Sulla Gazzetta Ufficiale del 28 marzo scorso è stata pubblicata la legge n. 26, che tra le altre misure prevede anche quelle per quota 100. La norma è risultata subito di grande attrazione per molti lavoratori, probabilmente per aver avvicinato l’età del pensionamento a quella effettivamente desiderata dagli attuali lavoratori italiani: tra i 62 e i 63 anni, come risulta dai dati del Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2017, pubblicato dal Censis. Gli ultimi dati dell’Inps sulle domande di pensionamento arrivate all’ente previdenziale dicono che sono 112.558 i lavoratori che hanno chiesto di uscire dal lavoro usufruendo di quota 100; in particolare, le domande dei dipendenti privati sono 40.049 e quelle presentate dai dipendenti pubblici 38.124. Ma ha suscitato grande interesse anche da parte dei mezzi di comunicazione per essere stata oggetto, fin dalla sua ideazione, di grandi proclami da parte del Governo e, nello stesso tempo, di critiche da molta parte del mondo politico e imprenditoriale italiano, ma anche di autorevoli soggetti istituzionali internazionali.

Quella introdotta dall’articolo 14 è una nuova tipologia sperimentale di pensione anticipata, denominata “quota 100” (la sua durata è, infatti, limitata al periodo 2019 – 2021), riservata esclusivamente agli iscritti alle gestioni previdenziali obbligatorie gestite dall’Inps: lavoratori dipendenti del settore privato e pubblico, oltrechè lavoratori autonomi, compresi quelli assicurati nella Gestione Separata. Il nome originale deriva dal fatto che la somma dei requisiti minimi di cui bisogna essere in possesso deve essere pari a 100: servono, infatti, almeno 62 anni di età e 38 anni di contributi che, nel caso di soggetti titolari di più posizioni assicurative, possono essere perfezionati anche cumulando gratuitamente i diversi spezzoni contributivi. Ma se gli anni sono, per esempio, 63, non ne basteranno 37 di contributi, ma saranno necessari comunque 38: sarà, quindi, quota101 e così via!

Nata dalla volontà politica di abrogare la Legge Fornero – Monti del 2012, in realtà si presenta come una pensione anticipata che si aggiunge a quelle già esistenti nel nostro sistema previdenziale. Sembra somigliare molto, invece, all’ennesima salvaguardia, la nona per la precisione, perché prevede più agevolate condizioni, rispetto a quelle ordinarie, per ottenere la pensione (circa 4/5 anni in meno di contributi, a seconda che si tratti di donna o uomo) e per la sua durata “a scadenza”. Tutti ne possono beneficiare, diversamente da quanto il legislatore ha previsto, invece, per le otto salvaguardie – quelle vere – realizzate per offrire una possibilità di pensionamento a chi aveva perso il lavoro, era stato collocato in mobilità o autorizzato al versamento della contribuzione volontaria, e che, proprio per la situazione di difficoltà in cui si trovava, difficilmente avrebbe potuto raggiungere i requisiti contributivi e anagrafici molto più onerosi rispetto a quelli vigenti fino al dicembre 2011, introdotti, senza gradualità, a partire da gennaio 2012.

Già nella prima fase di applicazione dell’art. 14, si sono, però, mostrate le prime difficoltà, al momento ancora irrisolte. Innanzitutto, le decorrenze diversificate, a seconda che si tratti di lavoratori del settore privato o del settore pubblico: gli uni, maturati i requisiti richiesti a partire da gennaio 2019, possono andare in pensione trascorsi tre mesi; gli altri, devono attendere, invece, sei mesi. Ma la differenza esiste anche per chi aveva già prima del 2019 i 62 anni di età e i 38 anni di contributi: se lavoratore privato, avendone fatto domanda, la pensione decorre dal 1° aprile, se dipendente pubblico, la prima finestra si aprirà solo ad agosto. Fin qui tutto chiaro, se non fosse che l’Inps attende ancora un parere del Ministero della Funzione Pubblica per chiarire quali e quanti siano gli Enti che ruotano attorno alla Pubblica Amministrazione, i cui dipendenti, nonostante la loro iscrizione ad una gestione previdenziale privata, pare debbano andare in pensione secondo le decorrenze fissate per i lavoratori pubblici: è il caso, per esempio, di molti lavoratori dell’agricoltura dipendenti dai cosiddetti Enti pubblici economici. L’effetto di questa incertezza è che molti di questi lavoratori hanno rassegnato le dimissioni dal lavoro nella convinzione di ottenere la pensione già da aprile ed, invece, si sono visti recapitare dall’Inps una lettera di reiezione, a seguito della quale, se non riusciranno ad essere assunti nuovamente dalle proprie Amministrazioni, rimarranno per almeno 4 mesi senza stipendio e senza pensione!

Altro aspetto problematico riguarda l’incumulabilità che il legislatore ha voluto stabilire tra la pensione e i redditi da lavoro di qualsiasi natura, per tutto il periodo intercorrente tra il primo giorno di percezione e il raggiungimento dell’età prevista per la pensione di vecchiaia, cioè 67 anni.  Unica eccezione è prevista per i redditi da lavoro autonomo occasionale fino a 5.000 euro.

