Polesine e viene eletto, era possibile, in più amministrazioni comunali e impegna la competenza che gli deriva dagli studi nell’esigenza di amministrazioni corrette ed efficaci e, insieme a queste, l’esigenza di pace poiché l’esperienza storica e la guerra incombente facevano facilmente presagire sacrifici di vite umane, selezionate massimamente tra lavoratori e braccianti. Per le sue avversioni all’entrata nella guerra 1915/18 – nonostante fosse unico figlio maschio di madre vedova – fu arruolato d’imperio ma mandato a Messina – dove Velia lo andava a trovare – poiché al fronte avrebbe potuto ‘sobillare’ i fanti destinati alla morte. Fu congedato nel 1919 e, ancora più convinto delle sue idee e della necessità della sua azione, ricominciò la sua attività politica: militante del Partito Socialista, Amministratore locale, infine Deputato.

Si comincia così a rispondere al perché della sua commemorazione. C’è una vita, c’è un pensiero, c’è un’azione. Matteotti è un socialista riformista: non crede nei cambiamenti violenti e rivoluzionari, bensì in quelli più democratici da realizzarsi gradualmente nelle amministrazioni locali e nell’impegno sindacale e politico. Dimostra di essere un amministratore competente e un abile organizzatore sia nell’attività politica, sia nel suo pubblico servizio. Come lo descrive Carlo Rosselli – che 13 anni dopo, insieme al fratello Nello, il 9 giugno, fu ammazzato a tradimento dai fascisti -, al di sopra di ogni altra cosa metteva il pensiero pratico, lo studio concreto della realtà e i numeri e i documenti che la descrivevano. Nella tragica scissione del 1921 sta con Filippo Turati. Però durante il Congresso del Partito Socialista corre a Ferrara dove i fascisti stanno aggredendo i socialisti e i cittadini antifascisti. Mostra quindi la necessità dell’azione e fa mettere anche lui in evidenza come proprio in quel Congresso l’attenzione alla società e alla minaccia del fascismo passarono in secondo piano ancorché scandite dalle ronde fasciste intorno ai teatri e da un opprimente servizio di ordine pubblico. Poco dopo l’elezione, pur essendo un giovane deputato ancora sconosciuto, cominciò ad intervenire in Aula anche in occasioni importanti.

Senza timori reverenziali, nei suoi discorsi alternava ragionamenti e
ironie, battute e analisi che rivelarono una disinvoltura da veterano e lo imposero all’attenzione generale
. L’ultimo discorso alla Camera, contro i brogli elettorali dei fascisti, lo fece ‘a braccio’, all’improvviso, come all’improvviso i fascisti volevano e ratificarono i risultati delle elezioni truffaldine Quando al termine del discorso si rivolge ad alcuni deputati con quella frase: “Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me” credo che usasse un tono sarcastico. Anche per sottolineare con modestia il discorso che aveva appena pronunciato. Una vera e propria arringa. Questi criteri, questi principi di pensiero e azione, ritornano nella nostra memoria quando, a 75 anni dalla Sua proclamazione costatiamo – come recita la Costituzione -, che la Repubblica è fondata sul lavoro e che la sovranità appartiene al popolo. Ecco una risposta da dare al perché di questa commemorazione dopo 97 anni e perché di tante commemorazioni analoghe a tanti anni di distanza. Di molti personaggi illustri ricordiamo le date degli avvenimenti luttuosi e dolorosi. Conosciamo però poco di queste persone e forse nemmeno ne ricordiamo i nomi se non ci poniamo qualche volta qualche interrogativo se vediamo il nome sulla targa di una strada o su una lapide: Matteotti, Gramsci, Gobetti, Arnaldo da Brescia, Filangieri, Fratelli Rosselli, Bruno Buozzi, Saverio Tunetti, Fratelli Archibugi, Eleonora Pimentel, Iris Versari, le Dieci Donne del Ponte di Ferro. Oppure se vediamo quei volenterosi che ne ripuliscono i monumenti, come gli studenti americani della Temple University che curano questo Monumento e per questo li ringraziamo e ringraziamo i docenti colti e
sensibili.

