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I segnali deboli di un disagio territoriale crescente
Come è noto la partecipazione elettorale è crollata nelle elezioni politiche che si sono svolte il 25 settembre 2022 (-9,2%). Tuttavia, rispetto al 2018, ad un calo medio del 7% nelle regioni del nord corrisponde una caduta quasi doppia nelle regioni del sud, intorno al 12-14%. Analogo segnale viene dalla maggiore tenuta del voto al Movimento 5 Stelle nelle regioni meridionali. L’ipotesi da esplorare è quella di un disagio territoriale che si manifesta in due diverse direzioni, la prima di apatia (crescita più che proporzionale dell’astensionismo), la seconda di protesta (tenuta più che proporzionale dei 5 Stelle). Se, infatti, riprendendo Albert Hirschman, stare a casa o annullare la scheda possono rappresentare forme di exit (abbandono) dal cosiddetto ‘mercato politico’, l’eventuale canalizzazione del malcontento dal ‘non voto’ ad un voto di partito dovrà essere
interpretato come un evidente marcatore di voice (protesta) elettorale.

Chiamare tutto questo ‘populismo’ serve solo a chiudere la discussione prima di iniziarla, etichettando un fenomeno senza descriverlo con attenzione. Per certi versi, quando si parla di populismo si usa un vocabolo troppo connotato di accenti valoriali per essere di qualche utilità nel cercare di capire cosa stia capitando, come del resto era accaduto nei decenni trascorsi con il termine ‘totalitarismo’.

Occorre invece rinunciare alle stigmatizzazioni e fare uno sforzo per interpretare il messaggio che gli elettori hanno cercato di dare. Il nostro problema, infatti, non è quello di spiegare la presenza di imprenditori politici populisti quanto invece di indagare le ragioni per le quali, in determinate circostanze storiche, gli elettori cambiano il loro voto tradizionale in modo improvviso e massivo, indirizzandolo verso forze politiche fino ad allora marginali o inesistenti.

Un modo per raccontare cosa le elezioni ci hanno svelato della società italiana può essere quello di riprendere in mano ancora una volta Albert Hirschman, in particolare la sua interpretazione delle crisi latino-americane. L’economista tedesco naturalizzato statunitense osservava come le persone non si lamentino quando sanno di essere tutte insieme in mezzo ai guai -vedono da sole la necessità di tirare la cinghia- ma, dopo qualche tempo di ripresa economica, presentano il conto e avvertono i governanti: abbiamo tirato la cinghia per anni, voi ci dite che adesso la crisi è finita, che va tutto bene, ma noi non vediamo i benefici di cui voi parlate, anzi ci saremmo attesi qualcosa in più che non arriva, mentre, al
contrario, siamo arrabbiati perché qualcuno ne sta approfittando. A questo proposito Hirschman portava l’esempio di una coda in autostrada che riparte dopo un incidente, ma solo nella corsia di emergenza e solo per alcuni privilegiati, provocando l’ira e la rabbia di tutti gli automobilisti fermi immobili nelle restanti corsie ordinarie.

In questo senso possiamo parlare del voto del 2022 come di un voto ‘economico-sindacale’. Non a caso gli elementi di fondo attorno ai quali si è articolato il dibattito pubblico di questi mesi sono pochissimi e tipicamente economico-sociali: il lavoro per i giovani, la flat tax come strumento per dare più soldi a chi lavora, la riforma o il mantenimento del reddito di cittadinanza. Messaggi che echeggiano, in qualche misura, due distinte grida di dolore, una che sale dal Nord e una dal Sud, ma entrambe di uguale segno: la crisi è finita, allora dimostratelo redistribuendo qualcosa di più. Va a questo proposito ricordato come i
nostri sistemi politici, quelli che vengono denominati come ‘liberal-democratici’, devono il loro successo secolare al mantenimento di un difficile equilibrio tra libertà, benessere e sicurezza (sociale). Quando il welfare state è forte, allora i cittadini concentrano le loro aspettative sulle diverse dimensioni della libertà, così da richiedere sempre più ampi diritti civili, ma nel momento in cui il benessere viene messo per qualche ragione in discussione, la libertà diviene meno importante nella gerarchia implicita delle persone, per lasciare il posto ad una fortissima rivendicazione di mantenimento degli standard economici
raggiunti in precedenza e di garanzie rispetto alla propria sicurezza.