Anche in questo caso, l’Inps non ha ancora fornito indicazioni chiare né sulle tipologie di reddito che il pensionato quota100 può percepire svolgendo un’attività lavorativa senza compromettere il pagamento della pensione, né sulle modalità di dichiarazione soprattutto dei redditi da lavoro autonomo: la questione è ancora oggi oggetto di studio per l’Istituto previdenziale e il Ministero del Lavoro, ma i dubbi e le incertezze che non consentono di stabilire con automatica certezza la cumulabilità o meno delle somme rischiano di determinare, nei prossimi mesi, numerose contestazioni dell’Inps ai pensionati per aver incassato rate di pensione indebite con la conseguenza di  probabili contenziosi davanti alla Magistratura.

In sostanza, una norma che, nelle intenzioni del Governo, avrebbe dovuto consentire a molti lavoratori di andare in pensione prima e più facilmente di quanto avesse deciso il legislatore del 2011, si sta rivelando di non semplice gestione proprio in relazione a quei pochi aspetti di rigidità che erano stati introdotti, da una parte, per non “svuotare” in maniera indiscriminata gli uffici della Pubblica Amministrazione già in difficoltà, dall’altra, per evitare che i neo pensionati potessero sottrarre occasioni di lavoro a chi, invece, è ancora impegnato nella costruzione del proprio patrimonio previdenziale.

Uno degli obiettivi primari, dichiarati già a partire dalla Nota di aggiornamento del Def dell’autunno scorso, è, infatti, proprio quello della “revisione del sistema pensionistico, in modo da garantire il superamento degli squilibri dell’attuale sistema previdenziale per agevolare il ricambio generazionale e consentire ai giovani di poter aver accesso al mercato del lavoro”. Obiettivo, a parere di molti, difficilmente realizzabile per lo sfavorevole ciclo economico e la bassa produzione industriale che caratterizzano l’attuale situazione del nostro Paese. D’altra parte, già in passato, non sono mancate iniziative legislative dirette ad agevolare l’assunzione di nuova forza lavoro in cambio di forme di part time agevolato per i lavoratori anziani: per questa misura sperimentale di cosiddetto “invecchiamento attivo”, introdotta con la Legge di Bilancio 2016, i risultati non sono stati, però, eccezionali; si parla, anzi, di un vero e proprio “flop”. Non solo, l’esperienza dimostra che il massiccio ricorso a forme di accompagnamento alla pensione – isopensione o assegni straordinari – è servito alle aziende esclusivamente per far fronte alla crisi o a situazioni di esubero del personale, ma, in realtà, all’uscita di forza lavoro anziana non ha corrisposto nuova occupazione, almeno non in misura sufficiente a ridurre i tassi di disoccupazione che rimangono ancora elevati. Sembra, quindi, che la ricetta secondo cui un maggior numero di pensionati avrebbe un effetto moltiplicatore sulla creazione di nuovi posti di lavoro, sia davvero semplicistica – e, forse anche pericolosa per gli effetti economici che ne potrebbero derivare – se si tiene conto della realtà italiana, nella quale il sistema a ripartizione dei regimi previdenziali pubblici obbligatori, ormai interamente gestiti dall’Inps, prevede, come è noto, che i contributi ricevuti in un determinato anno siano utilizzati interamente per erogare i trattamenti pensionistici dello stesso anno.

Pertanto, se sono veri i numeri relativi ai potenziali pensionandi (400.000), la spesa che ne conseguirebbe potrebbe essere sostenuta solo grazie ad una consistente crescita dell’occupazione stabile, cioè quella dipendente, unica forma che garantirebbe, da una parte, le entrate per pagare le pensioni (versamento contributivo pari al 33% su retribuzioni dignitose) e, dall’altra, una pensione adeguata anche ai nuovi assunti – semprechè le nuove norme si possano considerare sistematiche anche per i prossimi anni e non finalizzate esclusivamente alla conquista di un temporaneo consenso.  Anche gli stessi imprenditori, da nord a sud, hanno espresso preoccupazione rispetto all’assioma del Governo “più pensionati, più occupati”, sostenendo che la sola “quota 100” non garantisce nessuna staffetta generazionale e che, anzi, l’uscita anticipata rischia di far perdere personale competente e con esperienza che nuovi ingressi non riusciranno a coprire del tutto. Più forte di tutti, l’appello del Presidente di Assolombarda: “sospendiamo integralmente Quota 100, che aggrava il debito previdenziale e ne addossa iniquamente i costi ai più giovani, oltre ad abbassare il tasso di occupazione”. Appello che si associa alle raccomandazioni dell’OCSE all’Italia per la realizzazione di un programma pluriennale di riforme per migliorare la crescita e il benessere, tra cui spicca proprio quella di “abrogare il nuovo schema di pensionamento anticipato introdotto nel 2019”. Anche questa volta si conferma, quindi, ciò che negli ultimi tempi è, purtroppo, sempre più evidente: interventi normativi in materia previdenziale che non hanno nulla di strutturale e con cui, di volta in volta, il legislatore corre in soccorso di una qualche emergenza, emanando norme che non risolvono definitivamente i problemi, ma che, invece, ne creano di ulteriori.

 

 

 

 

 

 

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