Gideon Rachman, giornalista britannico e principale commentatore politico del Financial Times, ha recentemente sostenuto che il mondo sta entrando in un’era post-americana. Vale la pena riflettere su questa prospettiva anche alla luce di quanto sta avvenendo in questi giorni in Afghanistan.
La prima considerazione riguarda la politica estera americana. Dobbiamo prendere atto che essa, nella sua profondità strategica, non cambia a seconda dell’Amministrazione USA al governo. Forse, per un grande Paese con responsabilità internazionali di primo livello, è giusto che sia così. Tuttavia gli altri attori della scena internazionale, e per quanto ci riguarda l’Europa, è bene che ne siano consapevoli senza farsi affascinare e/o abbagliare dalle affinità politiche con il Presidente americano di turno. L’elezione del presidente Biden ha suscitato grandi speranze e aspettative in tutti i democratici del mondo. E in effetti i primi atti della nuova amministrazione americana, rientro negli accordi internazionali sull’emergenza climatica, il nuovo approccio alla problematica migratoria dai confini meridionali degli USA, l’accordo in sede G20 per la tassazione sui profitti delle multinazionali, l’impegno a distribuire i vaccini anti COVID a tutti i Paesi più bisognosi, un nuovo approccio verso il multilateralismo e le sue istituzioni (ONU, NATO, G7 e G20), un rinnovato e ritrovato rapporto con l’Europa, sono stati atti concreti che le democrazie europee, e tutti noi con esse, abbiamo salutato come un cambiamento radicale rispetto agli anni di Trump.

Oggi, la precipitosa fuga statunitense dall’Afghanistan e con loro di tutti gli altri alleati occidentali, per come è stata decisa, per come è avvenuta, per le conseguenze che sta determinando sia per il popolo afgano che per gli assetti geopolitici globali, è in evidente contraddizione con quanto ci avevano fatto immaginare i summenzionati atti dell’amministrazione Biden. Ma è una contraddizione? Tutto ruota intorno al concetto di “interesse americano”. L’affermazione di questo interesse è una costante della politica estera e di quella militare degli USA fin dalla fine della seconda guerra mondiale ma si è ulteriormente rafforzata dopo la caduta del muro di Berlino e il successivo disfacimento dell’URSS. Tutte le Amministrazioni, tutti i Presidenti americani, sia democratici che repubblicani, sono stati fedeli a questo criterio. Le differenze riguardano le politiche per realizzare quell’obiettivo. Non si tratta di differenze di poco conto: tra l’estremismo trumpiano dell’”America first” e il proposito di Biden dell’“America is back” ci sono profonde differenze che riguardano, innanzi tutto, il modo in cui gli USA vogliono rapportarsi con il resto del mondo; lo stesso vale tra il discorso di Obama all’Università del Cairo e le teorie dei Bush sull’esportazione forzata della “democrazia”. Allora perché Biden ha deciso questo frettoloso abbandono dell’Afghanistan? Senza voler ritornare sulle ragioni di questa guerra (a mio avviso inevitabile) cominciata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre 2001 al cuore degli USA prima e poi contro obiettivi europei (la stazione di Atocha a Madrid, la metropolitana di Londra, gli attentati in Francia e Germania), bisogna riflettere su come si è deciso di concluderla.

Biden, già durante il suo mandato di vice presidente di Obama, era convinto che andava conclusa la guerra afgana. Forse allora, dopo l’uccisione di Osama Bin Laden, sarebbe stata la naturale conclusione a seguito del raggiungimento dell’obiettivo di aver smantellato la rete terroristica di Al Qaeda, responsabile di quegli attentati. Tuttavia ciò non avvenne e gli USA, insieme agli alleati occidentali (con un ruolo non secondario dell’Italia) e su richiesta di una parte degli afgani, ridefinirono il ruolo della missione militare, assegnandogli il compito di promuovere e proteggere la nascita di un nuovo Afghanistan rispettoso dei diritti civili, primi fra tutti quelli delle donne. Tanti sforzi economici e militari sono stati profusi (doveroso ricordare i 34 militari italiani che hanno pagato con la propria vita questo obiettivo) ma si è sottovalutata la natura tribale della realtà afgana e la sua economia largamente basata sulla produzione e la vendita, ovviamente tramite canali illegali, di oppio. Inoltre non bisogna dimenticare che era stato Trump a decidere l’abbandono dell’Afghanistan, definendo con i Talebani tempi e modalità del ritiro negli accordi di Doha. Gli altri paesi occidentali, presenti con le loro forze sul territorio afgano, non hanno potuto far altro che accodarsi alle decisioni statunitensi, non avendo le capacità militari e di intelligence necessarie a reggere la situazione.