Cinquanta anni fa, nel 1973, davanti alla prima grande crisi che metteva in discussione l’ordine economico post-bellico, uscirono quasi in contemporanea tre volumi che posero all’ordine del giorno questa questione: il primo di James O’Connor (La crisi fiscale dello stato), il secondo di Jürgen Habermas (La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, ma il titolo originario parlava di crisi di legittimazione) e, infine, l’ultimo volume era scritto da Claus Offe (Lo stato nel capitalismo maturo). Tutti e tre questi autori mettevano in luce le difficoltà di legittimazione di uno stato non più in grado di mantenere il consenso
popolare attraverso la leva della spesa pubblica (benessere più sicurezza). Allora sembrarono dei marziani, degli inveterati pessimisti; tuttavia va a loro il merito d’aver messo in evidenza come il consenso sia la diretta conseguenza del benessere e che tale benessere nelle società contemporanee possa essere garantito anche dallo stato. Già in quegli anni ci si interrogò a lungo sulla sostenibilità (economica) dei debiti pubblici e sulla sostenibilità (politica) di eventuali scelte di rientro dai debiti pubblici. Poi la discussione cadde nel dimenticatoio, anche perché il successo del capitalismo in via di
globalizzazione degli anni ottanta e novanta del secolo scorso sembrava smentire con l’evidenza dei numeri qualsiasi dubbio o perplessità. Poi, inattesa e fragorosa, è arrivata la crisi del 2008 e, oggi come allora, per qualunque forza politica popolare, il dilemma ‘consenso versus benessere’ appare non eludibile, come da ultimo ha messo in luce Wolfgang Streeck nel suo Tempo Guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo
democratico (2013), che non a caso ricorda e riprende quei dibattiti dimenticati dei primi anni settanta.

Appare utile ricordare questo capitolo di storia delle idee perché il nesso crisi-consenso sembra essere completamente sfuggito alle classi dirigenti dei partiti, non solo qui da noi, ma in generale in tutto l’occidente. Sappiamo bene non essere questione semplice ma, forse, invece di etichettare come populista ogni manifestazione di malessere popolare, si dovrebbe cercare di aprire una discussione seria su questi dilemmi delle democrazie contemporanee, che non a caso appaiono più intensi nelle aree di maggiore crisi all’interno di ogni paese (il Michigan negli Stati Uniti, le Midlands in Gran Bretagna, il Sud in Italia).

Il Sud come ‘pentola a pressione’
Per quanto riguarda il Sud, l’ipotesi da vagliare è che quasi nessuno abbia compreso fino in fondo quanto drammatica debba essere la condizione meridionale dopo 15 anni di crisi. Prendiamo i risultati elettorali del 2018, quando esplose il Movimento 5 Stelle. Tradizionalmente quello del Sud è un voto denso, vale a dire controllato da una rete di intermediari, faccendieri e mediatori. Ma questa vischiosità del voto al Sud
rende quei risultati elettorali ancora più strabilianti: in Campania i Cinque Stelle passano dal 22% al 49%, in Sicilia dal 34% al 49%, in Puglia dal 26% al 45%. Come è stato possibile? Per cercare di comprendere al meglio cosa si nasconde dietro un risultato così sorprendente, abbiamo provato a valutare la scelta di voto nelle regioni italiane in relazione ad altri aspetti, che riguardano soprattutto la situazione economica delle diverse aree del nostro paese. E abbiamo trovato alcune correlazioni evidenti tra risultati del Movimento 5 Stelle nel 2018 e un indicatore come il reddito disponibile delle famiglie pro-capite e il Pil pro-capite. Ciò significa che nelle regioni in cui il reddito e il Pil sono inferiori, è superiore il voto al Movimento 5 Stelle e, a mano a mano che questi due indicatori aumentano, il voto a questa lista va a scendere. E tale legame è confermato, in senso opposto, anche da altri indicatori che descrivono la situazione economica e che sono, quindi, essi stessi correlati con quelli appena osservati. Ad esempio, al calare del tasso di disoccupazione scende anche il voto al Movimento 5 Stelle e viceversa.

