Pinocchio non finisce di intrigare. Ognuno lo immagina a suo modo, tanto che gli si potrebbe applicare il pirandelliano ‘uno, nessuno, centomila’. I pareri sono tanto più scatenati e difformi quanto meno l’autore del testo si è preoccupato di assegnare una normalità coerente ai contenuti del racconto, scritto, come dicono alcuni, con la mano sinistra, in uno stato di quasi dissociazione ipnotica, produttrice di disarticolate e incoerenti sequenze ipnagogiche.

Carlo Collodi (1826-1890, all’anagrafe Lorenzini) repubblicano, patriota e soldato nelle guerre di Indipendenza, era un giornalista che arrotondava il salario di impiegato scrivendo sulla stampa della provincia toscana e sui giornalini per ragazzi, per i quali aveva scritto sussidiari sotto forma di racconti, centrati sulla figura di Giannettino. ‘Le avventure di Pinocchio’ nacquero come un lungo racconto a puntate sul ‘Giornale per i bambini’ tra il 1881 e il 1883. Una sua provvisoria interruzione suscitò la ribellione dei ragazzi, e Collodi dovette scriverne la prosecuzione. Uomo burbero e scontroso, pigro e malinconico, burlone e sornione, ma fondamentalmente buono, Collodi, gran bevitore, non riuscì a metter su famiglia e visse solitario con alcuni tic caratteriali.

Dovendo scrivere su giornalini per fanciulli e a loro edificazione comportamentale, ha inventato inverosimili avventure per tenerne viva l’attenzione, ma questo sfrenarsi della fantasia ha fatto emergere contenuti dell’inconscio che troveranno, decine di anni dopo, interessanti coincidenze nella teorizzazione delle categorie della psicoanalisi del profondo di Sigmund Freud, che inizierà però a scrivere nell’ultimo decennio dell’800, e di Gustav Jung, che scriverà all’inizio del ‘900.

Collodi stendeva le puntate del racconto sempre spinto dalla fretta di consegnare il manoscritto per essere pagato. Nonostante questo, o forse proprio per questo, la sua lingua, disseminata di gradevoli toscanismi, è fresca e immediata, scorrevole, senza le pretese linguistiche manzoniane, eppure con un impasto lessicale efficace e  di un’agilità straordinaria, come si conveniva per inseguire la frenesia della fantasia più scatenata. Questa stessa modalità di composizione,  frettolosa e poco sorvegliata,  ha propiziato l’emergere dei  fascinosi ed oscuri contenuti dell’inconscio,  senza inibenti autocensure.

Tutto il racconto si regge sull’alternarsi dei due fondamentali pilastri della psiche, che Freud elaborerà nelle categorie psicanalitiche di Eros e Tanatos, piacere e morte, affermando perfino che il principio del piacere è al servizio delle pulsioni di morte, collegamento reso banale nella morale e nel diritto  con l’endiadi  ‘Delitto e castigo’, immortalata poi drammaticamente nell’omonimo romanzo (1866) di Fedor Dostoevskij. Le imprese dello sventato burattino hanno come motore lo schema  per cui monellerie ed azzardi sono sempre seguiti da tremende disavventure e punizioni. Lo scapestrato burattino non può concedersi nessuna monelleria senza che ne segua un amaro castigo, che mette a rischio perfino la sua integrità, la sua vita. Quando finiranno le sue irrefrenabili birichinate cesserà anche la sua storia, divenuto oramai un ragazzo socialmente normalizzato, senza più alcun ghiribizzo, assorbito dal ripetitivo quotidiano.

La  prima tremenda punizione si verifica subito all’inizio del racconto, quando, ucciso il Grillo parlante perché lo rimproverava di essere scappato di casa, facendo disperare il povero Mastro Geppetto alla sua ricerca, Pinocchio si addormentò su una sedia per la fame e il sonno, con i piedi sul caldano che finiscono per bruciare. Quel piede oggi ci richiama il piede gonfio dell’Edipo di Freud, che ne farà il titolare del  complicato complesso familiare.  Il primo atto di quel piede incenerito, però, fu dare un calcio alla punta del naso del suo padre artificiale, Geppetto. Ed ora ben gli stava!

Non una sola monelleria resta impunita, e la tenaglia piacere-punizione  si chiude sempre sul burattino a monito inesorabile per i piccoli lettori e pedagogica dissuasione. Perfino la Fata Turchina, che svolge a meraviglia il ruolo materno, per condurre Pinocchio sul sentiero dell’umanizzazione, all’occorrenza agisce con perfida crudeltà. A Pinocchio allettato e capriccioso, che rifiuta la medicina amara, fa arrivare nella stanza il corteo mortuario dei conigli-becchini, vestiti a nero, che recano la bara per portarlo via. Le bugie producono  un allungamento sfigurante del naso, ma quando Pinocchio, incappato nel meritato castigo, è in fin di vita, lei  accorrerà tempestiva a salvarlo.

