Il secondo è il primo dei perdenti”, figuriamoci cosa può essere Arthur Fleck (futuro Joker)!

Affermazione forte, che assimileremmo allo sfrontato fuoriclasse di turno, senza distinzione di sport. In realtà si tratta di una delle frasi divenute più famose di Enzo Ferrari, genio visionario fondatore della gloriosa, omonima Scuderia. Era bravo con le parole, il Drake (così era soprannominato), un genio anche nelle battute: provocatorie, irriverenti, inattese. E quella frase è rimasta così impressa negli annali tanto da divenire il titolo del libro che racconta la sua storia. E’ vero, un libro non si giudica dalla copertina, tanto meno è sensato commentare esternazioni senza considerare il contesto, chi la abbia pronunciate, le reali intenzioni nel farlo. E non sarà questa la sede.

I fantasmi di Joker siamo noi

Semplicemente prediamo in prestito quella frase perché costituisce un ottimo punto di partenza per questa analisi. Così come il Joker di Todd Phillips, o meglio il povero Arthur Fleck, impersona a meraviglia quel modo di essere, di vivere, di non essere, di sopravvivere, di subire il mondo senza essere in grado di reagire che ormai ci riguarda così tanto da vicino. Tutti. Sì, Arthur Fleck siamo noi, con tutti i suoi fantasmi a tormentarlo. Di più, a guardar bene, quei fantasmi siamo noi, in una duplice lettura: da un lato, infatti, siamo noi stessi a creare gli spettri che ci tormentano attraverso comportamenti sempre più orientati al cinismo, alla prevaricazione, al bullismo, all’individualismo, verso un ideale di vittoria a tutti i costi, ma tanto fragili da sprofondare nel baratro, affossati dal pubblico ludibrio qualora così non fosse. E quelle anime sciagurate costrette a subire tutto questo, lasciate spesso sole nell’incapacità di reagire con senno, beh, siamo sempre noi.

Dietro la Ghotam di Joker si nasconde una New York atemporale, sospesa idealmente tra anni ’70 e ’80, ma che si rivela tristemente attuale: un Titanic metropolitano, (micro) mondo logoro, consunto, privo di valori e rispetto, dove chi ‘eccelle’ è una star, mentre tutti gli altri sopravvivono tra invidia e ammirazione verso i primi. Poi ci sono gli ultimi, quelli come Arthur, abbandonati anche dallo Stato. Siamo in un mondo che sta per perdere le sue ultime batterie, le sue ultime energie. O forse le ha già terminate e non se n’è ancora reso conto.

Una società in profonda crisi

Siamo in un momento storico particolarmente complesso per il futuro nostro, dei nostri figli e dell’intera umanità. Si tratta di una complessità data da una crisi intensa che interessa ogni aspetto delle nostre società: dalla politica alle istituzioni, dalle economie ai consumi, dalle culture alle religioni, tutto ci appare particolarmente e dolorosamente privo di valori di riferimento.

In uno scenario simile, incapaci di reagire per la mancanza di guide, di coscienza, di “supporto Istituzionale” e, (ancora troppo spesso) di libertà, non è inverosimile che si finisca per scegliere lo stesso modello di Arthur Fleck, quello che passando per delusione, scoramento e frustrazione, finisce per manifestarsi con rabbia e violenza. Un modello che, come già accaduto per la maschera di Guy Fawkes, il cospiratore inglese romanzato nel film “V per Vendetta”, diventa materialmente simbolo e volto della rivolta.

Sta avvenendo nella sanguinosa protesta di Hong Kong nei confronti della Cina, come testimoniano le immagini sui social di Deacon Lui, uno dei fotografi più attivi nel coprire la notizia, e che rincara la dose con un’immagine che ritrae lui stesso truccato come il Joker di Todd Phillips con la testa fuori da un tram e la didascalia “product of structural violence”. Ma le foto di Lui non sono le uniche a testimoniare i volti di quei ragazzi che indossano quella maschera, né ad Hong Kong, né tantomeno durante le rivolte in Cile, in Bolivia, a Beirut che stanno facendo il giro del mondo. Certo, sono diverse le motivazioni che muovono le masse in questione, ma molto spesso riconducibili a quel senso di sbandamento e a quella crisi di valori a tutti i livelli che citavamo prima, e che finiscono per unire tutti sotto lo stesso tetto.

Joker e quel volto così attraente per le nostre anime

Qui torna il ruolo sociale di un film: è come se il senso di emulazione con il buono non esistesse più, e un volto come quello del nuovo Joker diventa pericolosamente seducente e attraente per le nostre anime stanche e vuote. Così il tanto temuto rischio di ‘imitazione’, di fatto, c’è stato, ma non sotto le spoglie di qualcuno travestito da pagliaccio che si diverte a terrorizzare la gente in metropolitana, bensì nell’immedesimazione in quel Joker (ora sì…) che, divenuto tale, sceglie di iniziare a ribellarsi con violenza senza limiti ad un mondo che non lo ha mai voluto.

All’uscita del film, molti media definirono la pellicola pericolosa perché forte da indurre lo spettatore a scambiare la vendetta per giustizia, a parteggiare per il male, per il “cattivo” schierandosi con la sua violenza. Altri, come il giornalista Oscar di Montigny, lo hanno definito più che altro “irresponsabile”, per la sua capacità, in una società come quella descritta, di riunire in sé tutte le maschere usate sin qui dalla storia della rabbia civile, fino a superarla nella rappresentazione scenica di un Caos legittimato dalla società delle asimmetrie e, per questo, legittimo. Punto di vista decisamente condivisibile, confermato dai fatti menzionati sopra.

Nel finale, chiede retoricamente di Montigny, se questo mondo, abbia bisogno di un nuovo Dio della ribellione come soluzione finale. Se non, piuttosto, di una nuova visione/educazione condivisa orientata al rispetto. La risposta è, appunto, scontata. Ma proprio in virtù di questa ultima riflessione e di quanto detto fin ora, probabilmente non è il film ad essere irresponsabile…

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