Le spiegazioni strutturali del terremoto nel voto meridionale, proposte da molti commentatori, convincono solo in parte. La demografia declinante, il mercato del lavoro asfittico, l’economia incapace di reggere le sfide della competitività sono certo variabili importanti per comprendere il disagio meridionale ma da sole non sono in grado di spiegare, in primo luogo, come mai un intero sistema dei partiti (tradizionali) sia collassato in due sole tornate elettorali (2013 e 2018) e, in secondo luogo, se questo terremoto sia stato interamente spontaneo, una sorta di rivolta popolare di ottocentesca memoria, oppure se, almeno in parte, esso sia stato accompagnato, o guidato, oppure ancora indirizzato da qualche segmento delle classi dirigenti locali.

Come è ben noto, il voto meridionale è un voto denso, connotato da una forte vischiosità relazionale, alla cui origine sembrano esserci solidi reticoli politici, controllati in modo piramidale da una molteplicità di faccendieri, intermediari e ‘imprenditori politici’, approfonditi a suo tempo da Gabriella Gribaudi (Mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno, 1980). Insomma, l’opposto del voto di opinione. Possibile che questi reticoli si siano dissolti in un baleno sotto l’onda d’urto di una jacquerie
elettorale? Oppure c’è stato un concorso di responsabilità, ovvero una saldatura tra la protesta popolare e il risentimento di interi strati di mediatori, in larga parte formati da classi medie, la cui fortuna dipende dall’intermediazione della spesa pubblica, anche loro rimasti spiazzati e travolti dalle conseguenze della crisi economica? Questa seconda ipotesi avrebbe almeno il pregio del realismo, nel senso di rendere più comprensibile il successo del Movimento 5 Stelle nelle regioni meridionali in due sole tornate elettorali.
Un exploit, lo ricordiamo, che ha come unico elemento di raffronto la rimonta della Democrazia Cristiana nel 1948.

Si può avanzare qualche ipotesi di lavoro, forse un po’ estremizzata, ma utile all’analisi e al necessario approfondimento futuro. Un’idea che si potrebbe proporre è che anche i soggetti intermediari sono stati contagiati dalla stessa esasperazione di una base sociale rimasta senza alcuna possibilità di lavorare, perché non arriva più nulla, o molto meno del passato, della spesa pubblica che filtra dal Centro al Sud. Al Sud, la redistribuzione del reddito verso le famiglie passa principalmente attraverso una rete di imprese, cooperative, e società di persone collegate alle attività delle pubbliche amministrazioni, attraverso cioè un gocciolatoio che filtra da comuni, province, regioni, aziende sanitarie locali, società pubbliche. I tagli alla spesa, dunque, non coinvolgono solo le famiglie, ma anche tutti i livelli medio-bassi della filiera di intermediari dei trasferimenti pubblici, con relativa protesta di tutti coloro rimasti a secco. Si tratterebbe di un primo filo interpretativo per spiegare un risultato tanto clamoroso, senza tirare in ballo la mafia o la camorra, o i complotti internazionali, anche perché pare ingenuo cercare di spiegare un voto così vasto e omogeneo come quello dei pentastellati nel Meridione con la capacità di orientamento elettorale della malavita.