Se da Trump era prevedibile aspettarsi decisioni unilaterali, visto che aveva già dato prova di sé abbandonando alla vendetta turca i combattenti curdi che in Siria erano stati determinanti per la sconfitta dello Stato Islamico, non così da Biden. Il Presidente americano, per soddisfare la sua opinione pubblica interna, non ha esitato a prendere unilateralmente una decisione che mette in crisi la NATO, sotto il cui “cappello” era la missione internazionale e abbandona al loro destino quegli afgani che avevano creduto alla possibilità, offerta dalla presenza di truppe occidentali, di poter costruire un nuovo Afghanistan capace di lasciarsi alle spalle sia la struttura tribale che l’interpretazione talebana della Shari’a. E questo nonostante Italia e Gran Bretagna, i due partner più impegnati sul terreno e che avevano dato il loro contributo di sangue alla riuscita della missione, avessero esplicitamente invitato gli Stati Uniti a una uscita più graduale, costruita sulla base di un accordo più stringente sugli impegni dei talebani verso la società afgana, mantenendo una attività di formazione e consulenza a favore delle forze armate afgane. In assenza di questo quadro di garanzie, l’esercito afgano si è liquefatto in un baleno, la dirigenza politica del Paese, fatta da notabili corrotti e predatori del loro stesso popolo, è fuggita all’estero, i capi tribù si sono accordati con i talebani, con il risultato di avere ora una popolazione terrorizzata, conscia di aver perso tutte le conquiste realizzate sul piano dei diritti civili, della libertà di informazione, del rispetto dei diritti delle donne e della loro possibilità di essere protagoniste della rinascita del Paese.

Le donne, secondo la dottrina talebana, che non va confusa in maniera tranchant con quella islamica, non hanno alcun diritto né alcuna soggettività, devono essere totalmente asservite agli uomini, buone soltanto a procreare e a soddisfare le voglie degli uomini di cui sono proprietà, un bottino di guerra. Con questa precipitosa fuga, gli Stati Uniti perdono ogni credibilità nella gestione delle situazioni di crisi internazionale, nessuno, a buon diritto, si fiderà più delle loro promesse e dei loro impegni. Altri saranno i soggetti internazionali che potranno tentare, come stanno già facendo, di assumere il ruolo di garanti e di mediatori delle crisi internazionali. Le conseguenze di questa verticale caduta di credibilità internazionali degli Stati Uniti le vedremo nelle prossime settimane. In tutte le altre situazioni di crisi del pianeta, dalla Libia al Libano, dall’Ucraina alla Siria, dal Sahel a Taiwan, si sono spalancate le porte ad un mondo “post americano”. Paesi come Cina, Russia, Turchia si proporranno come interlocutori più credibili e tenteranno di allargare la loro sfera di influenza, forti della delegittimazione del gigante americano.

