Intervista a Sergio Iavicoli – Direttore dipartimento medicina, epidemiologia, igiene del lavoro ed ambientale dell’Inail

Gentile direttore, iniziamo con la domanda che tutti gli italiani si stanno ponendo in questi giorni: cosa accadrà il 4 maggio?
Le decisioni le prende il governo, come avviene sempre. Noi come tecnici stiamo offrendo pareri, analisi e il monitoraggio della curva epidemica, che viene effettuato dall’Istituto Superiore di Sanità e con il quale collaboriamo sugli aspetti occupazionali e sull’impatto sui lavoratori. Una cosa è certa: l’obiettivo è mantenere l’epidemia sotto i livelli di diffusione. L’indice di contagio R0, che determina il rischio di contagio, in questo momento è sotto soglia, sotto l’1. Vuol dire che ogni persona infetta contagia mediamente meno di un’altra persona. Un dato significativo se si pensa che all’inizio dell’epidemia avevamo valori molto più alti, anche del 2,7. Gli sforzi di queste settimane ci hanno consentito di scendere sotto soglia. Ora dobbiamo assolutamente rimanere sotto i livelli ed evitare di andare di nuovo sopra soglia.

Avete lavorato ad una classificazione del rischio per le diverse attività lavorative. Quali sono stati i criteri adottati?
Abbiamo dato tre parametri di valutazione del rischio, cercando di parametrizzare secondo modelli internazionali che abbiamo adottato. Le variabili sono tre: l’esposizione, vale a dire la probabilità di venire in contatto con fonti di contagio; la prossimità, ovvero come è organizzato il lavoro, quanto i lavoratori necessitano di lavorare poco distanziati; infine l’aggregazione, cioè il contatto con altri soggetti, oltre ai lavoratori dell’azienda. Ci sono lavori, ad esempio, che per loro natura non prevedono nessuna esposizione, o addirittura vietano la presenza di estranei, come avviene nei cantieri. Altri, per loro natura, sono destinati al contatto con il pubblico, come la ristorazione, il commercio, l’alberghiero, l’istruzione. In un crescendo di aggregazione abbiamo poi gli eventi, i concerti, ecc. È ovvio che la valutazione per categorie lavorative o per settori produttivi può essere cambiata, non è una mappatura a priori, e soprattutto non esiste una tabella dei buoni e dei cattivi. Nella valutazione del rischio si mettono in evidenza possibili criticità e si danno dei warning per capire dove porre l’attenzione per mitigare il rischio. Noi offriamo degli elementi tecnici, poi sta al governo introdurre altre variabili, come quelle economiche e produttive. Ci sono attività più semplici, come l’industria del manifatturiero, che ha un rischio di aggregazione basso, un rischio di contagio minimo. Devo prendere atto che le grandi aziende si sono mosse per tempo, e ricordo che già il 14 marzo, più di un mese fa, il governo e le parti sociali hanno sottoscritto un protocollo per la sicurezza nei luoghi di lavoro.

La ripartenza di alcuni settori pone già da oggi due problemi molto sentiti dalla popolazione: i trasporti e la scuola. I mezzi pubblici come potranno consentire ai lavoratori di spostarsi senza correre rischi? E se le scuole resteranno chiuse, come si farà con i figli?
Sui trasporti stiamo lavorando, in particolare per la questione del pendolarismo: come evitare affollamenti e aggregazioni, come igienizzare, come mettere in pratica tutte le procedure. Insomma, come mettere tutta la filiera in sicurezza, da quando il lavoratore esce di casa fino a quando ci torna. Esiste un protocollo del Mit che può sicuramente essere migliorato. Ci vogliono sforzi organizzativi per progettare tutto, anche rispetto all’orario di lavoro. Faccio un esempio: prima della pandemia nelle aree metropolitane c’era un picco di mobilità, a Roma era alle 7:21. Nella Capitale, come avviene nelle grandi città, prima delle 8 si mette in moto più dell’80% dei lavoratori. Ecco, quello dell’ora di punta è un concetto che non possiamo più permetterci. Ma per eliminarlo dobbiamo ripensare il lavoro, concepire una diversa organizzazione del lavoro, modulare in modo diverso gli orari. Anche perché i mezzi di trasporto dovranno avere una capienza più limitata, si dovrà mantenere la distanza e necessariamente si ridurrà la capienza. La scuola, invece, è un problema di natura sociale. Ed è anche un problema per quelli che continueranno a lavorare da casa, penso al personale della PA. Se si dovrà mantenere lo smart working sarà davvero difficile con i figli a casa, con una dotazione informatica non sempre all’altezza, con le lacune della rete. Non sarà facile per nessuno.

I dati Istat parlano di un aumento della mortalità nei primi mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2019.  
Su questo tema ci vuole maggiore approfondimento e un’attenta analisi, anche perché gli indicatori seguono logiche differenti. Prima di concludere che si registrano eccessi di mortalità rispetto ai dati della sorveglianza epidemica è necessario fare uno stretto raffronto sulle caratteristiche del dato. E comunque bisogna tenere in considerazione anche la mortalità cosiddetta indiretta: il SSN ha dovuto fare i conti con un carico insostenibile dovuto all’eccezionalità del momento. In questo periodo molte attività sono state interrotte, si sono rinviati interventi già programmati. Con un rinvio lungo bisogna capire le possibili conseguenze. Insomma, sarei molto cauto.