Chi rappresentavano, chi rappresentano questi nomi illustri? Uomini e donne illustri vengono per lo più celebrati e commemorati per l’anniversario della loro morte ma si tralasciano, se non per gli studiosi, per gli storici, lo studio delle loro personalità, lo svolgere della loro vita,
l’origine del loro impegno. Di costoro, come di Matteotti, possiamo ricordarne le gesta che hanno portato agli episodi estremi ma dobbiamo rivisitarne e ricordarne il pensiero. È quel pensiero che, superando i nostri ricordi, costituisce la nostra memoria, costituisce la nostra cultura. I nomi ci facilitano la costruzione e la persistenza della memoria. Il loro ricordo, i ricordi delle loro gesta sono però fallaci. La memoria invece persiste e si evolve in una percezione di senso che, anche inconsapevolmente, presidia le nostre azioni. Non omnis moriar, aveva detto Matteotti: forse morirò, ma non moriranno le mie idee. Oggi dell’assassinio di Matteotti, del suo pensiero, delle sue idee, dei suoi discorsi ne possiamo solo leggere nei libri. Però sono idee che dalla cultura contemporanea vengono elaborate e, a prescindere dalle citazioni degli autori e dai ricordi, costituiscono la memoria della nostra civiltà. Non sono idee accettate universalmente, ma sono quelle che connotano le azioni mirate alla libertà, alla pace e al benessere. Matteotti non voleva la morte. Nessuno di coloro che lottano per la libertà e la giustizia vuole la morte. Per tutti noi la vita è il bene irrinunciabile. Quando si inneggia alla morte vuol dire che si vuole l’odio.

Voglio ancora sottolineare che tutti coloro che nelle lotte per la libertà,
in qualunque epoca, sottostavano e resistevano a supplizi e torture non
lo facevano per morire ma per salvare le vite, le vite degli altri
. Ci sono moltissimi esempi che confermano questa mia convinzione. Ulisse, nel Libro XI dell’Odissea incontra nell’Ade Achille. Lo esalta o cerca di esaltarlo dicendogli che come prima era stato condottiero ed eroe dei vivi ora è lì, riverito tra i morti. Achille però gli risponde che preferirebbe essere un villico, un bifolco, ma vivo. Certo se leggiamo di Orazio “dulce e decorum est pro patria mori” dobbiamo capirne il senso, contestualizzarlo in quella cultura per cui il diritto a fare la guerra era un diritto di censo, difesa e affermazione del proprio status. La guerra è inumana. È dolorosa. Per chi muore e per chi resta. La vita è il bene supremo che bisogna difendere e migliorare. Lo abbiamo visto e lo vediamo in questa pandemia. Gli atteggiamenti spavaldi non danneggiano solo chi li esprime, danneggiano tutti.

Matteotti non esaltava la morte. Aveva visto come i fascisti ammazzavano. Lui stesso era stato malmenato e aveva resistito. Sfidare la morte spesso vuol dire farlo per salvare altre vite. Certo, Orazio declama anche “non omnis moriar”, non morirò interamente. Anche Matteotti afferma che le sue idee permarranno anche dopo la sua morte. Inneggia alle sue idee, al socialismo per la libertà, come si diceva una volta. Matteotti doveva anche essere simpatico poiché se si vanno a rivedere le sue gesta prima dell’esperienza parlamentare, quando incitava i contadini socialisti a essere rappresentanti dei loro concittadini nei consigli comunali per formare così una classe dirigente, non poteva non solidarizzare con loro, giovane tra i giovani, con l’allegria propria dell’età. Con quell’allegria che alleggerisce il peso degli impegni e delle fatiche e che sprona alla speranza. Ecco, vorrei che Matteotti fosse ricordato così e che gli storici e i biografi accertino questa sua esperienza giovanile. Non solo per lui. Per tanti altri che come lui sono stati trucidati e assassinati da chi non tollerava il contrasto, il dissenso e bramava prepotente il potere. Avevano intrapreso l’impegno politico per mettere a disposizione della società le proprie competenze.

In sintesi trarrei dall’esempio di Matteotti, oltre al valore della vita e
della lotta per la libertà, l’etica della responsabilità
. La responsabilità del sapere, l’impegno per la società che non contraddice le aspirazioni personali anzi le qualifica in un lavoro creativo, in quel lavoro dello spirito che qualifica i destini professionali e dà ragione alla vita. Insieme a quest’etica voglio sottolineare l’impegno di Matteotti nel cimentarsi per ottenere gradualmente progressi nella società in un equilibrio delle opinioni e del tempo necessario per affermarli. Un criterio, un atteggiamento, un metodo che oggi chiamiamo riformismo. E se questi ricordi, queste commemorazioni, vengono celebrati negli anniversari della morte non devono esserlo per una esaltazione della morte ma della vita, poiché coloro che commemoriamo sono morti per la vita.

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