E l’Europa? Ancora una volta brilliamo per la nostra inconsistenza, per la nostra incapacità di incidere nelle scelte internazionali, per le nostre divisioni. Eppure saremo i primi a dover pagare il prezzo di queste scelte perché è in Europa che cercheranno scampo gli afgani che non vogliono vivere sotto il regime talebano, così come tutte le altre popolazioni mediorientali e africane in fuga da guerre, carestie e da regimi sanguinari e illiberali. Nella nuova situazione globale o l’Europa sarà capace di assumersi maggiori responsabilità nella scena internazionale, o sarà in grado di proporre un multilateralismo alla pari con gli USA, oppure sarà anch’essa responsabile del declino della democrazia liberale, del nostro sistema sociale ed economico, del nostro stile di vita. E saremo contemporaneamente responsabili verso quei popoli, quei Paesi che, senza l’Europa saranno giocoforza costretti a ricadere nell’orbita delle altre potenze che giocano spregiudicatamente sulla scena internazionale. È ora di dire basta ai piccoli interessi, agli egoismi, alle gelosie giustificate da supposti interessi nazionali. L’unico interesse nazionale di ciascun cittadino europeo è un’Europa unita e federale, con governanti eletti dal Parlamento europeo, un’unica politica estera, un unico Esercito, un’unica politica fiscale, un unico sistema di welfare. Basta con il potere di veto dei singoli Stati che paralizzano le scelte necessarie a far crescere il ruolo europeo nel mondo. Possiamo e dobbiamo ambire a svolgere un ruolo stabilizzatore e moderatore delle crisi e delle tensioni internazionali, assumerci il compito di essere portatori di sviluppo, di crescita sociale, di benessere diffuso, di pace. Non è costruendo muri o blocchi navali che difenderemo la nostra civiltà e il nostro benessere. La via per ricostruire la credibilità globale dell’occidente democratico è quella del multilateralismo paritario e cooperativo.

(foto dal sito dell’Huffington Post)

1 commento

  1. Il testo proposto offre molte affermazioni su cui convenire. Forse potremmo approfondire di più le cause, ben più lontane dell’aprile 2021, del brillante risultato dei talebani. Probabilmente più di qualche poltrona salterà in vari settori del Governo USA , ma non c’è dubbio che la responsabilità di Biden è oggettiva anche se la sua coerenza decennale sul tema non ha trovato il supporto necessario della intelligence e del Pentagono per evitare che le colpe di Trump fossero dimenticate ma soprattutto per evitare di assumersi anche responsabilità e colpe non sue con gravi conseguenze sul piano internazionale.
    Certo la gestione sbagliata e sonnolenta della questione Afghana di EU e NATO non si può giustificare con la banale affermazione che Biden li ha informati poco ed in ritardo. Troppo afoni, troppa normale amministrazione da parte di EU e NATO. Prendiamone atto e smettiamo di scaricare tutte le responsabilità sugli USA.
    Oggi non dobbiamo rinunciare alla strategia “USA is back”, il secolo post americano son può trasformarsi nel secolo anti americano. Gli USA hanno bisogno dell’Europa e l’Europa, che ha comunque bisogno degli USA deve saper fare di più e meglio. Dobbiamo rilanciare lo slancio e la strategia che ci ha portato al PNRR. Senza dilungarci in dibattiti su l’Europa Federale o Confederale dobbiamo spingere per una nuova governance che liberandoci dai veti-Paese ci consenta di essere più efficaci nel sostenere i valori che ci animano e le scelte conseguenti.
    Dobbiamo imporre agli USA una maggior coerenza nel declinare “USA is Back” che non può essere solo un occasionale slogan o una strategia a corrente alternata. Dobbiamo proporre obiettivi prioritari, sui quali coinvolgere gli USA e la NATO. Ed in questa fase gli obiettivi prioritari per l’Europa si chiamano Mediterraneo e Balcani. Per fortuna molto diversi dall’Afghanistan ma dobbiamo evitare che si trasformino nella nostra via crucis studiando un progetto poliennale di interventi economi e sociali con i quali collaborare con quei Paesi (in primo luogo Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e magari anche il Libano) per riprendere anche un ruolo politico e culturale fuori da schemi neocolonialisti ma in una logica di cooperazione rafforzata, di joint venture, di obiettivi comuni di sviluppo che contemporaneamente ad una gestione olistica del tema delle migrazioni garantisca all’Europa ed ai Paesi del Mediterraneo una piattaforma per una nuova alleanza per lo sviluppo.

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