Semmai andrebbe osservato come anche al Sud un segnale premonitore fosse arrivato in occasione del voto referendario del 4 dicembre 2016, sia per l’eccezionale affluenza al voto in quell’occasione, sia per il numero plebiscitario di voti contrari alle proposte del governo Renzi (l’abolizione delle province, del Senato elettivo, del Cnel, ecc.). Era evidente che ben altro bolliva in pentola, a partire da un malessere economico-sociale che non trovava altro via sfogo se non attraverso un no, rivolto più alla retorica governativa che alle singole proposte di riforma della Costituzione. L’avvertimento non venne preso in considerazione: dopo il referendum, è bastato un generico autodafé o una frettolosa archiviazione del
voto da parte dei partiti tradizionali (in primis, Pd e Forza Italia) per chiudere ogni ulteriore
approfondimento. Come stupirsi se l’elettorato meridionale abbia cercato di mandare nelle elezioni politiche un secondo messaggio ‘al quadrato’ per cercare di farsi capire?

Il Sud come problema e come opportunità
Il voto del 2018 e del 2022, come pure l’esito del referendum del 2016 al Sud, sollecita il ritorno sulla scena pubblica della questione meridionale. Quattro anni fa è uscito un commento alle elezioni del 2018 di Gianfranco Viesti (Il Mulino, 3/2018, pp. 451-458) che ricalca in moltissimi punti le argomentazioni qui svolte, sia con analoghi riferimenti a Hirschman, sia con il richiamo al lavoro del 2017 di un geografo, Andrés Rodríguez-Pose, che insegna alla London School of Economics di Londra, dal titolo più che evocativo, “The revenge of the places that don’t matter (and what to do about it)”. Il voto al Sud come ‘vendetta dei posti che non contano’ pare una buona chiave interpretativa per tenere assieme tanto il disagio popolare quanto la ribellione delle classi dirigenti locali delle regioni in crisi. Non a caso all’inizio di questo lavoro abbiamo citato un simile comportamento di voto in aree inglesi e americane che hanno vissuto analoghi processi di marginalizzazione territoriale. Se questa ipotesi di lavoro è sensata risulterebbero più comprensibili le ragioni dell’egemonia grillina nel Meridione.

Guardiamo alcuni dati economici e del mercato del lavoro. Il Pil procapite reale (al netto dell’inflazione) è calato nei primi vent’anni del nuovo secolo in tutte le regioni italiane, tranne il Trentino Alto Adige, la Lombardia e la Basilicata (grazie al gas). Tuttavia il calo meridionale è nettamente superiore rispetto alle regioni del Nord, con punte di – 10,3% in Sicilia, -7,9% in Campania, -7,8% in Calabria, regioni nelle quali i reddito medio per abitante è pari a meno della metà rispetto alla Lombardia. Analoghe riflessioni si possono fare per il tasso di occupazione, intorno al 69% nelle regioni del nord e a meno del 50% nelle regioni del sud, oppure per il tasso di occupazione femminile, quasi dimezzato al Sud rispetto al Nord. Queste differenze radicali nelle performance economiche delle regioni italiane pongono un serio problema di adeguata valutazione delle medie nazionali, le quali finiscono per trasformare in problema nazionale quello che è a tutti gli effetti una questione meridionale. Il punto è che se il problema fosse nazionale andrebbe corretto con politiche e interventi pubblici di tipo nazionale, se invece è territorialmente definito, vanno adottate specifiche politiche a scala territoriale. la confusione ingenerata dei dati, ha portato invece a scambiare come questione nazionale un ritardo che è invece solo territoriale, con la conseguente adozione di interventi generali del tutto inefficaci.