Tutta la storia dello scatenato burattino è, quindi, come riassunta dal compatimento del ciuchino del Paese dei Balocchi: “povero gonzo, hai voluto fare a modo tuo, ma te ne pentirai”. E dal ciuchino ex bambino arriva il sugo dell’intera storia dello squinternato burattino a edificazione dei terrorizzati fanciulli, divertiti e intimiditi insieme.

La fantasia anomala e solitaria di Collodi, impegnata a tirar fuori personaggi, sequenze e situazioni tanto strane e bislacche quanto sorprendenti e divertenti, finiva per dare inconsapevole fondo agli archetipi dell’inconscio collettivo, condensati per altro nella narrativa mondiale, di figure come l’ombra, il vecchio, il fanciullo, la madre primordiale, il doppio, tanti animali emblematici, che ancora oggi sono la gioia dei fanciulli… e non solo.  E tuttavia quelli di Collodi, inseriti nello scenario agreste toscano dell’800, hanno uno speciale e consonante fascino.

Il doppio lo ritroviamo in Pinocchio quando, divenuto fanciullo, vede il suo vecchio involucro burattinesco abbandonato  su una seggiola, svuotato di ogni arruffato istintivismo vitale. Di fronte a lui, fresco della rigenerazione, Pinocchio, divenuto fanciullo esemplare, non è più di grezzo legno, ma di carne ed ossa, umbratile e saggio.

La mostruosa Balena richiama l’archetipo della madre primordiale che, divorato il burattino, lo riconcilia nel suo ventre con il Padre Geppetto e lo avvia alla meta della umanizzazione. Essa rinvia all’archetipo universale della Grande Madre, elaborato da Jung, a simbolo della Natura, che senza sosta tutto divora e tutto ricrea. Pinocchio, alla fine, è il figlio non figlio che accudisce il padre non padre, come osserva Giorgio Manganelli (Pinocchio un libro parallelo, Einaudi, Torino, 1977). Questo avvolgersi di ruoli risiede nella dominante, inarrestabile ciclicità cosmica.

Se la deterrenza della sanzione, come dissuasione dalla trasgressione, nel nesso inscindibile di piacere e morte, doveva alimentare il motore del racconto di Collodi e, per essere efficace, inventarsi un flusso inarrestabile di sfrenata fantasia, l’efficacia seduttiva del testo va anche ricercata nell’eloquio toscano popolaresco e scanzonato, vivido e frizzante. Si può coglierlo per intero solo nella lettura appagante del testo, che si riagganciava, del resto, al toscanissimo Stenterello, dalle acrobazie linguistiche ed originali cadenze gergali. Questa tradizione è abbastanza presente nella riduzione filmica di Roberto Benigni del 2002. Il comico toscano, dopo aver diretto se stesso come Pinocchio, ora, nella regia di Matteo Garrone, diventa uno smagato, straordinario Mastro Geppetto, che può ancora regalarci il piacere di quel  genuino gergo toscano, difficilmente percepibile nel doppiaggio dallo spettatore straniero.

Tuttavia, non finiremo di sorprenderci nel constatare che un testo umilissimo, nato per i fanciulli e scritto quasi distrattamente, in un eloquio di una piccola enclave italiana, si sia imposto come uno tra i più divulgati testi della letteratura infantile a livello mondiale, e non cessi di intrigare e sfidare commenti e interessanti esegesi, fino a quella, ad esempio, del Cardinale di Bologna Giacomo Biffi, in chiave biblica, o riduzioni drammaturgiche con ottimi, ma mai esaustivi, risultati, e perciò sempre riproposto.

Il burattino Pinocchio, dannatamente simpatico, ha anche ispirato dolcissime canzoni e colonne sonore, come nessun altro personaggio fiabesco. Ora siamo in attesa di verificare il livello di fortuna inventiva della trasposizione cinematografica di Matteo Garrone, che sembra pronto a sorprenderci e stupirci, anche con la promessa della fedeltà al testo. Ma l’inacciuffabile burattino se la sarà svignata già altrove, a provocare l’inseguimento di ulteriori riduzioni artistiche o esegetiche.

Certamente si confermerà che quel testo non consente chiusure entro il recinto della letteratura infantile, pur appartenendoci di diritto. La sua potenza, come il suo personaggio, improbabile e picaresco, ha la leva del successo anche presso il mondo adulto, per il suo essere sfuggente, senza freni inibitori, condizione a cui lo psicanalista spera condurre il suo paziente. Ed è la catarsi.

1 commento

  1. Una tesi che mi è venuta a mente leggendo l’elegante e informato testo riguarda l’eterno presente che si propone, e mi è sovvenuto, certamente dal subcoscio, un partito (indovini quale) davanti allo specchio.
    Continui così, ha tutta la mia approvazione.
    Un ammiratore.
    R. Berretta

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