L’8 marzo scorso, dopo le misure annunciate dal governo, c’è stata una vera fuga degli studenti universitari dal nord, partiti in tutta fretta per raggiungere le regioni di origine. Molti hanno temuto un rapido e pericoloso diffondersi del contagio al sud, ma sembra invece che le regioni meridionali siano scampate al pericolo. Cosa ha determinato questo piccolo “miracolo”?
L’epidemia, lo ricordo, è partita nelle regioni critiche del nord. L’aver adottato misure omogenee nazionali e lo stesso comportamento dei cittadini, che hanno assunto cautele adeguate, hanno determinato il contenimento dell’epidemia. Se non si fosse intervenuti in quel modo avremmo assistito nelle regioni meridionali allo stesso scenario delle regioni del nord. Al sud, insomma, le misure contenitive stanno dando i loro frutti.

Cosa sta succedendo nelle Rsa? In alcune regioni le anziani vittime in queste strutture sanitarie rappresentano una percentuale importante e significativa delle vittime totali per il Coronavirus.
Le Rsa rappresentano sicuramente un punto critico. L’ISS ha pubblicato un Report importante, che conferma la grande fragilità di queste strutture. Giova ricordare che gli ospiti delle Rsa sono soggetti anziani, fragili e vulnerabili. Molti sono affetti da demenza, non hanno quindi gli strumenti per adattare i comportamenti.

Il bilancio delle vittime tra il personale sanitario è drammatico: si contano 165 morti per contagio tra medici e infermieri. Insomma, gli eroi spesso si trasformano in martiri…  
Sì, stiamo pagando un prezzo molto alto. E questo non solo in Italia, ma in tutta l’Unione europea. In Spagna, ad esempio, ci sono percentuali ancora maggiori. Bisogna fare una riflessione complessiva partendo da una considerazione: l’attenzione al rischio biologico è sempre stata secondaria. Ci siamo invece concentrati, ad esempio, sulle malattie cronico-degenerative, o sull’invecchiamento della popolazione. Sappiamo che gli operatori sanitari hanno un’età media più bassa rispetto alla popolazione lavorativa, sappiamo che il contagio colpisce di più le donne, perché sono prevalenti, e poco di più. Stiamo lavorando a due studi di approfondimento, in collaborazione con l’ISS e le Regioni, per capire la diffusione dei casi, le differenze tra territori, e arrivare così alla comprensione del fenomeno per mettere tempestivamente in pratica tutti gli interventi per ridurre il contagio.

Se potesse tornare indietro quale errore non commetterebbe.
Sembra strano ma è passato davvero poco: che il virus fosse presente in Italia l’abbiamo appreso nella seconda metà di febbraio, due mesi fa. È stato un periodo convulso, in cui sono state prese misure di una straordinarietà ed eccezionalità senza precedenti. L’approccio da adottare è pensare a come si può migliorare in futuro, rafforzando il sistema ospedaliero, pianificando l’offerta, le terapie intensive, intervenendo sulla programmazione complessiva, sulle strutture dedicate, sul day hospital, rafforzando anche le Regioni e ricorrendo quando possibile alle cure domiciliari. Sappiamo che tante forme di questa malattia non necessitano ricovero. E poi bisogna rintracciare e monitorare: ritengo la questione dei ‘contatti’, e quindi la tecnologia, fondamentale se dovessero scoppiare nuovi casi. Su questo campo si sta procedendo, e anche le Regioni stanno mettendo tante risorse per realizzare un sistema complesso. Bisogna individuare i focolai prima possibile, evitando così che si diffondano. Sta partendo un grande studio siero-epidemiologico che ci dirà quanto ha circolato il virus. Sappiamo che ci sono tante persone che sono state infettate e che non lo sanno, che l’hanno preso in forma asintomatica o paucisintomatica, con piccoli sintomi. Capire quanti hanno subìto la malattia e quindi quanti immuni ci sono ci servirà come elemento per capire l’approccio.

L’ultima domanda è più socio-antropologica che sanitaria: come cambierà la nostra vita?
Andremo incontro a due fasi: la prima di transizione, finché non ci sarà il vaccino. E allora bisognerà reingegnerizzare sia la vita sociale che quella lavorativa. In questa fase si potrà conservare quanto di buono abbiamo sperimentato in questi mesi, penso ad esempio allo smart working. Nel momento in cui è stato fatto forzatamente, ha rotto un tabù. Nella PA se ne parlava da anni, ad esempio. Posso citare il mio caso: ho un dipartimento con oltre 200 persone, che lavorano tutte da casa. Inutile dire che facciamo tantissime attività. Ne approfitto per fare un cenno all’incidente informatico dell’Inps: non conosco le cause, ma ci sono i colleghi dell’Inps che devono gestire milioni di istanze, devono dare risposte, hanno una grande responsabilità ma anche grandi difficoltà. L’aver superato il tabù dello smart working è una delle cose positive. L’altra è che in questo periodo ho visto una grande disponibilità delle istituzioni, un grande senso di collaborazione. Lo ritengo un qualcosa di positivo, che rispetto a certe dinamiche e rigidità può e deve rimanere. Insomma, credo che sarà un periodo complicato e lungo. Alla fine tutto sta nella responsabilità individuale, nel ruolo che ognuno di noi svolge come cittadino e come lavoratore, perché tutti noi giochiamo una parte importante di questa battaglia. I dati promettenti di questi giorni ci fanno credere che alla fine c’è un traguardo raggiungibile, speriamo solo di arrivarci presto.

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