Un modo per chiarire meglio questo punto è quello di mettere a confronto i tre nostri indicatori con i principali paesi europei di grandi dimensioni (Germania, Francia, Spagna) e con la media europea. Il pil del regioni del nord Italia sono tutte sopra o in linea con la media europea, e alcune di loro superano addirittura la Germania e la Francia (compreso il Lazio). Analogo discorso vale per il tasso di occupazione totale e per il tasso di occupazione femminile. Come uscirne? Una prima direzione strategica riguarda la crescita del meridione, le cui performance economiche abbassano sistematicamente i dati nazionali, sia che si guardi al reddito prodotto, alla scolarità, all’occupazione e alla disoccupazione. Di nuovo, come si è già detto, il tasso di occupazione italiano è pari al 60,2% della popolazione in età 15-64 anni, otto punti in meno della media europea (Ue a 27 paesi). Una differenza molto significativa, che però dipende quasi solo dalle differenze tra Nord e Sud, con il Nord con tassi di occupazione intorno al 66-67% e il Sud intorno al 44-45%, più di venti
punti percentuali in meno. Siccome la risorsa strategica delle economie contemporanee sono le alte professionalità e le attività terziarie l’interrogativo è quello di ‘che fare?’ per il Sud, a partire dal Nord, specie se si comprende visto che l’unica strada per alzare qualsiasi indicatore economico italiano passa attraverso un recupero di capacità produttiva (terziaria) quanto più rapido possibile del nostro meridione.

Infine va detto che una questione irrisolta da centocinquanta anni non può essere lasciata sulle sole spalle della classe dirigente meridionale, come spesso si è cercato di fare attraverso una sorta di scaricabarile, anche attraverso ideologie che ipotizzavano una autonoma capacità delle società locali meridionali di promuovere un loro sviluppo auto-centrato. È bene dirlo: il problema del Sud ricade interamente nella responsabilità delle classi dirigenti settentrionali, ma da decenni al Nord manca una qualsiasi idea positiva su come si possa risolvere la questione meridionale. Ripensiamo al caso della Germania dell’Est e dell’Ovest. Le differenze di Pil per abitante nel 1989 tra le due Germanie erano superiori a quelle tra Nord e Sud Italia. In venti-venticinque anni lì le hanno drasticamente ridotte (certo non tutto è risolto), invece in Italia la forbice si è ulteriormente allargata. Luciano Cafagna, uno dei grandi storici economici dell’industrializzazione italiana, già all’inizio degli anni novanta scriveva come non ci fosse dubbio alcuno che dal punto di vista del Meridione le cose sarebbero andate meglio se non ci fosse stata l’Unità d’Italia. Ma la domanda politica di oggi è: se vuoi tenere assieme la nazione, come affronti la questione meridionale? Se non rispondi, se non hai una strategia convincente, cosa rimane? La secessione del Nord? La ribellione del Sud?

Se si intende davvero affrontare la questione meridionale, occorre dire alcune cose: innanzitutto in questi dieci anni, gli investimenti per le infrastrutture sono andati al Nord (la regione che ha guadagnato di più è l’Emilia Romagna con la quarta corsia autostradale, l’alta velocità con Milano e Roma, le stazioni avveniristiche); ma anche una parte consistente delle politiche sociali sono andate al Nord, specie per quanto riguarda
la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione (discorso opposto va fatto per il Reddito di cittadinanza). Forse riportare al centro della discussione pubblica il Sud, magari anche attraverso una ‘Inchiesta parlamentare sulla nuova questione meridionale’, ispirandosi proprio alle inchieste parlamentari di fine ottocento (Inchiesta agraria, 1877-1886, con Presidente della commissione parlamentare Stefano Jacini) e dei primi anni cinquanta (Inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla, 1952-53), potrebbe essere l’occasione per avere un’idea più precisa sia delle attuali condizioni sociali del nostro Mezzogiorno sia delle possibili strategie di un suo rilancio. E, va detto, che -forse- sono i liberi professionisti meridionali, proprio per la loro centralità nelle società locali e nelle economie del meridione, ad essere il ceto sociale che meglio conosce la reali condizioni del Sud e, forse, potrebbe suggerire le migliori ricette per cercare di trovare una soluzione.

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